"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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giovedì 26 febbraio 2015

LA METAMORFOSI DI DEBORA, DA AGITPROP A FEDELISSIMA



Cara Debora Serracchiani,
la sua sembrava una di quelle rare storie che riconciliano con la politica: la giovane sconosciuta del Pd di Udine che prende la parola all’Associazione dei Circoli, conquista la platea cantandole al segretario Franceschini e da lì vola sulla scena nazionale. Sembrava una fiaba. Sembrava, perché a vederla oggi, vicesegretario del Pd renziano, la sensazione è quella di un gigantesco abbaglio.
In quell’ormai lontano 2009 scandiva: “Non ci possiamo riconoscere in un Paese che non tassa i ricchi solo perché pensa che siano troppo pochi”. Applausi. “Il problema è aver fatto fare a Di Pietro opposizione da solo su temi che ci appartengono, come il conflitto d’interessi e la questione morale”. Ovazione.
Ma ora che guida il partito di governo, che fine hanno fatto quei temi e quei provvedimenti? La distanza – abissale – tra le sue parole di ieri e l’oggi non si ferma qui.
Nel 2011 scriveva: “Il dibattito sul mercato del lavoro si sta riducendo a un referendum sull’art. 18, e questo è quanto di più sbagliato e lontano dagli interessi dei lavoratori possa fare la politica”; nel 2012 se la prendeva con la Confindustria e il Pdl, che volevano modificare ulteriormente quell’articolo rispetto alla legge Fornero: “Il campo del licenziamento soggettivo e disciplinare per definizione non ha alcun collegamento con la crisi economica e la necessità di fronteggiarla”. Oggi, invece, va bene farsi dettare il Jobs Act dalla Confindustria anche sui licenziamenti soggettivi, l’art. 18 si può rottamare e la riforma con Renzi diventa – parole ancora sue – “di sinistra”.
Nel 2013 era addirittura “incazzata”: “Quando ho sentito il nome di Marini ho ripensato alla Bicamerale. Poi ho visto la foto di Bersani che abbracciava Alfano e ho pensato: abbiamo toccato il fondo” – disse alla Stampa quando si doveva decidere il capo dello Stato – “Berlusconi è una malattia da cui non guarisco. Come quei fastidi che ti fanno dire: sono 20 anni che ho la psoriasi. L’Italia merita qualcosa di diverso”.
E invece, col suo segretario-premier, avete prolungato l’infiammazione a tutti gli italiani stringendo un patto con un condannato e decaduto dal Parlamento (almeno durante la Bicamerale non lo era), che – l’ha detto ancora lei a luglio – “è sempre il benvenuto, ci dà più garanzie del M5S”, e con Alfano siete passati dall’abbraccio al bacio di governo, scavando sul fondo.
L’Italia – lo dico io a lei – si meritava qualcosa di diverso. Cara Serracchiani, la sua metamorfosi è innegabile: la colorata Amélie della politica, che incarnava “Il favoloso mondo” combattendo l’apparato, ha lasciato il posto a una grigia dirigente di partito che guai ad attaccare il segretario, lui è perfetto e fa solo cose perfette, se no ve le suono.
Ma al di là della delusione (penso ai molti giovani che si sono identificati in lei e l’hanno sostenuta, portandola dov’è adesso) di scoprire che in politica, con le poltrone di mezzo, non ci possono essere fiabe, resta un dubbio atroce, sul tipo di quello generato dai saldi: non si sa se ci prendevano in giro prima, vendendoci abiti a prezzo esorbitante, o lo fanno dopo rifilandoci avanzi di magazzino.
Nel suo caso, era in buona fede prima o lo è oggi? Almeno allora erano solo parole, oggi invece – ahimè – sono fatti concreti.
Un cordiale saluto. 


martedì 24 febbraio 2015

PIANTO GRECO

Mai avremmo immaginato di arrivare a invidiare la Grecia, che fino all’altroieri sembrava esistere in Europa solo per evitare all’Italia l’ultimo posto nelle classifiche e nelle statistiche. Ora anche quel momento è arrivato. È vero che quello che Tsipras gabella per un trionfo sulla Troika e per la fine dell’austerità è, in realtà, una discreta capitolazione sulle promesse agli elettori per vincere le elezioni.
Ma sentirlo parlare di un piano straordinario di lotta all’evasione e alla corruzione e di una patrimoniale sui grandi capitali per rientrare nei parametri comunitari e anche per aumentare i salari pubblici ci provoca attacchi incontrollabili di ellenofilia. Dunque il mantra, molto in voga da noi, secondo cui le “riforme” che ci “chiede l’Europa” devono obbligatoriamente passare per le larghe intese, il massacro dei pensionati, l’abolizione dei diritti dei lavoratori, la cieca obbedienza a Confindustria e alle altre lobby padrone, lo smantellamento delle garanzie costituzionali, lo strapotere dei governi e delle maggioranze, la mordacchia alle opposizioni e la compressione del diritto di voto, è una balla sesquipedale. 
Il patto sottoscritto da tutti gli Stati europei va garantito da regole uguali per tutti e da sanzioni severe per chi sgarra. Ma le modalità per recuperare le risorse necessarie a rimettersi in carreggiata appartengono alla discrezionalità politica dei governi dei singoli Stati, che decidono liberamente in base ai loro programmi e al patto stipulato con i rispettivi elettori. In Spagna ha vinto la destra di Rajoy che dunque governa con politiche di destra. In Grecia ha vinto la sinistra di Tsipras che dunque governa con politiche di sinistra. 
Poi c’è l’Italia, dove governa Renzi che non ha vinto le elezioni (a parte le comunali a Firenze e le europee), con una maggioranza in parte illegittima (drogata dal premio del Porcellum incostituzionale) e in parte raccogliticcia (il Nuovo Centro Destra ha preso voti insieme a B. contro e in alternativa al Pd; Scelta civica ha preso voti contro e in alternativa al Pd e a B.; e gli ex-M5S han preso voti contro e in alternativa a Pd, a B. e a Scelta civica). 
Infatti, dal Jobs Act alla giustizia, dall’evasione alla riforma elettorale e costituzionale, Renzi realizza politiche che nemmeno B. e Monti s’erano azzardati ad attuare e neppure Confindustria aveva osato sperare. Tsipras, fra le “riforme” che portano gettito, mette in prima fila la lotta all’evasione e alla corruzione. E fa benissimo perché, nei paesi a malaffare diffuso come Grecia e Italia, la manovra finanziaria si fa così: attingendo le risorse negli enormi serbatoi del nero e facendo pagare la crisi ai delinquenti. Che ad Atene sono tanti e pingui. 
Ma mai come in Italia, dove ai reati dei colletti bianchi va aggiunta la voce “criminalità organizzata”. Eppure da noi, su questi tre freni a mano tirati sullo sviluppo, si continua a cincischiare con ddl annunciati e mai varati, e che anche se fossero varati vedrebbero la luce dopo anni luce. E le coperture dell’ultima manovra sono garantite dai soliti noti: tagli lineari agli enti locali (con aumenti di tariffe e tasse locali) e clausole di salvaguardia (che faranno aumentare le tasse dal 2016 di una ventina di miliardi l’anno). 
Niente patrimoniale, niente lotta straordinaria a corruzione, evasione e mafie. Anzi, un sacco di favori a corrotti e corruttori (la prescrizione non si tocca), evasori (soglie di impunità) e mafiosi (tutto come prima). Finché regnavano le larghe intese con B., dichiarate (governi Monti e Letta) o meno (Patto del Nazareno), Renzi aveva l’alibi dell’alleato riottoso. Ora che il Patto è sciolto (così almeno ci dicono i due ex soci), le chiacchiere stanno a zero. Se le priorità del governo sono le ferie (tagliate per decreto) e la responsabilità civile dei magistrati (a tappe forzate con la scusa dell’Europa, che in realtà chiede tutt’altro), non è colpa di nemici esterni o interni. 
È che anche sotto Renzi l’Italia rimane una Repubblica fondata sulle mafie, sull’evasione e sulla corruzione. Noi, naturalmente, speriamo sempre di essere smentiti. Altrimenti, che aspetta l’Europa a commissariarci per davvero?


