"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

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domenica 29 settembre 2013

LACRIME DI COCCODRILLO (Marco Travaglio)

Da qualche tempo a questa parte, appena prende la parola, il che gli accade ormai di continuo, in una logorrea esternatoria senza soste, anche due volte al giorno, prima e dopo i pasti, il presidente della Repubblica piange. È una piccola variante sul solito copione: il monito con lacrima. A questo punto mancano soltanto le scuse al popolo italiano, unico abilitato a disperarsi per lo schifo al quale è stato condannato da istituzioni e politici irresponsabili. Cioè responsabili dello schifo. L’altro giorno, mentre Letta Nipote garantiva agli americani che il suo governo era stabile e coeso come non mai e B. raccoglieva le firme dei suoi 188 servi in Parlamento per minacciare di rovesciarlo, Napolitano definiva “inquietante” la pretesa del Caimano di condizionarlo per fargli sciogliere le Camere e interferire nei processi giudiziari. E lo dice a noi? Sono anni e anni che lui, non noi, corre in soccorso dell’Inquietante non appena è in difficoltà.
Lo fece nel novembre 2010, quando Fini presentò la mozione di sfiducia al governo B. e lui ne fece rinviare il voto di un mese, dando il tempo all’Inquietante di comprarsi una trentina di deputati. Lo rifece nel novembre 2011, quando B. andò a dimettersi per mancanza di voti alla Camera, e lui gli risparmiò le elezioni anticipate, dando il tempo all’Inquietante di far dimenticare i suoi disastri quando i sondaggi lo davano al 10 per cento. Lo rifece quest’anno, dopo la batosta elettorale di febbraio (6,5 milioni di voti persi in cinque anni): prima mandò all’aria ogni ipotesi di governo diverso dall’inciucio, tappando la bocca ai 5Stelle che chiedevano un premier fuori dai partiti; poi accettò la rielezione al Quirinale, sostenuta fin dal primo giorno proprio da B., quando ancora Bersani s’illudeva di liberarsi della sua tutela; infine impose le larghe intese, in barba alle promesse elettorali di Pd e Pdl, e nominò premier Letta Nipote che, come rivela Renzi nel suo libro, era stato scelto da B. prim’ancora che dal Pd.
L’idea di consultare gli elettori gabbati per sapere che ne pensavano (come si appresta a fare l’Spd con un referendum fra i suoi elettori prima di andare a parlare con la Merkel), non sfiorò nessuno. Tanto i giornaloni di destra, centro e sinistra suonavano i violini e le trombette sulla “pacificazione” dopo “vent’anni di guerra civile”. E B., semplicemente, ci credette: convinto che Napolitano e Pd l’avrebbero salvato un’altra volta. Il Fatto titolò: “Napolitano nomina il nipote di Gianni Letta”. Apriti cielo. A Linea notte Pigi Battista tuonò contro quel titolo “totalmente insensato, eccentrico, bizzarro, non certo coraggioso” perché “non riconoscere che Enrico Letta sia una figura di spicco del Pd e scrivere che la sua unica caratteristica è essere nipote di Gianni Letta è una scemenza. Non vorrei che passasse l’idea che ci siano giornali, come il Corriere su cui scrivo, accomodanti e trombettieri, e altri che dicono la verità, sono coraggiosi, stanno all’opposizione”. Ieri il coraggioso Corriere su cui scrive Battista pubblicava le foto di Enrico e Gianni Letta imbalsamati che sfrecciano sulle rispettive auto blu dopo l’incontro al vertice di venerdì, quando “a Palazzo Chigi arriva anche lo zio di Enrico, Gianni Letta. Incontri non risolutori, che preparano il colloquio delle 18 al Quirinale”. C’era da attendersi un puntuto commento del coraggioso Battista per sottolineare quanto fosse insensata, eccentrica, bizzarra questa simpatica riunione di famiglia fra il premier e lo zio, sprovvisto di qualunque carica pubblica, o elettiva, o partitico, che ne giustificasse la presenza a Palazzo Chigi.
L’indomani Napolitano lacrimava alla Bocconi perché B. ha “smarrito il rispetto istituzionale”. Perché, quando mai in vent’anni l’ha avuto? Per smarrire qualcosa, bisognerebbe prima possederla. Intanto il ministro Franceschini , in Consiglio dei ministri, si accapigliava con Alfano: “Voi volete solo salvare Berlusconi!”. Ma va? E quando l’ha scoperto? Infine ieri, mentre tutti parlavano di fine del governo e di “punto di non ritorno”, Napolitano dimostrava che il punto di non ritorno non esiste, la trattativa Stato-Mediaset è più che mai aperta.
Infatti chiedeva, eccezionalmente a ciglio asciutto, “l’indulto e l’amnistia”. Ma sì, abbondiamo. Così sparirebbero per incanto i processi Ruby-1 e Ruby-2, De Gregorio, Tarantini, Lavitola, la sentenza Mediaset e tutti i reati commessi da B. ma non ancora scoperti. I detenuti perbene dovrebbero dissociarsi e rifiutare di diventare gli scudi umani per B.&N., a protezione del sistema più marcio della storia. Essi sì avrebbero diritto a versare qualche lacrimuccia. Invece in Italia lacrimano solo i coccodrilli: chi è causa del nostro mal, piange al posto nostro.



Due caimani e due bande di camerieri

Il Caimano. Debbo dire che Moretti aveva capito prima e meglio di tutti chi fosse il personaggio Silvio Berlusconi. E lo capì altrettanto bene Roberto Benigni scrivendo su di lui una ballata citata ieri sul nostro giornale da Gianluigi Pellegrino: "Io compro tutto dall'A alla Z / ma quanto costa questo c... di pianeta. / Lo compro io. Lo voglio adesso. / Poi compro Dio, sarebbe a dir compro me stesso".

Quanto a me, poiché siamo in tema di ricordi, in un articolo del 1992 scrissi e titolai: "Mackie Messer ha il coltello ma vedere non lo fa". E poi D'Avanzo e la "dismisura" del Capo e proprietario di Forza Italia denunciata da Ezio Mauro come una sorta di lebbra che infetta e uccide la nostra democrazia.

Per dire chi è il Caimano la vena satirica e il giornalismo vedono talvolta più lontano della politica. La magistratura che ha il potere di controllo sulla legalità, è più lenta ma poi, quando arriva all'accertamento della verità, le sue sentenze definitive non consentono salvacondotti di sorta, il Caimano e il Mackie Messer di turno finiscono, come è giusto, in galera. Salvo difendersi con l'eversione.

Le dimissioni di tutti i deputati e i senatori del Pdl, chieste ed anzi imposte da Berlusconi e raccolte dai capigruppo Brunetta e Schifani, sono eversione vera e propria e così l'ha definita il presidente della Repubblica.

Non sono in nessun caso paragonabili all'Aventino messo in atto novant'anni fa dai deputati antifascisti. Loro avevano quella sola risposta possibile contro il regime dittatoriale che aveva calpestato e distrutto la democrazia; questi di oggi hanno la democrazia nel mirino e sperano che con questa trovata possano travolgere lo Stato di diritto che è la base sulla quale la democrazia si fonda.

Questo è l'obiettivo principale che il Caimano e i suoi sudditi ci propongono. Un obiettivo però difficilmente raggiungibile per due ragioni. La prima è procedurale: le assemblee parlamentari non possono funzionare se per qualche ragione viene a mancare non occasionalmente ma in permanenza il numero legale. Ma le dimissioni dei parlamentari del Pdl non incidono sul numero legale. Alla Camera il Pd da solo ha la maggioranza assoluta; in Senato la maggioranza è di 161 membri mentre i senatori del Pdl, della Lega e degli altri loro alleati raggiungono i 117. Quindi il Parlamento può continuare a funzionare.