lunedì 23 febbraio 2015

Un Paese senza figli o di genitori anziani

In Italia nel 2014 sono nati 509 mila bambini, cinquemila in meno dell’anno precedente, confermando una tendenza che è in atto da tempo, tant’è che si tratta del più basso tasso di natalità dall’Unità. Ciò pone ovviamente dei problemi economici. Come farà un nucleo esiguo di giovani a mantenere una pletora di anziani, per la maggioranza disabili o comunque rincoglioniti? E che futuro aspetta questi giovani una volta che saranno diventati a loro volta anziani? E che vitalità ci si può aspettare da un Paese composto per lo più da vecchi? In Tunisia dove l’età media è di 32,5 anni ci hanno messo due giorni di rivolta, violenta ma non armata, per rovesciare il dittatore Ben Alì. Da noi l’età media è di 42,5 e non riusciremmo a scalzare non dico il finto giovane Matteo Renzi, ma nemmeno la Serracchiani.
Il problema della denatalità è comune a quasi tutti i paesi occidentali ma il fatto è che noi siamo al penultimo posto, nel mondo, in questa particolare classifica. E, a mio avviso, il dato più sinistro è che anche gli immigrati, che nei paesi d’origine figliano come conigli, una volta arrivati in Italia si fermano. C’è qualcosa di ammalato e di ammalante nella nostra società. La Scienza tecnologicamente applicata (il più grave pericolo per il mondo occidentale, altro che Isis) ha convinto le nostre donne che si possono avere figli a qualsiasi età. Ma non è così. La Natura, imparziale, in queste cose è spietata. Conosco molte donne sulla quarantina, che si pensano ancora come ragazze, e che dopo aver sacrificato una parte importante della loro esistenza a una qualche carriera, adesso vorrebbero avere dei figli. Ma i figli non vengono quando ti pare e piace. A parte che ci vorrebbe un partner, cosa diventata, lo ammetto, trascurabile, la Natura, in questo campo, come in tutti gli altri, non fa molti sconti. Ed ecco allora gli affannosi ‘viaggi della speranza’ a Barcellona per procurarsi qualche fecondazione artificiale. E anche i ragazzi sono troppo timorosi. Prima di avere un figlio pretendono che gli sia assicurata la palestra, il tennis, corsi di qualsiasi tipo. Ci vorrebbe un po' più di spavalderia. I figli bisognerebbe averli da giovani, proprio per quella sacrosanta incoscienza che solo la gioventù può dare e che ci rende meno affannosi nei loro confronti e che, nel contempo, li libera dalle nostre eccessive attenzioni. Nel rapporto padre-figlio maschio l’educazione passa soprattutto per il gioco, il gioco sportivo, atletico. Tu devi essere in grado di giocare a calcio con lui, a tennis, a sfidarlo in lunghe gite in bici. Altrimenti diventi un nonno. E ci si mette pochissimo perché il Tempo, il padrone inesorabile delle nostre vite, vola, come dice il proverbio. Proprio l’altro giorno parlavo con un giovane di 36 anni che mi è caro (detesto la compagnia dei miei coetanei, in questo sono infantilmente berlusconiano) che mi raccontava che una sua fidanzata gli aveva regalato un viaggio a Zanzibar. Poiché a me nessuna ragazza a mai regalato un viaggio nemmeno a Sesto San Giovanni, gli ho detto: “Beh, spero sia la volta buona”. “Sto valutando” ha risposto lui. “Valuta di meno, che il tempo corre molto più veloce di quanto noi crediamo”.
Qualche tempo fa parlavo con una bella donna di 47 anni. Le ho chiesto se aveva figli. Invece di fare la solita manfrina (“Non li ho voluti”, “Metterli al mondo in questa società è solo un atto di egoismo”, eccetera) mi ha risposto di no e che la cosa le dispiaceva moltissimo. “Ho avuto un fidanzato per quattro anni. Siccome sono molto accuditiva e gli facevo dei mangiarini squisiti, lui era contento. Però sono convinta che se avessimo mangiato di meno e scopato di più, sarebbe andata meglio”.


Dietrofront degli italiani, ora sono i più euroscettici

Tira una brutta aria in Europa. Verso l'Unione e, più ancora, verso l'euro. Anzitutto in Grecia, dove il governo di Tsipras ha siglato con l'Eurogruppo un'intesa tutt'altro che cordiale. Basata sulla reciproca diffidenza. Ciascuno convinto di aver imposto all'altro le proprie ragioni. Un sentimento, tuttavia, molto diffuso anche altrove. Per averne una misura attendibile, è sufficiente scorrere i dati del sondaggio condotto nelle ultime settimane in 6 Paesi europei da Demos e Pragma (per la Fondazione Unipolis). È parte del-l'VIII Rapporto sulla Sicurezza in Europa (a cui ha partecipato l'Osservatorio di Pavia), che verrà presentato a Roma domani pomeriggio (a Montecitorio). Colpisce, anzitutto, il grado di fiducia verso l'Unione Europea. È, infatti, maggioritario soltanto in Germania. Non per caso, peraltro, vista l'influenza tedesca sulle politiche comunitarie. Ma appare limitato altrove. In Francia, in Spagna e in Polonia: coinvolge circa quattro cittadini su dieci. Mentre risulta largamente minoritario in Gran Bretagna e ancor più in Italia. In assoluto, il Paese più euroscettico, fra quelli indagati dall'Osservatorio (solo il 27% ha fiducia nella Ue). Si tratta di un orientamento già osservato, in altre, precedenti, ricerche presentate su Repubblica. Da ultimo: nell'indagine sul "Rapporto fra gli italiani e lo Stato", pubblicata alla fine del 2014.
LE TABELLE
Una ulteriore conferma che l'Europa unita non piace a gran parte degli europei. E se la maggioranza di essi continua ad accettarla è per prudenza. Anzi, per paura. Di quel che potrebbe accadere se non ci fosse. Di quel che potrebbe capitare a chi uscisse dall'Unione. Questo sentimento è tanto più evidente se si considerano le opinioni verso la moneta unica. L'euro. Causa  -  comunque, indice  -  principale e più evidente del disagio e del dis-amore degli europei verso l'Europa.
L'euro: solo una minoranza ristretta dei cittadini dei Paesi dove è stato introdotto lo ritiene una scelta vantaggiosa. Circa il 10% in Italia. Poco più in Germania. Il 20% in Spagna e in Francia. Mentre per la maggioranza della popolazione (45-50%) è un "male necessario". Teme che abbandonarlo sarebbe peggio. Tuttavia, circa un terzo dei cittadini in Italia, se potesse, lascerebbe l'euro. E in Germania, la "guardiana" (e la padrona) dell'euro, quasi il 37% ha nostalgia del marco. L'euro, peraltro, non suscita alcun desiderio nei Paesi dove non c'è. In Polonia e in GB poco più del 10% della popolazione (intervistata) sarebbe favorevole a introdurlo. Mentre 7-8 persone su 10 non ci pensano proprio. Così, gli europei si scoprono sempre più "euroscettici" e "scettici verso l'euro". Per la reciproca influenza fra "euro-scetticismo" e "scetticismo verso l'euro". Perché l'euro è una moneta senza Stato. Mentre l'Unione Europea sembra affidare, sempre più, alla moneta la propria sovranità. E la propria identità. In politica estera, nelle politiche sociali e demografiche, invece, la UE risulta assente. Basti pensare a quel che avviene sulle nostre coste, di fronte agli sbarchi dei disperati, in fuga dal terrore, che si susseguono, incessanti. Oppure di fronte alla minaccia dell'IS, divenuta devastante in Libia. Praticamente, a due passi da noi. Emergenze scaricate, come sempre, sugli Stati nazionali. Che agiscono seguendo le loro logiche (interne) e i loro interessi (esterni).
Così, un po' dovunque cresce l'Anti-europeismo, insieme ai soggetti politici che ne hanno fatto una bandiera. In Italia, la contrarietà verso l'euro è molto ampia  -  superiore al 40%  -  non solo fra gli elettori vicini alla Lega, ma anche tra i simpatizzanti di Forza Italia e del M5s. Mentre in Francia l'ostilità verso la moneta unica coinvolge circa un terzo degli elettori dell'UMP (centro-destra) e, soprattutto, quasi metà di quelli del Front National. È, però, in GB che l'euro-scetticismo appare più ampio, come si è detto. In tutte le direzioni politiche. Fra i Laburisti e (ancor più) i Conservatori. Ma, ovviamente, soprattutto fra gli Indipendentisti. Visto che oltre 9 elettori su 10 dell'UKIP avversano la moneta unica. E l'85% la UE. D'altronde, questo partito ha fatto dell'antieuropeismo la propria "ragione sociale". E ne ha tratto grande vantaggio alle elezioni locali, ma soprattutto alle successive Europee del 2014, quando si è imposto come primo partito, in GB, con circa il 27% dei voti. D'altronde, in Francia, il FN, guidato da Marine Le Pen, amplificando il messaggio antieuropeo, si è affermato, proprio alle Europee, con il 25%. E oggi è accreditato del 30% dai principali istituti demoscopici, che lo indicano come probabile vincitore alle prossime départementales di fine marzo.
L'antieuropeismo, associato alla paura dello straniero e alla chiusura verso gli immigrati, è, dunque, divenuto una "frattura" che attraversa i sentimenti e i sistemi politici in Europa. In Italia, è interpretata soprattutto, ma non solo, dalla Lega di Salvini. Che dal Nord sta scendendo, sempre più a Sud. Non per caso ha organizzato una manifestazione a Roma, proprio domenica prossima. Ma ne ha annunciata un'altra, in aprile, insieme ai Fratelli d'Italia, con la presenza di Marine Le Pen. Per rafforzare l'alleanza  -  e la frattura  -  antieuropea. La crisi greca, dunque, non può essere trattata come un male "regionale". Confinato ai margini dell'Europa. Perché riflette e riverbera un malessere diffuso. Che si respira dovunque. In Italia, evidentemente. Ma anche in Francia. In Spagna. Nella stessa Germania. Non credo proprio che l'Unione Europea possa proseguire a lungo il suo cammino "confidando" sulla "reciproca sfiducia" e sulla "paura degli altri". In nome di una moneta impopolare. Io, europeista convinto, penso che non sia possibile diventare "europei per forza". O "per paura".

 