Ma c'è un secondo elemento non procedurale ma politico: una parte dei sudditi forse non è più disposta a sopportare la sudditanza quando essa sconfina nell'eversione. Qualche segnale in questo senso c'è. Forse si aprirà qualche faglia nel Pdl che potrebbe innescare una vera e propria implosione. Si tratta di problemi di coscienza e di coraggio. Non ci metterei la mano sul fuoco per affermare che avverranno ma certo il tempo per verificarlo è molto breve.

L'altro bersaglio del Caimano è quello di abbattere il governo Letta o - peggio - di lasciarlo in vita paralizzato e logoro ogni giorno di più come già è stato tentato con qualche successo nei mesi scorsi e come si è platealmente verificato nella seduta del Consiglio dei ministri di venerdì, portando Letta alla conclusione di spezzare questo circuito nefasto e presentarsi alle Camere chiedendo la fiducia su un programma concreto e vincolante per tutti i parlamentari di buona volontà, quale che ne sia il colore e la provenienza.

Il Capo dello Stato è d'accordo su questo percorso, ricordando che i primi adempimenti con tempistica obbligatoria debbono essere la riforma elettorale che modifichi il "porcellum" in modo adeguato abolendo i suoi aspetti chiaramente anticostituzionali e l'approvazione della legge finanziaria senza di che il primo gennaio andrebbe in vigore l'esercizio provvisorio con la conseguenza di portare al fallimento la nostra finanza pubblica e al suo commissariamento da parte dell'Unione europea, della Banca centrale e del Fondo monetario internazionale.

A questa catastrofe che peserebbe sulle spalle di tutti gli italiani il Caimano e quelli che gli danno man forte ci possono arrivare e vogliono arrivarci. Il paese e gli elettori dovrebbero risvegliarsi e farsi sentire. Capiranno? Lo faranno? O una parte rilevante di loro mangerà ancora una volta la minestra avvelenata della demagogia? Sarebbe la sesta volta in diciannove anni di berlusconismo. Il pericolo è questo.

* * *

Enrico Letta si presenterà alle Camere domani e dopo domani (meglio prima che dopo) con un programma concreto delle cose da fare.

Le prime due (riforma elettorale e approvazione delle legge finanziaria) le abbiamo già dette. Ma il contenuto di quest'ultima sarà aggiornato e integrato da decreti che tengano conto degli impegni già indicati cinque mesi fa, sui quali allora il governo ottenne l'ampia fiducia del Parlamento. Fermi restano quelli presi con l'Europa di mantenere il deficit sotto la soglia del 3 per cento per evitare la ripresa della procedura di infrazione da parte dell'Ue, tutti gli altri sono dedicati alla crescita, agli sgravi delle imposte che pesano sui lavoratori e sulle imprese e sulle relative coperture finanziarie, credibili e non inventate.
La cifra totale delle risorse che è necessario reperire oscilla tra i 5,5 e i 7 miliardi, necessari soprattutto per evitare l'aumento dell'Iva, incentivare l'industria e i lavoratori e aumentare entro quest'anno il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione creando in tal modo una liquidità preziosa per le imprese e per le banche.

Un programma al quale hanno lavorato nelle scorse settimane lo stesso Letta e Saccomanni. Ma il Caimano ha fiutato il pericolo ed ha emesso ieri pomeriggio un ultimatum rivolto questa volta ai suoi ministri: debbono dimettersi immediatamente perché l'aumento dell'Iva ci sarà. Doveva essere impedito dal Consiglio dei ministri di ieri, ma sono proprio i suoi ministri ad aver congelato quel Consiglio impedendo che prendesse qualunque deliberazione. Adesso il Caimano, sfoderando l'ennesima bugia, rovescia le responsabilità per mandare all'aria il governo prima ancora che si presenti alle Camere.

Resta ora da vedere se i suoi ministri si piegheranno all'ultimo ordine del boss. Tutti o solo alcuni? Tutti, capitanati da Alfano. Non ministri, ma camerieri che antepongono gli ordini del padrone agli interessi del paese.

Così l'Iva aumenta, la seconda rata dell'Imu dovrà esser pagata, le erogazioni destinate a pagare i debiti dell'amministrazione saranno bloccate e lo "spread" tornerà irrimediabilmente a salire. Il tutto senza curarsi dello sfascio del paese pur d'allontanare l'applicazione d'una sentenza che punisce un congenito evasore fiscale e creatore di fondi neri destinati alla corruzione.

Ci auguriamo che Letta vada fino in fondo e attendiamo anche di vedere come si comporteranno in questo caso Vendola e la sinistra che guarda le stelle (cinque che siano) e metta invece finalmente i piedi per terra.
Quanto a Grillo sappiamo che cosa vuole perché lo dichiara un giorno sì e l'altro pure. Può sembrare strano, ma vuole le stesse cose di Berlusconi: la caduta del governo, le elezioni anticipate col "porcellum", le dimissioni di Napolitano e un governo di grillini e di chi la pensa come loro (Berlusconi?) per una politica che si disimpegni dall'Europa e dall'euro e spenda e spanda per far contenti gli italiani.

Ma in che modo li farà contenti? Il risultato sarà lo sfascio totale, peggio della Grecia che comunque dall'Europa e dall'euro non è uscita e non vuole uscire.

La Grecia è irrilevante per l'equilibrio europeo; l'Italia no. Il fallimento dello Stato italiano, una democrazia etero-diretta da due caimani, una spesa pubblica alle stelle (molto più di cinque) e i mercati all'assalto del nostro debito, del tasso di interesse e di quello dell'inflazione, sarebbe più d'una catastrofe. Finiremmo come il Mali o il Kazakistan o la Somalia, nelle mani di due bande dominate da due irresponsabili.

Questa è la posta in gioco e ormai è questione di giorni.