venerdì 20 febbraio 2015

NON UNA RIFORMA MA UNA REVISIONE: IL COLPETTO DI STATO INCOSTITUZIONALE

Finalmente leggo di un costituzionalista, giudice costituzionale emerito, Paolo Maddalena, che concorre con l’opinione che sostengo ormai da tempo (forse altri hanno espresso il medesimo concetto, mi scuso della mancata citazione dovuta alla mia ignoranza): quella che Renzi e sodali stanno completando non è una revisione costituzionale, è una riforma della Costituzione che né questo, né nessun Parlamento hanno il potere legittimo di realizzare. Stiamo assistendo a un abuso di potere da parte del governo e della maggioranza parlamentare. Scrive Paolo Maddalena [leggi qui]: “Bisognerebbe infatti distinguere tra il ‘potere di revisione’ della Costituzione e il ‘potere costituente’.
Oggi non siamo in presenza di una semplice revisione, ma vengono intaccati i principi costituzionali con un potere costituente che in realtà non si ha. Ci sarebbe quindi tutta la possibilità di impugnare e prendere posizione contro una riforma tutta sbagliata. La Corte costituzionale ha il potere di abrogare leggi costituzionali se queste sono andate oltre il potere di revisione e hanno invaso il potere costituente”.
La differenza fra revisione costituzionale e riforma costituzionale è facile da intendere. Per revisione si intende la modifica di uno o pochi articoli sotto il medesimo titolo; per riforma si intende la modifica di molti articoli che cambiano la forma dello Stato. Orbene, un proposta come quella che il Parlamento votato (con legge illegittima) si appresta a varare con votazioni notturne è riforma e non revisione.
Poiché la Costituzione, articolo 138 descrive la procedura di revisione e non di riforma, quello che i renziani stanno facendo è atto incostituzionale gravissimo. Nessuno ha dato loro il potere di cambiare radicalmente la Costituzione. Un potere siffatto l’avrebbe soltanto un’assemblea Costituente, come quella del 1946. Chiamiamo le cose con il loro nome: è un colpo di stato attuato senza violenza grazie al potere della menzogna (e alla minaccia di mandare tutti a casa se non obbediscono al capo).
Se qualcuno ha ancora dubbi se l’articolo 138 possa essere applicato anche alla riforma della Costituzione, si legga il dibattito in Assemblea costituente e si accorgerà che mai si parla di riforma. Essendo, a differenza dei riformatori odierni, colti, i Costituenti sapevano usare le parole. Del resto, il 138 prevede il referendum, una procedura che per sua natura si applica a quesiti circoscritti (monarchia o Repubblica, divorzio sì divorzio no, ecc.) mentre non ha alcun senso quando i cittadini devono deliberare su una riforma complessiva, per l’ovvia ragione che potrebbero essere a favore di alcuni cambiamenti e contro altri. Cosa dovrebbero scrivere, in questo caso, sulla scheda, un trattato di diritto pubblico? Maddalena, se bene intendo il suo pensiero, pare confidare nel capo dello Stato e nella Corte costituzionale.
Il capo dello Stato, quando riceverà la riforma dovrebbe rifiutarsi di firmarla. La Corte costituzionale dovrebbe abrogarla senza alcuna esitazione. Non si verificherà né l’una né l’altra ipotesi. Resta il referendum per il quale conviene cominciare a organizzarci fin d’ora, anche contro i partiti politici, come del resto abbiamo fatto nel 2006. Se poi la riforma passerà, e avremo un bel senato di nominati, prenderò in serio esame di rinunciare alla cittadinanza italiana. Non credo che riuscirei a sopportare la vergogna di essere cittadino di una Repubblica che offende così apertamente la sua Costituzione.

Maurizio Viroli (Jack's Blog - 20 febbraio 2015)
 

mercoledì 18 febbraio 2015

L'ultima salvezza è il Papa comunista

Papa Bergoglio è l'ultimo comunista rimasto al mondo, almeno in quello occidentale. Nel suo videomessaggio del 7 febbraio inviato ai partecipanti (grandi imprenditori, manager, politici) a «Le idee di Expo 2015» dedicato al cibo, Bergoglio ha affermato: «No a un'economia dell'esclusione e dell'iniquità. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in Borsa. Questo è il frutto della legge di competitività per cui il più forte ha la meglio sul più debole». E ancora: «Ci sono alcune scelte prioritarie da compiere: rinunciare all'autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e agire innanzitutto sulle cause strutturali dell'iniquità». Il Sommo Pontefice non lo può fare apertamente ma questo, fra le righe, è un attacco frontale al mercato, al denaro, all'«economia di carta» per usare un titolo di un famoso saggio di D.T. Bazelon del 1964, che sono proprio le «cause strutturali dell'iniquità» che Bergoglio denuncia. E' questo tipo di economia che riduce alla fame, su cui si spargono tante lacrime di coccodrillo, i Paesi poveri (e gli stessi poveri dei Paesi ricchi). L'esempio emblematico è quello dell'Africa Nera. Ai primi del Novecento, con le sue economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) l'Africa era alimentarmente autosufficente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%), nel 1961. Ma da quando ha cominciato ad essere aggredita dall'integrazione economica -prima era considerata un mercato del tutto marginale e poco interessante- le cose sono precipitate. L'autosufficenza è scesa all'89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere quello che è successo dopo non sono necessarie le statistiche: basta guardare le drammatiche immagini che ci vengono dal Continente Nero e i suoi disperati flussi migratori. Eppure in questo stesso periodo la produzione mondiale dei cereali di base, riso, grano e mais, è aumentata rispettivamente del 30, 40 e 50 per cento e una crescita, sia pur modesta, della produzione di questi alimenti c'è stata anche in Africa. Ma gli africani, come tanta altra gente dei Paesi cosiddetti 'in via di sviluppo', muoiono lo stesso di fame. Perché in un'economia mondiale integrata, di mercato e monetaria, il cibo non va dove ce n'è bisogno, ma dove c'è il denaro per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e in generale al bestiame dei Paesi industrializzati, se è vero che il 66% della produzione mondiale dei cereali è destinato all'alimentazione degli animali dei Paesi ricchi (dati FAO). Il paradosso dei paradossi è che i poveri del Terzo Mondo sono costretti a vendere alle bestie occidentali il cibo che potrebbe sfamarli. E' la legge del mercato e del denaro.
Non si tratta quindi di portare ai Paesi poveri i nostri pelosi 'aiuti', che anzi, integrandoli ancor più nel mercato globale, finiscono per strangolarli del tutto. Non si tratta di 'salvare' nessuno. L'Africa, come s'è visto, stava molto meglio quando si salvava da sola. Si tratta di cambiare radicalmente l'orientamento del nostro pensiero -sulla linea di Bergoglio- rimettendo al centro del sistema l'uomo e relegando l'economia al ruolo secondario che ha sempre avuto prima che apparisse come forte classe sociale il mercante, precursore della più odiosa di tutte le figure, l'Imprenditore (che si spellava le mani al messaggio di Bergoglio) da cui quasi tutti noi oggi dipendiamo come 'schiavi salariati'. Una mission impossible di fronte alla quale anche quelle di un Papa sono parole al vento.



LO SPIRITO PROSTITUENTE

Chissà, forse con la guerra alle porte parlare di stile è un lusso che non possiamo permetterci. Eppure lo stile, in democrazia, non è solo estetica e apparenza: è sostanza. Ne abbiamo talmente bisogno da appassionarci persino alla notizia che il presidente della Repubblica per i suoi viaggi privati utilizza voli di linea, anziché l’aereo di Stato. E lo fa senz’annunciarlo in pompa magna, mentre Renzi ha promesso mille guerre ai privilegi della casta e poi è il primo a profittarne (l’ultima volta a Capodanno, quando si imbarcò su un volo militare da Roma ad Aosta, con scalo a Firenze per prelevare la famigliola e andare a sciare a Courmayeur). Così la notizia che in altri paesi sarebbe normale, come lo era in Italia ai tempi di Pertini, diventa eccezionale. E viene usata dai leccatori professionisti per santificare vieppiù Mattarella dopo aver beatificato Napolitano per il motivo opposto: prendeva sempre i voli blu e, quand’era eurodeputato, volava in low cost da Roma a Bruxelles ma si faceva rimborsare il decuplo come avesse volato Alitalia. Non sono questioni penali, né morali: solo di stile.
Ieri Renzi ha mostrato stile, dissociandosi dai tamburi di guerra che echeggiano a destra e a manca, beceri almeno come quelli contrari del felpato Salvini (lui la guerra vuol farla solo ai profughi e ai disperati in alto mare, così almeno è sicuro di vincere). Il premier ha detto, con Prodi: sentiamo l’Onu, gli alleati, gli organismi internazionali, poi decidiamo. Non sembra neppure lontano parente del Renzi che l’altra notte bulleggiava alla Camera, mani in tasca, panza in fuori e maglioncino fico (a quando in pigiama?). Bivaccava fra i banchi dell’emiciclo, dove non potrebbe metter piede perché nessuno l’ha eletto. Mandava la ministra Boschi a prendergli il caffè come faceva B. con Alfano perché sia chiaro chi comanda. Minacciava chi non vota le sue controriforme di andare alle elezioni, rubando il mestiere al capo dello Stato. Poi incassava la miseria di 308 voti (meno del 50% più uno, che corrisponde a un quorum di 316 voti) e trasformava il magro bottino con cui pretende di cambiare la Costituzione in un plebiscito oceanico. E faceva pure il ganassa con i tweet contro “gufi e sorci verdi” (che però hanno la maggioranza numerica sia alla Camera sia al Senato). Perché lui tira sempre diritto, “piaccia o non piaccia”. Ma che vuol dire “piaccia o non piaccia”? Se piace, ok. Ma se non piace, sarà un problema o no?
“Nel 1946 – ricorda Michele Ainis, finalmente denapolitanizzato, sul Corriere [leggi qui] – si tenevano comizi in piazze affollatissime, si discuteva nei partiti, c’era in edicola persino una rivista (La Costituente) che accompagnò i lavori dell’Assemblea. Anche nel 2005, durante il parto della Devolution, un fremito percorse gli italiani. Di qua i circoli di FI, di là i comitati Dossetti, le Acli, i sindacati. E l’anno dopo al referendum, benché senza quorum, votò il 53%. Ma adesso alla partecipazione, è subentrata l’astensione… Il Pd timbra la riforma in solitudine, perché le opposizioni escono dall’Aula. O meglio, non in solitudine: con i transfughi, con i 127 deputati eletti in virtù d’un premio annullato dalla Consulta. Totale, 308 voti. Curioso: gli stessi che, nel novembre 2011, incassò Berlusconi sul rendiconto dello Stato. Lui ci rimise la poltrona, ora quel numero basta per correggere 40 articoli della Costituzione”.
Tutto formalmente corretto, per carità. Ma dov’è lo stile? Nel 1947 Benedetto Croce invocò lo Spirito Santo sui 556 padri costituenti recitando il Veni Creator Spiritus. Lo spirito costituente. Oggi, al posto, abbiamo le guapparie del premier e i voltafaccia di B., che fino a un mese fa votava queste porcate peggiorandole vieppiù e ora grida alla svolta autoritaria fra i sorrisi soddisfatti della Boschi, le cui mani sante pochi mesi fa vennero immortalate nel celebre grattino alla schiena di Verdini. A proposito di mani: perché lorsignori, quando si parlano, si coprono la bocca? Cosa temono che leggiamo sulle loro labbra? Una barzelletta sporca o la prossima riforma? Speriamo la prima. 

 