Eugenio Scalfari (La Repubblica - 29 settembre 2013


L’Avvocatura Stato-mafia

Tenetevi forte perché questa è strepitosa: il presidente della Repubblica non solo non è indagabile, intercettabile, ascoltabile, nemmeno se uccide la moglie o parla con uno che ha ucciso la moglie; non solo non può essere nominato in Parlamento, come disposto dagli appositi Boldrini e Grasso; ma non può neppure testimoniare la verità in un processo, nemmeno se conosce elementi utili a far luce su un delitto.
E, già che ci siamo, non può testimoniare nessuno che abbia parlato con Lui anche solo una volta o abbia avuto contatti anche sporadici con Lui, essendo irradiato per contagio dal Suo scudo stellare. A sostenere questa tesi allucinante e allucinogena non è uno squilibrato, un ubriaco o un tossico, ma nientepopodimenoché l’Avvocatura dello Stato: un’istituzione pagata da noi cittadini che rappresenta il governo e la Regione Sicilia come parti civili nel processo dinanzi alla Corte d’Assise di Palermo sulla trattativa Stato-mafia.
L’altro ieri la Procura di Palermo ha ribadito la necessità di sentire come teste Giorgio Napolitano a proposito di quel che gli scrisse il 18 giugno 2012 il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, in una lettera fatta pubblicare dallo stesso capo dello Stato: “Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente… episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi di cui ho detto anche ad altri – quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi…”.
Siccome D’Ambrosio è morto d’infarto un mese dopo, l’unico depositario vivente (“lei sa”) e sicuro (“ho detto anche ad altri”, ma non si sa chi siano) di quelle terribili confidenze sugli “indicibili accordi” fra Stato e mafia mentre D’Ambrosio nel 1989- ‘93 lavorava all’Alto commissariato Antimafia e poi al ministero della Giustizia, è Napolitano.  Il quale avrebbe dovuto precipitarsi dai pm per dire tutto ciò che sa ancor prima di esserne convocato. Ma, siccome non l’ha fatto, avrebbe dovuto pregare il governo di incaricare l’Avvocatura dello Stato (che rappresenta gli italiani, non lui) di dire subito sì alla sua audizione. Invece il suo vice al Csm, l’ineffabile Vietti, continua a lanciare messaggi obliqui contro chi vuole ascoltarlo.
E l’avvocato dello Stato (cioè nostro) Giuseppe Dell’Aira tenta di sostenere che il capo dello Stato, in virtù dei suoi presunti “compiti di coordinamento politico e operativo” non di sa di cosa (né dove stia scritto in Costituzione), godrebbe di “assoluta riservatezza sia per le attività pubbliche che per quelle informali” (ma la Costituzione lo copre solo nell’esercizio delle sue funzioni). Fin qui l’avvocato pubblico riprende l’incredibile sentenza della Consulta che ordinò la distruzione delle telefonate Napolitano-Mancino. Poi però, con un bel salto logico, arriva a sostenere che il Presidente non deve testimoniare sulla lettera di D’Ambrosio (totalmente estranea ai colloqui), e non devono farlo neppure i Pg di Cassazione Esposito e Ciani, né l’ex procuratore antimafia Grasso, né il segretario del Quirinale Marra, in quanto testi “riferiti alla funzione presidenziale”. Eppure i pm non vogliono sentirli sulle telefonate Napolitano-Mancino, ma su quelle Mancino-D’Ambrosio e sulla lettera che Marra inviò al Pg per raccomandare la richiesta di Mancino di convocare Grasso per deviare altrove l’indagine di Palermo. Il quale Grasso – con buona pace del disinformatore Massimo Bordin – fu convocato da Ciani per ordine del Colle, ma respinse quella proposta indecente perché non aveva né potere né motivo per accoglierla. Secondo l’avvocato dello Stato però è vietato financo trascrivere le telefonate D’Ambrosio-Mancino, peraltro già trascritte, perché pure D’Ambrosio sarebbe circonfuso per irradiazione dall’immunità napolitana.
Nenti sacciu, nenti vitti, nenti dissi. Massima solidarietà all’Avvocatura della Mafia che, a questo punto, sarà a corto di argomenti.



Intervista censurata di Enzo Biagi a Indro Montanelli su Berlusconi


sabato 28 settembre 2013

Il falò della servitù

Pare che circolino dei moduli prestampati per consentire ai parlamentari del Pdl di presentare le loro dimissioni senza star lì a perder tempo. Ma poiché la Costituzione dice che il parlamentare è senza vincolo di mandato, e questa assomiglia molto a una servitù di mandato, si precisa che chi vuole può anche scriversela di suo pugno la lettera, con le motivazioni che preferisce, purché la firmi. A questo il Porcellum ha ridotto il Parlamento, e non solo a destra per la verità: a un bivacco di subordinati.
Ma del resto quasi tutto è senza precedenti in questa storia delle dimissioni di massa postdatate. Al punto che il presidente della Repubblica ha sentito il dovere di alzare la voce come non aveva mai fatto prima, condannandola con parole durissime, segnalandone la «gravità e assurdità». Napolitano l'ha interpretato come un atto che porta il gioco politico già estremo di queste settimane oltre il segno, oltre un punto di non ritorno. Le dimissioni dei ministri del Pdl avrebbero sì aperto una crisi di governo; ma le dimissioni dei parlamentari aprirebbero una crisi costituzionale, mettendo in conflitto tra di loro i poteri dello Stato. Esse minacciano, cioè, un atto al limite dell'eversione (la serrata del Parlamento) per protestare contro ciò che si definisce un «atto eversivo» (un voto del Parlamento sulla decadenza).
Berlusconi sembra dunque sperare che la decadenza dell'intero Parlamento possa rendere meno amara la inevitabile fine della sua vita parlamentare. Coinvolgendo le istituzioni nel proprio destino giudiziario, accetta però il teorema dei suoi nemici, che vorrebbero ridurre la sua storia politica ventennale a una vicenda di processi e di condanne. E toglie le castagne dal fuoco a chi nel Pd alimenta da mesi il falò dell'intransigenza, diventando lui il sicario di un governo in realtà mai digerito a sinistra.
Ma tant'è: da oggi si può davvero dire che l'esecutivo Letta è al capolinea. Non avrebbe senso assumere altri impegni di bilancio, per evitare l'aumento dell'Iva o il ritorno dell'Imu, quando non si sa chi potrà rispettarli. Il presidente del Consiglio deve dunque fare la cosa giusta e istituzionalmente corretta: andare alle Camere per verificare se ne ha ancora la fiducia. In questi mesi, anche per gli errori di un governo che ha sommato invece di selezionare le pretese dei partiti, Letta non è riuscito a domare il fronte di chi voleva le elezioni a febbraio e che ha sfruttato la vicenda giudiziaria di Berlusconi per averle. Ora non gli resta che l'ultima carta: rimettere al centro la ragione per cui è nato.
Il 15 di ottobre, infatti, non è solo la data in cui Berlusconi andrà agli arresti domiciliari o ai servizi sociali. È anche il termine per presentare la legge di Stabilità, e cioè il principale strumento di politica finanziaria dello Stato. Senza di quello, l'Italia può tornare nel gorgo dove stava affogando nel novembre del 2011. Due anni di lacrime e sangue vanificati in un istante. Vediamo chi vota per la rovina nazionale.
 
 
 

venerdì 27 settembre 2013

Banche di Spagna Banche d'Italia



Il 10 aprile scorso, il Governatore del Banco de España, Miguel Fernandez Ordoñez, a pochi mesi dalla scadenza del suo mandato, ha rivendicato con forza l’azione svolta dalla banca centrale quale autorità di vigilanza nel disegnare una nuova realtà del sistema bancario spagnolo, soprattutto per quanto riguarda gli enti finanziari minori.

Nella sua analisi egli parte dalla constatazione che mai il suo Paese aveva dovuto affrontare in pochi anni tre ondate di crisi: la prima quella internazionale, la seconda puramente interna e la terza innescata dalla crisi dell’euro e del debito sovrano. Quindi tre crisi in parte successive e in parte contestuali che hanno provocato cali vistosi nel PIL e nelle entrate tributarie che portarono nel 2009 a un deficit corrente pari all’11% del PIL e a un deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti di oltre il 10%.

Più che i titoli tossici dei mercati d’azzardo di matrice anglosassone è stato questo contesto macroeconomico a influenzare negativamente il sistema bancario. Parimenti tali fattori hanno spinto le banche a operare un’autentica riconversione di tipo industriale del sistema finanziario spagnolo che ha investito le “institutiones pequeñas y medianas”, in modo drammatico.

Tramite una serie d’importanti misure legislative si crea Daniele Corsini, Davide De Crescenzi nel 2009 il Fondo de Ordenada Reestructuration Bancaria - FORB, si dota la banca centrale di maggiori e più fficaci poteri di vigilanza e di gestione delle crisi, si procede alla fusione dei diversi fondi di garanzia. Nelle parole del Governatore, l’aspetto singolare è stato di dover implementare tutte le misure di protezione durante la crisi. E’ come se su un battello, mentre si sta ordinando l’evacuazione dei passeggeri, si debbano riparare anche le lance di salvataggio, facendo così un doppio lavoro.

I risultati in termini di riduzione della capacità produttiva del sistema bancario sono significativi: il numero di sportelli è diminuito del 12% e quello degli addetti del 10%. Per le cajas de ahorro (casse di risparmio) la riduzione è più marcata, pari rispettivamente al 16% e al 13%. Sono anche sparite per processi di integrazione 30 banche di cui 28 casse di risparmio.

Reestructuration Bancaria - FORB, si dota la banca centrale di maggiori e più efficaci poteri di vigilanza e di gestione delle crisi, si procede alla fusione dei diversi fondi di garanzia. Nelle parole del Governatore, l’aspetto singolare è stato di dover implementare tutte le misure di protezione durante la crisi. E’ come se su un battello, mentre si sta ordinando l’evacuazione dei passeggeri,  si debbano riparare anche le lance di salvataggio,  facendo così un doppio lavoro.