lunedì 16 febbraio 2015

Fuori tempo massimo ovvero dell'incerto futuro del credito cooperativo in Italia

La questione bancaria italiana anche per quanto riguarda le componenti minori del sistema è finalmente posta. L'intervento del Capo della Vigilanza della Banca d'Italia del 12 febbraio scorso alla Federazione delle Cooperative Raiffesen di Bolzano disegna, infatti, un quadro invero sinistro della situazione del Credito Cooperativo in Italia, indicando nella aggregazione obbligata delle sue 350 componenti locali attorno a un fulcro centrale l'unica soluzione possibile per il salvataggio di questo storico segmento.
Il documento propone, in sintesi, una sorta di autoriforma assistita, unica strada per evitare interventi governativi, ma soprattutto lo spauracchio tanto per l'Autorità di vigilanza nazionale quanto per il Movimento della avocazione delle situazioni più problematiche da parte del neonato Meccanismo Unico di Vigilanza gestito dalla BCE. Cosa che farebbe perdere definitivamente la faccia a tutti.
L'analisi dei punti critici non lascia fuori nessun profilo: essi sono, per Banca d'Italia, sia strutturali che congiunturali, sono irreversibili e non sono più gestibili con progetti basati su interventi volontaristici, quali l'eterno incompiuto (e ormai definitivamente sepolto) Fondo Istituzionale.
Quando si arriva a formulare questa diagnosi, il pensiero corre subito alla ricerca delle motivazioni del come e qualmente si sia potuti arrivare a questo punto. Ma tant'è, anche se non può non destare sorpresa e financo irritazione il rapido cambio di scena: soltanto ieri le BCC erano solide con qualche circoscritta situazione di crisi, oggi invece è l'intero sistema ad essere in crisi con qualche singola situazione di eccellenza.
Una applicazione del paradosso di Parmenide della freccia che saetta nell'aria ma che in ogni istante del tempo è ferma. Le bcc sono solide se fermiamo il tempo, ma se lo facciamo scorrere emergono crepe sempre più numerose e profonde.
Che un vertice nazionale abbia proceduto tronfio, sicuro, verrebbe quasi da dire arrogante lungo il proprio disegno di grandeur, senza ascoltare gli scricchiolii da tempo ben udibili, soprattutto nelle componenti più significative della propria articolazione territoriale (si vedano i bilanci 2013 dei sistemi veneto, toscano, lombardo, emiliano) è diventato un fatto certificato. Come lo è, specularmente, il riconoscimento dell'efficacia relativa delle policy di vigilanza che, con il discorso di Bolzano, ammettono di avere per troppo tempo predicato nel deserto.
Sintesi di tutto: correre ai ripari, senza opzioni possibili, prendere al volo, senza molto discutere, un modello per il credito cooperativo, quello spagnolo sembra di capire (ma forse c'è ancora poca chiarezza di idee; per esempio, dovrà essere nazionale o regionale?), applicarlo senza se e senza ma, con istituti giuridici mai sperimentati come il contratto di dominio; insomma coscrizione obbligatoria, serrando le fila con legami indissolubili, non solo associativi, ma industriali. I servizi sono prodotti dalle varie componenti del movimento, si acquistano soltanto internamente, guai a chi rivendica autonomie. È a rischio la cooperazione! Tutti consegnati in caserma o, calcisticamente parlando, tutti in ritiro permanente, agli ordini di un comandante o di un mister con pieni poteri.
E chi guiderebbe l'autoriforma assistita? Ma che domanda? I soliti noti, come traspare chiaramente dalla lettera circolata in modo riservato (in effetti non si è capito bene se pubblica o privata) pochi giorni prima a firma del Presidente di Federcasse, che, con assoluto tempismo, ha anticipato il discorso di Bolzano, profondendosi nell'analisi del fallimento del sistema, nella indicazione della unicità della via di uscita e in quella del "conducator" (al limite, ci sia consentito, dell'impudicizia, dato che egli sembra osservare la desolante realtà in qualità di esterno). Sì, perché di fallimento di sistema si deve a questo punto parlare. Dalla sua ontologia (veramente il credito cooperativo costa all'economia meno delle altre forme di intermediazione retail?), alle sue deviazioni (i danni, non solo di immagine, dei numerosi conflitti di interesse sono superiori ai benefici della vicinanza al territorio), dalle superfetazioni di governance (pletoricita' degli organi aziendali e tempi dilatati di occupazione degli incarichi), ai ritardi dei processi operativi (sia tecnologici sia in termini di integrazione e controllo), all'impoverimento nell'offerta di servizi bancari (con utili da intermediazione in titoli maggiori di quelli dell'attività primaria, quasi le BCC si stessero trasformando da banche no profit in società finanziarie). Ecco con qualche dettaglio in più la spietata analisi contenuta nel discorso di Bolzano.
A mio avviso, merita due parole in più la causa più importante del fallimento: vale a dire la questione che ho chiamato ontologica, cioè della essenza stessa del credito cooperativo nel XXI^ secolo. Per gestire una quota di mercato intorno al 6%, raggiunta dopo una corsa forzata e rischiosa durata 15 anni e quindi continuata anche dopo lo scoppio della crisi, le BCC necessitano, al momento, di una struttura pari al 15% degli sportelli di tutto il sistema e di oltre il 10% degli addetti all'intera industria bancaria nazionale. In altri termini per produrre una unità di prodotto bancario cooperativo c'è bisogno di un apparato industriale pari per lo meno a due volte la media del sistema bancario italiano. Con questa configurazione, potrà mai essere realmente competitivo, dato che aprendo molti sportelli in centri cittadini le BCC hanno scelto di confrontarsi con mercati più complessi rispetto alla loro tradizione? Come può questa inefficienza non tradursi in maggiori costi per i propri clienti, potendo difficilmente essere compensata dai vantaggi
fiscali consentiti alla cooperazione? Inoltre, in termini relativi, il disallineamento è destinato ad aumentare ulteriormente, dato che le BCC, nel loro insieme, non hanno ancora iniziato a ridurre la propria struttura operativa (Banca d'Italia dice che nel 2014 i costi amministrativi sono addirittura aumentati), come invece sta, giocoforza, avvenendo per altre parti del sistema bancario italiano. Il tutto si traduce quasi nella negazione della natura calmieratice in nome della quale fu creata tanto tempo fa la cooperazione del credito.
Bisogna a questo punto evitare di fare di ogni erba un fascio e operare una distinzione rispetto a quelle banche cooperative che, sistematicamente e anche mettendosi in posizione critica rispetto al mainstream del movimento, hanno seguito strade più virtuose, puntando sull'efficienza delle componenti industriali della propria attività di intermediazione e quindi sulla produttività in termini sia di prodotto per addetto, sia di volumi intermediati per sportello.
I risultati hanno via via generato strutture più robuste, sulle quali è stato fatto crescere uno sviluppo prudente ed equilibrato, fatti salvi gli effetti della crisi economica che ha ovviamente interessato tutti.
Cito a questo proposito le cinque banche di credito cooperativo raccolte intorno al modello di business del network Cabel di Firenze, le quali per attivo complessivo si pongono al secondo posto della graduatoria nazionale di tutte le BCC, a non molta distanza dalla più grande (fonte Mediobanca). E ciò a dimostrazione che qualcosa di più e di più positivo si poteva costruire per tutti.
È difficile ipotizzare che chi ha operato per anni secondo principi gestionali di maggiore efficienza veda con favore iniziative di aggregazione forzosa, in cui anche le proprie positive modalità di erogazione di servizi tecnologici e professionali, tra l'altro appetite da altre componenti istituzionali del mercato degli intermediari italiani, debbano dissolversi, in nome di un centralismo, che per storia vissuta, non ha dato prova ne' di piena consapevolezza di ruolo ne' di sufficiente capacità di approntare per tempo soluzioni adeguate per la buona salute del movimento.
Di fronte a un mondo nuovo che si prepara a essere partorito con tecniche ostetriche di emergenza, le garanzie da dare alle parti migliori del movimento cooperativo non potranno che essere chiare, concordate, credibili, oltre che nelle modalità, anche nelle figure di coloro che ne assumeranno individualmente, sotto l'occhio vigile della vigilanza, le connesse responsabilità.
A meno che tutto ciò di cui ora freneticamente si parla e si (auto)propone non sia, nel recondito desiderio di qualcuno, destinato a essere, tra qualche tempo, riposto sugli scaffali gattopardeschi del tutto cambi, affinché nulla cambi o dello shakespeariano tanto rumore per nulla.
Ma un nuovo fantasma ha cominciato ad aggirarsi per l'Europa, quello del potere di Francoforte di avocare a se' anche le crisi delle banche less significant. E così, citando pure Marx, le paure vanno alle stelle, anche se tutti sanno che fretta e paura non sono mai state, per nessuno, buone consigliere. Purtroppo il tempo è semplicemente scaduto.

 Daniele Corsini - Davide De Crescenzi

mercoledì 11 febbraio 2015

Io credo nell'inferno, quello vissuto in terra

Cosa può dire del Paradiso un onesto pagano quale mi considero? Io non credo nel Paradiso. Credo nell'Inferno. In terra. L'uomo è l'unico essere del Creato ad essere lucidamente consapevole della propria fine. Tutto ciò che hai vissuto, amato, conosciuto, visto, ascoltato, letto svanisce di colpo nel nulla, lo spaventoso Nulla. Penso che se ci fosse davvero Qualcuno che ha creato questa favoletta tragica sarebbe un sadico. E Baudelaire dice: «L'unica scusante di Dio è di non esistere». Credo che tutte le religioni siano nate dall'esigenza di rimuovere questa consapevolezza intollerabile della fine. Non c'è popolo e cultura nella Storia che non abbia un Dio, una religione, un culto o comunque un'idea del metafisico. Persino il buddismo trova il suo paradiso nel Nirvana, cioè nel totale annullamento dell'individuo e della sua coscienza. Ma anche un pensiero così apparentemente pessimista contiene in sè l'idea di un dopo, raggiunto attraverso la peregrinazione in vari stadi dell'umano. Anche i Romani che, a livello di elites colte, erano assolutamente pagani, avevano un'idea dell'immortalità che era data dalla Gloria che a differenza del successo, che riguarda il presente ed è, insieme al Dio quattrino, uno degli idola dell'età contemporanea, si proietta nel futuro. E certamente Dante o Beethoven vivono, a distanza di secoli, in noi che stiamo vivendo. Ma loro sono morti, irrimediabilmente, radicalmente morti e non possono sapere, dai sarcofaghi in cui sono custodite le loro ossa, che vivono ancora nella mente degli altri.
Per la verità, secondo il rumeno Mircea Eliade, il più grande studioso delle religioni, c'è un popolo che non ha né Iddii né culti: sono gli indigeni delle Isole Andemane, le cui origini sono antichissime. In tempi remotissimi avevano anche loro un dio, che si chiamava Peluga, ma essendosi accorti che se ne straffotteva bellamente di loro, lo hanno rimosso e completamente dimenticato. Ciò non gli ha impedito di vivere felici e contenti. Ma qui risaliamo all'infanzia dell'umanità. E non è un caso che tutti gli autori laici che mi hanno preceduto, a cominciare da Dario Fo, con quel suo splendido e poetico racconto (anch'io, pur avendo una ventina d'anni meno di lui, ho un magico ricordo di noi ragazzini che all'alba, quando rientravano i pescatori, reggevamo le loro reti, non sul lago, come Dario, ma sulle rive di qualche paesino della Liguria) quando pensano a un paradiso in terra si rifanno alla loro infanzia, in quel mondo sognante e fatato dove distanze, cose, uomini, tempo si dilatano a dimensioni oniriche e vaghe e tutto è immerso in un'atmosfera magica. Perché non abbiamo ancora una cognizione precisa del mondo, dei suoi confini, delle sue dimensioni, dei luoghi, delle cose, dei fatti, della loro successione, del rapporto fra spazio e tempo. E tutto ci appare incerto e incantato. Alle nostre spalle non ha fatto ancora la sua comparsa quel tremendo occhio -la consapevolezza- che ci guarda vivere. Viviamo e basta. Ed è forse proprio perché, nel mio caso, quell'occhio ha preso ad osservarmi fin dall'inizio, togliendomi l'innocenza, che volevo, disperatamente volevo, rimanere nell'inconsapevolezza dell'infanzia pur avendola in realtà già perduta. Perché una cosa è veramente magica solo quando non si sa che lo è. Eppure nonostante questa contraddizione e tensione estreme ho avuto un'infanzia e un'adolescenza felici (il mio personalissimo paradiso) anche se insidiate e rese inquiete dalla coscienza che sarebbero finite. Credo che in tutti i bambini ci sia, sia pur per qualche attimo subito dimenticato fra i giochi, ma ricorrente, questa inquietudine. Così almeno canta Marisa Sannia: «C'è una casa bianca che, che mai più io scorderò/mi rimane dentro il cuore con la mia gioventù/Era tanto tempo fa/ero bimba e di dolore io piangevo nel mio cuore/non volevo entrare in là/Tutti i bimbi come me hanno qualche cosa che di terror li fa tremare/e non sanno che cos'è/Quella casa bianca che non vorrebbero lasciare è la loro gioventù che mai più ritornerà/Tutti i bimbi come me hanno qualche cosa che di terror li fa tremar e non sanno che cos'è/E' la bianca casa che mai più io scorderò/Mi rimane dentro il cuore con la mia gioventù che mai più ritornerà/ritornerà».