I risultati in termini di riduzione della capacità produttiva del sistema bancario sono significativi: il numero di sportelli è diminuito del 12% e quello degli addetti del 10%. Per le cajas de ahorro (casse di risparmio) la riduzione è più marcata, pari rispettivamente al 16% e al 13%.

Sono anche sparite per processi di integrazione 30 banche di cui 28 casse di risparmio. Nel giro di qualche anno, la diagnosi preoccupata dell’organo di vigilanza riguardava la crescita eccessiva del credito, l'abnorme ampliamento della capacità produttiva, la frammentazione dispersiva della struttura per la presenza di 45 casse senza una chiara ripartizione dei diritti di proprietà, ma con forte potere di interdizione delle comunità locali. Tra il gennaio 2008 e l’estate 2011, le perdite complessive del settore bancario sono state pari al 10% del PIL, ma la struttura del sistema si è drasticamente ridimensionata, con le casse passate da 45 a 18 e trasformate in banche commerciali con un management più professionale.

Perché ci interessa da vicino un discorso che va in profondità come questo del Governatore spagnolo? Perché, fatte alcune debite proporzioni e riconosciuto che alcune riforme radicali sono state introdotte nell'ordinamento bancario italiano nel corso degli anni novanta, con lo scopo di ridurre la frammentazione del sistema e promuoverne una maggiore imprenditorialità, le situazioni critiche che stanno emergendo con crescente frequenza tra le banche del Centro-nord Italia portano a chiedersi se non si debba di nuovo intervenire con provvedimenti di sistema piuttosto che con singole azioni correttive. Si è di fronte all'esigenza di un sostanziale rafforzamento delle nostre banche del territorio, tanto importanti per la nostra economia, quanto al momento penalizzate dalla crisi e afflitte da mismanagement, che sta producendo scandali e prestiti di dubbia origine e di dubbio esito.

Sollecitate da alcuni positivi parametri delle economie locali, molte banche hanno ecceduto fin dai primi anni duemila nella ricerca di un dimensionamento dettato spesso da obiettivi di mera immagine, con evidenti incoerenze tra sviluppo dell'operatività e crescita della rete territoriale e del numero dei dipendenti. Quando la velocità di crescita dei volumi intermediati ha cominciato a rallentare, le inefficienze accumulatesi si sono immediatamente tradotte in aumento dei costi e in rigidità della gestione, lasciando pochi margini di manovra. Nel contempo la scarsa selezione del credito e una certa disinvoltura nel governare i conflitti di interesse hanno peggiorato la qualità dei portafogli e attirato, in non pochi casi, l'attenzione della magistratura. Le cause di questo cattivo governo sono state eccessiva influenza della politica, nazionale o locale, posizioni non proprio lungimiranti dei sindacati, ove coinvolti nella gestione, campioni dell'imprenditoria bancaria non sempre all'altezza del compito, poca tendenza alla innovazione, alla trasparenza e alla concorrenza. Il tutto, crisi o non crisi, sta imponendo al paese costi crescenti e sempre meno sostenibili.

Casi emblematici di crisi bancarie sono già emersi, ma molte situazioni covano ancora sotto la cenere. Il sistema,  nel suo insieme, dà insufficienti segnali di ridimensionamento della propria capacità produttiva, se si osserva che negli ultimi 5 anni il numero degli sportelli bancari si è ridotto solo del 2% e quello dei dipendenti del 5%, da 337.000 del 2005 a 319.000 del 2010. Nello stesso periodo il numero delle banche passa da 784 a 760 e altre infrastrutture come nel caso degli agenti,  dei mediatori creditizi e dei promotori restano superfetate.

In Italia vi sono 50 sportelli bancari ogni mille abitanti, contro 36 della media europea e 20 dei paesi più sviluppati. Ciò è anche espressione di un ridotto uso della telematica, delle carte di pagamento e delle altre modalità interattive basate sulla telefonia mobile e su internet.

Ne conseguono esigenze di riconversione industriale, basata su operazioni di consolidamento del sistema bancario soprattutto di quello minore da promuovere in tempi abbastanza rapidi introducendo sostanziali innovazioni di processo nei servizi bancari. Purtroppo non sembra che né le Autorità né le varie associazioni di categoria siano al momento sintonizzati su questa linea generale, per cui si procederà nella gestione delle singole situazioni di crisi, con notevole spreco di mezzi.

Nel contempo, si continuerà nella illusione che normative sempre più estese e complesse possano correggere attitudini contrassegnate dalle sopra richiamate discrasie.

Come si può ridurre l'effetto di improprie ingerenze nella gestione, di errori strategici spesso poco comprensibili, della scarsa attenzione agli aspetti industriali dell'impresa bancaria, delle sempre più diffuse situazioni di conflitto di interesse? Bisogna evitare di fare di ogni erba un fascio, ma episodi eclatanti sono, da molti anni, sotto gli occhi di tutti. Bisogna cominciare e, nessuno si offenda, da un maggior tasso di conoscenze tecniche degli organi amministrativi. I consigli di amministrazione sono spesso luogo di opinioni, più che di decisioni approfonditamente analizzate, cosa che alimenta scarsa collegialità e l'affermarsi di posizioni individuali che si perpetuano talvolta per molti mandati e si trasmettono all'interno di circoli ristretti, quando non per successione anche familiare.

Poca professionalità, poco ricambio, molte clientele, e, quando le cose si mettono male, ricerca dell'uomo della provvidenza, il quale, fin da subito, fa valere il prezzo della scarsità della propria prestazione. E, subito dopo, quello, più occulto, del sentirsi, anche psicologicamente,  svincolato da ogni sistema di controllo.

In conclusione, occorrono interventi generali, anche di ordine legislativo, in grado di produrre il riordino e il rilancio del sistema bancario minore, anche perché esso possa tornare a essere fattore di promozione dello sviluppo economico. L'esempio coraggioso della Spagna, compiuto senza temere accuse di dirigismo, si impone in misura sempre più cogente anche per il nostro Paese.

Daniele Corsini -  Davide De Crescenzi (Banche & Vanghe - Pensieri e Parole sulla Banca del Territorio)

giovedì 26 settembre 2013

Perché ci farebbe bene una guerra

A noi servirebbe una crisi molto più profonda di quella che stiamo attraversando. Una guerra, meglio ancora. Ma noi occidentali le guerre le facciamo agli altri, non le subiamo più. In Afghanistan ci sono più di tremila soldati italiani, ma la cosa non tocca la nostra vita quotidiana. Viviamo nelle retrovie. Piuttosto comodamente, tutto sommato. Eppure in giro è tutta una lagna. Le famiglie che non arrivano alla fine del mese. I giovani che non trovano lavoro. Ma nessuno è mai morto, in Italia, perchè non ha trovato lavoro. Caso mai è vero il contrario. I giornali sono zeppi di notizie economiche, di Ftsi, di spread, di Fed, di Eurostock, di imprese che chiudono. Ma l'economia non è tutto nella vita dell'uomo e di una comunità. “Non si vive di solo pane” ha detto qualcuno, che non è stato l'ultimo della pista, in un'epoca in cui il pane non abbondava. La verità è che il benessere ci ha fatto male. Abbiamo perso ogni capacità di soffrire, dimenticando che la privazione è pedagogica e che, come scive Nietzsche, “ogni malattia che non uccide il malato è feconda”. Perchè ci aiuta a riscoprire, o a scoprire, l'autentica gerarchia dei valori, a distinguere fra cio' che è essenziale e quello che non lo è. Durante una guerra un amore va fino in fondo a se stesso, fa piazza pulita delle stronzate, non ci si logora perchè uno schiaccia il tubetto del dentifricio dalla testa e l'altra dalla coda. Durante una guerra depressione e nevrosi, malattie della Modernità, crollano quasi a zero. Nel dopoguerra noi italiani, sconfitti, eravamo infinitamente più poveri di quanto lo si sia ora anche negli strati più bassi della popolazione. Ma eravamo anche infinitamente più sereni e più allegri. Dopo essere scampati ai bombardamenti angloamericani e ai rastrellamenti tedeschi ci bastava d'esser vivi, di gustare l'inestimabile piacere di sentirsi vivi. Tutti fumavano. I film erano pieni di attori con la sigaretta perennemente in bocca (Casablanca e Humphrey Bogart valgano per tutti). Non era ancora nato il terrorismo diagnostico, il terrorismo della medicina preventiva. Si viveva nel presente, non nel sempre imperscrutabile futuro. “I nostri ragazzi non hanno futuro”. Non si è mai sentita sciocchezza più grossa. Un ragazzo di vent'anni ha comunque più futuro di un uomo di settanta pieno di quattrini. Ci siamo inventati diritti inesistenti: al lavoro, alla salute e persino alla felicità com'è scritto nella Dichiarazione d'indipendenza di quegli eterni e pericolosi fanciulloni che sono gli americani (per la verità in quella Dichiarazione è affermato un meno irragionavole 'diritto alla ricerca della felicità' che pero' l'edonismo straccione contemporaneo ha introiettato come un vero e proprio diritto alla felicità). Diritti di tal genere non esistono perchè nessuno, foss'anche Domineddio, puo' garantirli. Esiste, quando c'è, la salute, non un suo diritto. Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità, non il suo diritto. In quanto al lavoro: o c'è o non c'è. E sarebbe più saggio affermare se non il diritto almeno la legittimità a battere la fiacca e a oziare. Invece siamo qui tutti, Stati, popoli e individui a sbranarci per 'competere' economicamente, a cio' indotti da un modello demenziale, per poi renderci conto, alla fine dell'esistenza, che abbiamo vissuto per il niente. Ecco perchè credo che, in mancanza di una guerra, una crisi economica vera non potrebbe farci che bene. 



lunedì 23 settembre 2013

Da Twitter a Instagram: clausole di accettazione da azzeccagarbugli

Qualcuno ha mai letto le clausole prima di scaricare un’App per smartphone? O prima di iscriversi a un social media? O di entrare in un sito che chiede la registrazione? Sono una trentina di pagine fitte fitte, i famosi “Termini e condizioni” alle quali noi aderiamo semplicemente cliccando “Accetta”. Cullen Hoback, regista americano li ha letti per noi e ci ha fatto un inquietante documentario. Si chiama “Terms and Conditions May Apply” e rivela cose molto inquietanti. Il quotidiano inglese Guardian, sempre attento a questi temi, ne dà un’anticipazione e un assaggio in video.
Intanto si scopre che è umanamente impossibile leggere i bugiardini, prima di accettare. A un utente medio ci vorrebbero 180 ore, cioè un intero mese di lavoro all’anno per leggere tutto prima di cliccare. E se comunque anche qualche folle volenteroso si fosse messo di buzzo buono per leggerle , non ci avrebbe capito niente, perché scritte nel solito incomprensibile legalese.
Quindi tutti clicchiamo e accettiamo, punto e fine. Accettiamo salvo poi dire: ma non lo sapevo. Linkedin, You tube, Google, Pinterest, Twitter, Instagram: nessuno si salva. Secondo il Wall Street Journal, ai consumatori costa qualcosa come 250 miliardi di dollari ogni anno cliccare senza leggere. Per esempio, chi mette le foto su Pinterest, accetta che la società le possa vendere a terzi per altri usi, tipo pubblicità.
Le grandi aziende possono fare accettare al consumatore praticamente tutto quello che vogliono, tanto nessuno legge. La società inglese Gamestation, che vende videogiochi, ha voluto scherzarci su. Nelle condizioni scrive: “Scaricando questo gioco tu ci concedi una opzione non trasferibile a rivendicare, ora e per sempre, un diritto sulla tua anima immortale”. Il contratto è valido solo per un giorno ed è chiaramente una provocazione, ma fa riflettere sulle conseguenze di quello che accettiamo. E ancora, nel contratto della compagnia telefonica americana AT&T è scritto in caratteri microscopici, che il cliente accetta di mettere a disposizione i suoi dati per indagini, prevenzione e lotta contro qualsiasi comportamento illegale.
Quando nel 2000 la società Toysmart è fallita, hanno avuto la brillante idea di recuperare un po’ di soldi vendendo il database dei propri clienti alla concorrenza: indirizzo, preferenze di consumo, dati bancari, il profilo familiare. Tutto è stato passato a terzi, anche se nei Termini e Condizioni è sempre vietato. Questo è un atto illegale, ma rimane il fatto che il consumatore, cioè voi, non potete fare niente per impedirlo, perché i vostri dati, una volta inseriti, rimangono nei database per sempre.
E questo uno dei punti su cui batte Hoback: “Mi piacerebbe almeno che ogni utente potesse almeno avere la possibilità di sapere quali dati ha una azienda su di lui”. “Il diritto di sapere, il diritto di controllare”, è il suo motto. Nel film c’è la storia di uno studente austriaco che decide di chiedere a Facebook quante informazioni hanno archiviato su di lui. Normalmente è una informazione che non si può avere, ma questo ragazzo ha trovato una scappatoia e la risposta è stata: su di lui, utente saltuario, hanno raccolto 1.200 pagine di pdf in meno di tre anni. Immaginiamoci la mole di dati per chi usa Fb di più, per condividere viaggi, cibi, spostamenti, amicizie, like. “Quando capisci quanto un’azienda ha memorizzato su di te”, spiega Hoback, “capisci che sei una merce in un commercio. Credi di avere un servizio gratis, ma tu sei parte del business“.
 ”Il diritto di controllo significa che noi dovremmo possedere i nostri dati personali, non l’azienda. E quando una società tradisce la nostra fiducia, dovremmo essere in grado di prendere i dati con noi e se vogliamo, distruggerli”, conclude Hoback. Ma questo non è possibile, per via del Patriot Act, il provvedimento approvato in America all’indomani dell’11 settembre, con il quale si accettavano restrizioni della privacy in nome nella sicurezza. È in base a quello che le aziende possono conservare (e anzi, collaborano con i governi per questo scopo) i nostri dati personali. Hoback sta raccogliendo firme per abolire il Patriot Act e questo documentario è la sua denuncia pubblica del perverso meccanismo.



sabato 21 settembre 2013

Craxi e i comici silenzi-dissensi di Giuliano Amato

Questa 'stroncatura', a suo modo preveggente, di Giuliano Amato è stata scritta nel gennaio del 2007 sul mensile 'Giudizio Universale'.