CRISI GRECA, LA POSTA IN GIOCO NON È SOLO IL DEBITO

A due set­ti­mane dalla vit­to­ria elet­to­rale di Syriza i ter­mini dello scon­tro tra il nuovo Governo greco e l’Unione Euro­pea si deli­neano con chia­rezza. Non è solo scon­tro tra dot­trine e politiche eco­no­mi­che diverse: una favo­re­vole alla spesa pub­blica, l’altra attac­cata all’austerity. E meno che mai un con­fronto tra euro sì ed euro no. In que­sta vicenda l’economia ha ceduto il posto alla poli­tica; anzi, a un puro rap­porto di forze.
Non è nem­meno, anche se così ci avvi­ci­niamo al nucleo del con­ten­dere, un con­fronto tra una poli­tica che mette al cen­tro le per­sone e una poli­tica incen­trata sul denaro. In gioco c’è l’accettazione o il rifiuto del domi­nio incon­tra­stato di chi ha il denaro su chi denaro non ne ha: quel domi­nio che Marx chiama Capi­tale, ben sapendo che esso è un rap­porto sociale, le cui poste sono la ripar­ti­zione del red­dito tra salari e pro­fitti (nelle loro varie forme), modi e tempi del lavoro, accesso ai ser­vizi sociali, appro­pria­zione di tutto l’esistente: risorse natu­rali, vita asso­ciata, ser­vizi pub­blici, sapere, genoma, salute.
Il pro­blema non è se la Gre­cia resti­tuirà o no il debito che i suoi gover­nanti hanno con­tratto per suo conto, come cer­cano di farci cre­dere gli apo­lo­geti della finanza, spie­gan­doci che a pagare per i Greci rischiamo di essere noi. È chiaro che quel debito «i Greci» non lo paghe­ranno mai: non hanno il denaro per farlo ora; non lo avranno nem­meno in futuro; per almeno una gene­ra­zione. Lo sanno tutti. Ma a chi tiene i cor­doni della borsa que­sto non inte­ressa: basta che quel debito sia regi­strato nelle scrit­ture con­ta­bili e che tutti — cre­di­tori e debi­tori – si inchi­nino di fronte al suo potere. Per­ché è con quelle scrit­ture con­ta­bili che gli «gnomi» della finanza pos­sono man­dare in rovina, in 24 ore, un intero popolo per diverse gene­ra­zioni. Se e fin­ché quel potere verrà loro rico­no­sciuto. Ma disco­no­scerlo non è facile. E mette paura. Soprat­tutto se a disco­no­scerlo si rimane da soli.
Anche il con­fine tra cre­di­tori e debi­tori, peral­tro, è tutt’altro che netto. Pren­dete l’Italia. Uffi­cial­mente è cre­di­trice della Gre­cia per 40 miliardi, pre­stati attra­verso il, Bce, Fmi e Fondo salva-stati. Pec­cato che per pre­stare quel denaro alla Gre­cia con il Fondo salva-stati, il nostro paese si sia inde­bi­tato di altret­tanti miliardi, andati ad aggiun­gersi alla mon­ta­gna del suo debito pub­blico: tanto grande da met­terla a rischio di fare la stessa fine della Gre­cia. Ma è così per tutti: il debito è come una serie di sca­tole cinesi, una den­tro l’altra, di cui, soprat­tutto in Europa — dove non esi­ste più una Banca cen­trale «pre­sta­tore di ultima istanza» — non si intra­vede la fine.
Chi detiene il debito dell’Italia? Ban­che, assi­cu­ra­zioni e fondi spe­cu­la­tivi (più qual­che pic­colo rispar­mia­tore). Ma ban­che e spe­cu­la­tori hanno acqui­stato quel debito facendo altri debiti. E questi chi li detiene? Altre ban­che, altri fondi, altri spe­cu­la­tori. E così di seguito, fino a che non si incappa in un pugno di ric­ca­stri (l’1 per cento – o forse per mille — della popo­la­zione mon­diale) che non sareb­bero mai diven­tati tali senza essere ben inse­riti in que­sto mar­chin­ge­gno; e in un eser­cito di polli pronti per essere spen­nati. Che, per svol­gere nor­mali atti­vità di compravendita, o per garan­tirsi cure medi­che, vec­chiaia e istru­zione, hanno affi­dato i loro risparmi a que­gli ope­ra­tori. I quali, gra­zie alla man­canza di con­trolli, hanno rie­scono a mol­ti­pli­care quel denaro a loro esclu­sivo van­tag­gio. Sono loro, ora, i «pre­sta­tori di ultima istanza»: quelli che hanno il col­tello dalla parte del manico. Ma è un sistema tanto più fra­gile quanto più è macchinoso. Un gra­nello di sab­bia potrebbe farlo cadere rovi­no­sa­mente, come sette anni fa con il fal­li­mento Leh­man Bro­thers. Ma cadere da che parte? Verso un regime ancora più auto­ri­ta­rio, o verso una società che impara a gover­narsi da sola?
Messa in que­sti ter­mini, si capi­sce la durezza di governi e auto­rità euro­pee con­tro il pro­gramma di Syriza. In gioco c’è pro­prio quel mar­chin­ge­gno, da cui dipende il destino dell’Europa così come è ora; e forse anche gran parte dei rap­porti tra le classi sociali e tra la società e l’ambiente in tutto il mondo. Se il governo Greco riu­scirà a «spun­tarla» è per­ché man­darlo in malora rischia di far crol­lare il castello su cui è costruito il potere di tanti governi fat­tisi tra­mite degli inte­ressi dell’alta finanza. E rischia di inne­scare un «effetto domino» capace di risucchiare den­tro un grande buco nero tutti i paesi più fra­gili dell’Unione euro­pea, per arri­vare poi a coin­vol­gere, uno die­tro l’altro anche quelli più solidi. Ma se il Governo greco la spunterà, sarà anche e soprat­tutto per l’appoggio che rice­verà da una mobi­li­ta­zione che può e deve coin­vol­gere l’Europa intera. Per que­sto è così impor­tante la mobi­li­ta­zione di sabato pros­simo a soste­gno del popolo e del governo greco!
Non sarebbe una vit­to­ria da poco; sarebbe la dimo­stra­zione pra­tica che l’autorganizzazione di base e il mutuo soste­gno pagano: che le far­ma­cie e gli ambu­la­tori aperti dal volon­ta­riato, le mense popo­lari, le coo­pe­ra­tive e i far­mers mar­ket (i Gas), la tele­vi­sione di Stato che ha con­ti­nuato a tra­smet­tere su basi volon­ta­rie dopo la sua chiu­sura, le fab­bri­che auto­ge­stite, le monete alternative locali, e tutte quelle ini­zia­tive appog­giando e pro­muo­vendo le quali Syriza è diven­tata mag­gio­ranza pos­sono essere l’inizio di una rior­ga­niz­za­zione dei rap­porti sociali: un’organizzazione incen­trata non più sul potere del denaro, ma sui biso­gni delle persone.
Que­sta è la vera posta in gioco dello scon­tro in atto. Le auto­rità euro­pee non esclu­dono certo nuove forme di «aiuto» finan­zia­rio per le casse esau­ste del governo e delle ban­che gre­che; a con­di­zione, però, che venga rin­ne­gato quel soste­gno a una popo­la­zione esau­sta, a un’occupazione ridotta ai minimi ter­mini, ai biso­gni più ele­men­tari della gente; cioè al pro­gramma che l’elettorato ha votato per far valere la pro­pria dignità.
Con­ce­dere qual­cosa in ter­mini finan­ziari a un governo in crisi non costa molto: è solo un tra­sfe­ri­mento di qual­che posta da un capi­tolo all’altro dei bilanci delle parti in causa. Ma con­ce­dere qual­cosa oggi alla Gre­cia che si è ribel­lata al giogo della finanza coste­rebbe molto: sarebbe il segno che, se si vogliono rico­sti­tuire le basi di una con­vi­venza civile, si può e si deve fare a meno di «loro anche in ogni altro paese. Le pre­messe ci sono tutte e in Spa­gna con Pode­mos, o in Croa­zia con «Bar­riera umana», già si intrav­ve­dono forze che, cia­scuna a modo suo, si sono messe sulla strada che ha por­tato Syriza al governo.
E in Ita­lia? Pre­messe ce ne sono anche qui. Anzi, forse non c’è un altro paese euro­peo che abbia una ric­chezza e una varietà di lotte, di movi­menti, di comi­tati, di asso­cia­zioni, di mobi­li­ta­zioni, di ini­zia­tive grande come da noi. Ma in nes­sun altro paese la pos­si­bi­lità di que­ste forze di rap­pre­sen­tarsi poli­ti­ca­mente è così com­pressa e dispersa. Soprat­tutto dal biso­gno di auto­per­pe­tuarsi dei tanti par­titi «di sini­stra», inca­paci di quel passo indie­tro che tante volte si sono impe­gnati a fare e che mai – nem­meno ora – sem­brano capaci di attuare: per non per­dere quei pic­coli poteri che rica­vano, soprat­tutto a livello locale, di una con­so­li­data subal­ter­nità al Pd. Ma i tempi sono ormai maturi per la com­parsa di una realtà nuova, men­tre le respon­sa­bi­lità di chi impone que­sto stallo sono sem­pre più gravi.



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