La prima volta che vidi Giuliano Amato fu a un dibattito televisivo agli inizi degli anni Ottanta. Accesi la Tv proprio mentre diceva: «Io parlo uno splendido italiano». Poichè eravamo ancora molto lontani dall'era delle volgarità berlusconiane mi colpi' la prosopopea di questo professorino allora totalmente sconosciuto ai più e ai meno perchè, benchè ordinario dal 1975 di Diritto costituzionale comparato alla Sapienza, non aveva pubblicato nulla, com'è ormai usanza dei nostri docenti universitari, da Panebianco a Della Loggia. Questa alta considerazione di sé la si ritrova in una recente minibiografia autorizzata dove Amato si fa descrivere cosi': «Uomo politico, noto per la sua leggendaria intelligenza e raro acume nell'esaminare gli eventi». In realtà è uno straordinario specialista di surfing politico. Parte come «psiuppino», cioè all'estrema sinistra, al di là dello stesso Pci, ma quando il Psi riformista comincia la sua scalata al potere entra nelle sue file e, nel 1983, si fa eleggere deputato. Prima è oppositore di Craxi ma allorchè il segretario del Psi, divenuto premier, gli offre il posto di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ne diventa uno dei più fedeli 'consigliori'. Quando il Psi, sotto le mazzate di Mani pulite, crolla, non si schiera con Craxi ma nemmeno contro. Semplicemente diserta e si rifugia nella villa di Ansedonia a giocare a tennis con Giuseppe Tamburrano, e a curare gli 'amati studi' dove continua a non produrre assolutamente nulla. Dopo una lucrosa parentesi come presidente dell'Antitrust sarà pronto per diventare uno dei più eccellenti e potenti riciclati della Seconda Repubblica, essendo stato uno dei disastrosi protagonisti della Prima.
E' uno Svicolone nato, come il pavido leone di un famoso cartoon. Ma più che a un leone, per quanto imbelle, somiglia a un'anguilla. I suoi ragionamenti sono cosi' sottili, ma cosi' sottili da essere prudentemente impalpabili e quasi invisibili. Esilaranti sono i suoi rapporti col lider màximo del Psi come lui stesso li ha raccontati in un'intervista, a Craxi morto. Quando Amato era d'accordo col Capo esprimeva il suo incondizionato assenso, quando non lo era restava muto. Ha chiosato Rino Formica, un altro socialista che ha pero' avuto la decenza di ritirarsi a vita privata: «Quel passaggio sul silenzio-dissenso è assolutamente strepitoso...Se Amato era d'accordo esprimeva liberamente il suo consenso. Se invece affiorava un'increspatura, non dico un dissenso, ma anche una piccola perplessità, un dubbio, un trasalimento, Amato che faceva? Non si agitava, non parlava, si esprimeva in silenzio. Ma non un silenzio qualunque. No, un silenzio operoso. E Craxi capiva: se Giuliano sta zitto vuol dire che dissente. Metafisica pura».
Come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Craxi (1983-1987) e come ministro del Tesoro dal 1987 al 1989 nei governi Goria e De Mita, Giuliano Amato è stato protagonista in prima persona del sacco delle casse dello Stato perpetrato negli anni Ottanta, che ci ha regalato quasi due milioni di miliardi di debito pubblico in vecchie lire che ancora ci pesano sul groppone e per i quali l'Unione europea continua a strigliarci chiedendoci sempre nuovi sacrifici. Ma è sempre lo stesso Amato, lui même, divenuto nel 1992 premier, perchè Craxi è azzoppato dalle inchieste giudiziarie, che, per rattoppare in qualche modo la bancarotta che ha contribuito a creare, si introduce nottetempo, come un ladro che risalga da una fogna, nelle banche per prelevare i quattrini dai conti correnti dei cittadini, fatto inaudito nella storia di uno Stato di diritto. Il suo «raro acume nell'esaminare gli eventi» non gli servirà per percepire cio' che individui dotati di una intelligenza meno «leggendaria» hanno già capito da un pezzo, e cioè che la Prima Repubblica è sull'orlo di un crollo da cui lo stesso Amato, almeno per il momento, sarà travolto.
Molto disinvolto con i quattrini altrui, Giuliano Amato è attentissimo ai suoi. Guido Gerosa mi ha raccontato che durante le temperie di Tangentopoli Craxi invio' Amato a Milano per mettere un po' d'ordine fra i compagni. Il 'Dottor Sottile' invito' a cena i parlamentari lombardi, fra cui Gerosa, nel solito lussosissimo e costosissimo ristorante che i socialisti frequentavano all'epoca della 'Milano da bere', tanto pagava il partito, cioè il contribuente con i soldi che il Psi, insieme agli altri, gli taglieggiava. Ma alla fine di questa cena, fra la costernazione generale, annuncio': «Si fa alla romana». Le casse del Psi, saccheggiate da Craxi & co., erano vuote. Sarebbe quindi toccato al proconsole Amato pagare di tasca sua. E non era cosa.



Nessuno puo' cancellare il diritto alle idee. E' la democrazia, bellezza.

Sono stato alla festa nazionale di CasaPound che si è tenuta nei giorni scorsi a Revine Lago, per presentare il mio libro 'La guerra democratica', un po' datato ma, vedi Siria, ancora drammaticamente attuale. Per la verità avevo voglia di declinare l'invito dei ragazzi di CasaPound, non per motivi ideologici ma perchè farsi da Milano, anda e rianda, 700 chilometri era un po' faticoso. Ma sono stato costretto a cambiare idea quando ho saputo che l'Anpi e il Pd locali si erano rivolti al prefetto e addirittura al ministro degli Interni perchè vietassero la manifestazione:”E' grave che a un movimento di chiara ispirazione neofascista, portatore di messaggi razzisti e xenofobi, sia consentito di poter diffondere l'ideologia fascista in violazione della Costituzione” aveva scritto Simonetta Rubinato nell'interrogazione ad Alfano. Ci sono andato quindi per difendere un principio.
Premettiamo che CasaPound si è presentata alle recenti elezioni politiche e quindi ha, evidentemente, le carte in regola anche rispetto alla legge Scelba che vieta la ricostituzione del Partito fascista, legge che comunque io considero liberticida e pericolosa cosi' come la considerava Togliatti, che ne fu un tenace oppositore perchè, avendo un po' più di acume politico dei Pd veneti, capiva benissimo che si comincia col vietare la costituzione del Partito fascista e si finisce col vietare quella del Partito comunista (come avviene oggi in alcuni Paesi ex comunisti dell'Est europeo). Premettiamo che alla festa di CasaPound aveva aderito Giulio Giorello che oltre ad essere uno dei più colti intellettuali italiani è un liberale a 24 carati e che per quel che mi riguarda ho accettato inviti di Rifondazione e di tanti comuni amministrati dalla sinistra. Premettiamo che ero già stato due volte a CasaPound, nella loro sede romana, e non vi avevo notato nulla di truce ma ragazzi piuttosto simpatici, impegnati nel sociale, con idee certamente diverse dalle mie ma che avevano il pieno diritto di esprimere e di cercare di diffondere. E qui sta il nocciolo della questione. In una democrazia che sia veramente tale tutte le idee, anche quelle che ci paiono più aberranti, hanno diritto di cittadinanza purchè, giuste o sbagliate che siano, rinuncino a farsi valere con la violenza. Questo è il prezzo che una democrazia paga a se stessa, altrimenti si trasforma in qualcosa di diverso, in una sorta di teocrazia laica. Al Parlamento di Teheran, all'epoca di Khomeini, ho assistito a dibattiti accesissimi fra le diverse fazioni, ma dovevano sempre rimanere all'interno dell'ideologia islamica. Lo stesso accadrebbe se in una democrazia si pretendesse che tutte le idee devono stare all'interno dell'ideologia democratica. Invece una democrazia deve accettare anche idee non democratiche o antidemocratiche.
A Revine un cronista, intervistandomi, mi ha fatto notare che alla festa di CasaPound erano presenti anche alcuni pregiudicati (condannati, presumo, per 'apologia del fascismo', un reato liberticida, degno di un codice fascista, che in democrazia non dovrebbe esistere). Ho risposto, ridendo, che se si seguisse questa linea non si dovrebbe partecipare ai comizi di Silvio Berlusconi.
Non c'è niente da fare, gli italiani, faziosi di natura, non hanno ancora capito che l'antifascismo non è un fascismo di segno contrario, ma il contrario del fascismo. E cosi' a quasi settant'anni dalla fine della guerra siamo ancora coinvolti in polemiche catacombali. E aveva proprio ragione Mino Maccari quando diceva: ”I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti”.



MA MI FACCIA IL PIACERE (Marco Travaglio)

Atteso e prevedibile come la caduta delle foglie in autunno, il supermonito di Napolitano ai magistrati per dare il contentino al Cainano pregiudicato e non farlo sentire troppo solo, è puntualmente arrivato. Secondo il Presidente Pompiere, bisogna “spegnere nell’interesse del Paese il conflitto tra politica e giustizia”. Che è un po’ come dire: siccome un chirurgo è stato condannato perché scannava i pazienti, bisogna spegnere il conflitto tra chirurgia e giustizia; siccome un ciclista è stato condannato per doping, bisogna spegnere il conflitto tra ciclismo e giustizia; siccome un tossico è stato condannato perché ha svaligiato un supermarket, bisogna spegnere il conflitto fra tossicodipendenza e giustizia; siccome un riccone è stato condannato perché non paga le tasse, bisogna spegnere il conflitto fra ricchezza e giustizia. Insomma, una solennissima assurdità. 
Gentile Presidente, si rassegni: se il suo amico Silvio è stato condannato per frode fiscale, è perché ha frodato il fisco. Si chiama “processo penale”, non “conflitto fra politica e giustizia”. E che senso ha dire che “politica e giustizia non devono essere mondi ostili guidati dal sospetto reciproco”? In Italia, da oltre vent’anni, è Berlusconi che attacca tutta la magistratura, invitando i cittadini a ribellarvisi anziché a ubbidirle; nessun magistrato ha mai attaccato tutta la politica in quanto tale, semmai alcuni magistrati (sempre troppo pochi) hanno condotto inchieste ed emesso sentenze su politici che violavano la legge, in base al principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione. Che dovrebbe mai fare un pm o un giudice davanti a un politico ladro o mafioso, se non “sospettare” di lui? 
La presunta “spirale di contrapposizioni tra politica e giustizia che da troppi anni imperversa in Italia” esiste solo in qualche mente confusa. Anche ammesso e non concesso che il conflitto esista, esso nasce dal fatto che molti politici delinquono e potrà finire soltanto se e quando questi la smetteranno di delinquere. Nessuno meglio del garante della Costituzione, in quanto presidente della Repubblica, e del difensore dell’autonomia e indipendenza della magistratura, in quanto presidente del Csm, dovrebbe saperlo. Ed è preoccupante che vada a insegnare queste amenità a degli studenti universitari. Se qualche magistrato, come lui sostiene senza far nomi né portare prove, ha violato i doveri di “equilibrio, sobrietà, riserbo, assoluta imparzialità e senso della misura e del limite”, il Csm da lui presieduto ha tutti gli strumenti per sanzionarlo. Purché, naturalmente, si tratti di condotte vietate dalla legge, e non di esternazioni legittime o doverose per spiegare ai cittadini e soprattutto ai politici ignoranti o diffamatori come funziona la giustizia.
E qui Napolitano incappa in una doppia contraddizione, quando esorta i magistrati a “un’attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione”. Sia perché da anni l’Anm e molti singoli magistrati propongono riforme utili a sveltire i processi e a combattere meglio la criminalità di ogni specie e livello, regolarmente zittiti come invasori di campo da chi fa soltanto leggi criminali e criminogene per sé o per i suoi complici; sia perché sul tema ogni magistrato è libero di pensarla come gli pare. A meno di voler sostenere che il magistrato è libero di parlare, ma solo se acconsente con le porcate sfornate a getto continuo da un Parlamento indecente e sempre firmate da chi avrebbe dovuto respingerle al mittente. Se invece dissente, allora deve tacere. La libertà d’espressione ridotta a dovere di applauso al potere è tipica delle dittature, non delle democrazie. Resta poi da capire che cosa siano il “senso della misura e del limite” prescritti dal Presidente Pompiere ai magistrati: come si calcola, e soprattutto chi lo calcola?
Se un pm esagera, ci sono sopra di lui un Gip, un Gup, un Tribunale del Riesame e una Cassazione pronti a correggerlo. Idem per i giudici, nel Paese che – unico al mondo – prevede cinque fasi di giudizio pressochè automatiche. In ogni caso, per azionare gli estintori, Napolitano ha scelto la sede meno adatta: la commemorazione del suo ex consigliere giuridico Loris d’Ambrosio. Un magistrato che parla per mesi al telefono con un indagabile e poi indagato per falsa testimonianza sulla trattativa Stato-mafia, assecondandolo in ogni suo capriccio per ordine del suo capo, non è certo il miglior esempio di “senso della misura e del limite”, e nemmeno delle tanto decantate virtù di “equilibrio, sobrietà, riserbo, assoluta imparzialità”. 

Anzichè stendere un velo pietoso , anche per rispetto verso un signore che non c’è più e che fu trascinato da Napolitano e da Mancino in quell’imbarazzante abuso di potere, il Presidente lancia un messaggio implicito alle Corti d’assise di Caltanissetta e Palermo che si accingono a interrogarlo come testimone nei processi Borsellino-quater e Trattativa. Poi se la prende a suon di allusioni con il nostro giornale (l’unico che intervistò D’Ambrosio per ascoltare la sua versione dei fatti), reo di avere pubblicato ieri un servizio di Lo Bianco e Rizza sulle nuove carte depositate dalla Procura di Palermo al processo sulla trattativa. Carte che documentano il vero e proprio stalking esercitato dalla Procura generale della Cassazione, per ordine del Quirinale, sul procuratore nazionale Grasso (che ora, asceso a più alte poltrone, fa finta di nulla), affinchè interferisse.

Marco Travaglio (JACK'S BLOG - Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2013)

La slealtà del Milan è un riflesso del mondo morale di Berlusconi

Torino-Milan, sabato. Il Toro a una manciata di secondi dalla fine sta vincendo 2-1. Uno dei giocatori granata, Larrondo, è a terra da qualche minuto, infortunato. I tecnici del Torino hanno già chiesto l'interruzione del gioco per soccorrere il giocatore (che poi uscirà in barella) e sostituirlo, ma l'arbitro ha fatto continuare perchè col Milan tutto all'attacco l'azione è viva. Non lo è più quando la palla finisce in fallo laterale. A questo punto una delle regole morali del calcio vorrebbe che i giocatori rossoneri si fermassero per permettere soccorso e sostituzione. Invece rimettono rapidamente la palla in gioco e dall'azione nascerà il rigore che porterà il Milan al pareggio.
Atalanta-Milan, Coppa Italia 89-90. Il centravanti del Milan, Borgonovo, è a terra, infortunato, nell'area di rigore bergamasca. Stromberg, che è in possesso della palla, la mette fuori per permettere i soccorsi al giocatore milanista. La mette fuori all'altezza dell'area di rigore dell'Atalanta, non la calcia lontano. Stromberg è svedese, è un giocatore estremamente corretto ed è certo che, come vuole un'altra regola morale del calcio, i milanisti restituiranno il pallone agli avversari. Ma non andrà cosi'. Rijkaard invece che a un giocatore atalantino, la passa a Massaro che la butta al centro dell'area, se ne impadronisce Borgonovo, rialzatosi, che viene atterrato. Rigore. Sul dischetto va Baresi, capitano e bandiera del Milan. C'è tutto il tempo e il modo per rimediare alla grave scorrettezza dei rossoneri sbagliando apposta il rigore. Ma dalla panchina arriva l'ordine di Sacchi. Barresi segna fra gli ululati del pubblico atalantino. Grazie a quel gol il Milan passerà alle semifinali.
Verona-Milan, ultima di campionato. Il Milan perde la partita e l'ultima speranza di aggiudicarsi lo scudetto. Allora si vedono i giocatori rossoneri, compreso l'algido Van Basten, che invece di accettare sportivamente la sconfitta, si tolgono le maglie, le buttano a terra, le calpestano, si abbandonano a scene isteriche e penose.
1991, quarti di finale di Coppa dei Campioni Olimpique Marsiglia-Milan. Il Milan aveva vinto la Coppa nei due anni precedenti, avrebbe potuto accettare con una certa serenità la sconfitta che si stava profilando (gol di Waddle). Non si puo' vincere sempre. A cinque minuti dalla fine si spegne uno dei quattro riflettori dello stadio. Il nobile Maldini, il nobile Baresi e altri giocatori circondano l'arbitro: con ampi gesti indicano il riflettore spento, c'è troppo buio, non si puo' giocare, la partita va ripetuta (si vedevano perfino le monetine che i tifosi del Marsiglia stavano gettando sul campo per irridere a quella vergognosa sceneggiata). L'arbitro, ovviamente, non gli dà retta. Allora Galliani, in collegamento con Berlusconi, ordina il ritiro della squadra. Una cosa inaudita, grottesca, che non si è mai vista nemmeno nei più scalcinati campetti dei campionati minori Figc. Il Milan si beccherà una squalifica di un anno.
Questa incapacità di accettare la sconfitta, di cercare di evitarla anche ricorrendo ai mezzi più sleali, è un riflesso del mondo morale di Berlusconi, di cui abbiamo poi avuto ampia testimonianza nella sua attività politica (“Bastava il Milan per capirlo” scrissi per l'Europeo nel gennaio 1995).
Il calcio, si sa, è una metafora della vita. Nel mondo morale di Berlusconi c'è anche che col denaro si puo' comprare tutto: guardie di Finanza, testimoni, giudici. E anche di questo la storia del 'suo' Milan è stata testimonianza. Quando aveva già i tre olandesi e sapeva di non poterlo far giocare acquisto' Savicevic, allora uno dei migliori giocatori del mondo, solo per toglierlo alle altre squadre. Con lo stesso scopo acquistava giocatori importanti senza farli giocare. Il nazionale De Napoli, in due anni, vide il campo, in tutto, per sette minuti. Ma il caso più emblematico è quello di Gigi Lentini. Nel 1992 Lentini, talentuoso ragazzo del vivaio granata, aveva portato il Torino al terzo posto in Campionato. Ma Berlusconi lo voleva a tutti i costi. Gli fece offerte sempre crescenti che Lentini rifiuto': nel Torino era entrato a otto anni, dal Torino aveva avuto la fama, alla gloriosa e sfortunata società granata era legato da fortissimi vincoli affettivi, il denaro non era tutto. Ma Berlusconi porto' l'offerta, fra ingaggio e acquisto del cartellino, alla sbalorditiva cifra di 64 miliardi e il ragazzo, figlio di una famiglia di operai delle Banchigliette, cedette. C'è chi dice che i miliardi siano stati 'solo' trenta ma ha poca importanza. Berlusconi non aveva comprato le gambe di Lentini, che non potevano valere nè 60 nè 30 miliardi, gli aveva comprato l'anima dimostrandogli (a lui e al vasto mondo giovanile che ruota intorno al calcio) che i suoi ingenui sentimenti di ragazzo non valevano nulla di fronte al potere del denaro. Naturalmente la cosa ando' a finir male. Lentini, frastornato nel nuovo ambiente, ebbe uno stupido incidente automobilistico, calcisticamente si rovino', non servi' al Milan né il Milan a lui. E questo mi ricorda una malinconica canzone di De Andrè, 'Il Re fa rullare i tamburi'. Luigi XIV, “in cerca di nuovi e freschi amori”, mette gli occhi sulla sposa di un suo generale. Lo corrompe promettendogli di farlo maresciallo di Francia. “Ma la Regina ha raccolto dei fiori, celando la sua offesa, e il profumo di quei fiori ha ucciso la marchesa”. E in questa favola gotica, in questa violenza e prepotenza puramente distruttrici, a perdere, si riassume l'influenza nefasta che Silvio Berlusconi ha avuto nella vita del nostro Paese.



mercoledì 18 settembre 2013

IL REVIVAL DEL POPULISMO - Il fenomeno Grillo e il lessico della democrazia

Non vorrei che il grillismo si arenasse in un confuso e inconcludente dibattito sulla antipolitica. Nel caso di Beppe Grillo, anti sta solo per dire «basta» con questi politici, con questi partiti e con questa politica. E, se così, il grillismo non ha sottintesi o implicazioni antidemocratiche.
Io non temo ritorni al fascismo né al comunismo (storico) perché entrambi questi regimi hanno perduto, in Occidente, il loro principio di legittimità. Oggi nemmeno Chávez, il più avanzato demagogo dell’America Latina, osa dire che «lo Stato sono io». Oggi la legittimazione del potere (a meno che non sia teocratica) deve essere democratica, deve essere «in nome del popolo». Però e invece temo «la democrazia che uccide la democrazia, la democrazia che si suicida».
Un timore che ci impone di rivisitare la trinità democrazia- populismo-demagogia. Si tratta di una trinità perché queste nozioni hanno la stessa testa: la parola demosin greco, populus in latino, e popolo in italiano. Ma questo fatto non le rende sinonimi.
Demagogia è l’arte di trascinare e incantare le masse che, secondo Aristotile, porta alla oligarchia o alla tirannide. In ogni caso, il termine indica un agire e un «mobilitare» dall’alto che non ha nulla da spartire con la democrazia come potere attivato dal basso.
Il termine populismo è molto più recente e ci arriva dalla Russia, dove fu coniato alla metà dell’Ottocento per indicare una rivoluzione dei contadini (fermo restando che la parola narod sta, in russo, per popolo). Un significato che poi riemerge all’inizio del secolo scorso negli Stati Uniti. Il primo movimento fu represso, e il secondo fallì. Il che fece anche sparire la parola.
Così la teoria della democrazia continuò a usare, per indicare una degenerazione o una minaccia alla democrazia, la parola demagogia. Poi, d’un tratto, da una ventina d’anni, diventa di moda «populismo». Perché?
Non sono ancora riuscito a capirlo. Intanto offro la mia interpretazione e relativa proposta.
Concettualmente è irrilevante che il populismo sia nato «agrario». Concettualmente è importante, invece, che denoti una genuina democrazia «immediata» che nasce dal basso e che, per questo rispetto, è l’esatto contrario di demagogia. Pertanto il populismo così definito (si sa che io sono un maniaco delle definizioni) ha la forza di essere una democrazia embrionale genuina, ma al contempo la terribile debolezza di incarnare un infantilismo politico (direbbe Lenin) incapace di costruire alcunché. Le sue proposte «al positivo» sono, appunto, puerili e inconsistenti.
Da quanto sopra si ricava che Grillo è, ad oggi, un populista, non un demagogo. La demagogia, in Italia, sta al governo.
Intendiamoci: nelle democrazie di massa e contestualmente di video-potere senza un modico di demagogia nessun leader farebbe oramai molta strada. Eppure se paragoniamo Prodi e Berlusconi a Schröder e alla Merkel, o alla Thatcher e Tony Blair, o a Zapatero e predecessori in Spagna, risulta in modo lampante che solo i «nostri» antepongono la conquista del potere o l’abbarbicamento al potere a qualsiasi interesse e necessità del Paese. Come sarò pronto a dimostrare a richiesta. Qui mi interessa soltanto di portare in evidenza la caratterizzazione fortemente demagogica dei nostri malanni. Alla classica domanda «cosa avete fatto per il vostro Paese?», Berlusconi potrebbe rispondere: niente, salvo che liberarlo da Prodi. E viceversa. Cioè Prodi potrà dire: niente, salvo che liberarlo da Berlusconi.
Tante grazie.

Giovanni Sartori (Corriere della Sera - 2 ottobre 2007)


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La fotografia è in genere un documento, la testimonianza di un ricordo che raffigura spesso persone e luoghi, ma talvolta può anche costituire lo spunto per fantasticare un viaggio ovvero per inventare un racconto e leggere con la fantasia l’apparenza visiva. (cliccando sopra la foto è possibile visionare il volume)

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