"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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lunedì 29 giugno 2015

Analisi comparata



Vorremmo brevemente mettere a confronto due testi usciti in settimana che, pur avendo in comune l'argomento delle condizioni del sistema bancario italiano e dei suoi organismi di vigilanza, sono quanto di più distante si possa immaginare circa autori, stile, scopo degli scritti, platea dei destinatari, contenuti.

Il primo è il discorso, in inglese, tenuto da Ignazio Angeloni membro italiano del Supervisory Board della BCE, alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato; il secondo è il volumetto, pubblicato per Chiare Lettere, di Elio Lannutti dell'Adusbef, titolato "La Banda d'Italia" e sottotitolato "la prima vera inchiesta su Bankitalia, la super casta di intoccabili che governa i nostri soldi".

Come criterio di comparazione abbiamo scelto quello di valutarne l'efficacia in termini di aiuto al cittadino alla comprensione del contesto istituzionale in cui vive, rafforzandone il livello di consapevolezza in veste di consumatore di servizi bancari. Insomma un piccolo apporto in termini di educazione civica.

L'intervento di Angeloni è la sintetica ricostruzione del quadro che, a partire dal novembre scorso, data di avvio dell'Unione Bancaria Europea, si va edificando attraverso nuovi organismi di vigilanza, omogenei processi valutativi degli intermediari, periodiche verifiche delle condizioni delle banche a rilevanza sistemica, modalità di esercizio della ordinaria attività di supervisione, messa a punto delle politiche di intervento in caso di crisi bancarie e delle forme di tutela dei risparmiatori. Fanno da complemento all'azione sui singoli intermediari le politiche macroprudenziali, volte ad assicurare l'equilibrio delle variabili macroeconomiche per contenere i rischi dell'intera industria bancaria e finanziaria. Il metro di misura di sostenibilità dei rischi a livello di singolo operatore fa riferimento ai requisiti patrimoniali di cui agli accordi di Basilea, mentre viene ribadito che elemento essenziale di funzionamento del nuovo sistema di supervisione resta la trasparenza dei comportamenti di tutti gli attori in gioco.

Emerge da questa rappresentazione un quadro articolato eppure integrato di governo europeo di un'industria il cui scopo è quello di far affluire in misura adeguata risorse finanziarie al mondo della produzione e dei servizi. Angeloni misura anche le distanze del sistema nazionale da questo quadro, soffermandosi sui disallineamenti emersi nella fase della valutazione complessiva, comprendente la cosiddetto asset quality review e gli stress test. Mentre il rafforzamento patrimoniale di 7 banche italiane, risultate in prima battuta deficitarie, si è positivamente concluso, rimangono ancora critiche le situazioni di due di esse. La situazione generale non consente quindi di esprimersi in maniera definitiva sulla robustezza di una parte non secondaria del sistema, avvertendo che vi sono ancora rischi non adeguatamente governati e una ridotta propensione a fornire credito all'economia, dato l'elevato ammontare dei prestiti non performing, che ci vede al primo posto in Europa.

Il rinnovamento del quadro regolamentare che si profila con le direttive comunitarie di prossimo recepimento determinerà inoltre sostanziali cambiamenti dell'ordinamento italiano, con il diretto coinvolgimento del risparmiatore. Il Supervisory Board della BCE è quindi attento a monitorare la situazione del sistema bancario italiano nelle sue peculiari criticità.

Il libro di Lannutti appartiene invece al genere dei pamphlet scritti con intento scandalistico (di chi, scandalizzandosi, intende nel contempo scandalizzare), enfatizzato da un linguaggio senza mediazioni, per dimostrare che l'antidoto al coacervo di interessi in conflitto che sistematicamente opererebbero nel sistema bancario italiano con la finalità di danneggiare i risparmiatori siano la trasparenza dell'informazione, l'azione delle associazioni dei consumatori, il rigore di qualche magistrato.

Con questa intenzione, egli prende di mira gli ultimi tre governatorati di  Banca d’Italia, per dimostrare i rapporti collusivi dell'Organo di vigilanza con le banche vigilate e i numerosi conflitti di interesse autoalimentatisi nel tempo, traducendosi in politiche gestionali opache a danno sia dei risparmiatori sia dei prenditori di credito.

A sostegno di questa tesi, viene portata una serie di episodi attinenti a specifici interventi (o omissione di interventi) di vigilanza bancaria, nonché a profili organizzativi e gestionali della Banca d’Italia, in una girandola di azioni improprie facenti capo a soggetti esterni (commissari straordinari di banche in default) e interni (dirigenti e funzionari) all'istituzione.

I casi a carico dei singoli governatori sono: per Fazio la vicenda Banca Popolare di Lodi (2004-2005), per Draghi quelle di Monte dei Paschi e Carige (2008-2011), per Visco e i suoi più stretti collaboratori la gestione degli AQR e degli stress test (2013-2014) introdotti dalla BCE, nella prospettiva dell'Unione Bancaria.

Come si vede, si tratta di argomenti noti, dei quali si è a lungo discusso, e sui quali altri precedenti interventi dell'autore, come egli stesso riconosce, hanno spinto la Banca d’Italia alla querela.

A contorno vengono descritti episodi di rilievo minore, tutti comunque ricondotti al tema della collusione, per disegnare un quadro complessivo a tinte fosche, che il lettore interpreta come contesto di sostanziale illegalità.

Non ci si può nascondere che di fronte ad alcune vicende, raccontate secondo la più assoluta certezza e dovizia di particolari (nomi, date, circostanze) non si resti sconcertati e portati a riconoscere d'impulso che nell'ambiente che il libro descrive vi siano molte cose da correggere. Poi a una lettura più attenta emergono incongruenze e approssimazioni che alimentano perplessità di senso opposto.

Sta di fatto che se alcune delle critiche sembrano lecite, è obiettivamente difficile assecondare una visione talmente distruttiva, senza interrogarsi sulle sue implicazioni, a cominciare dalla fiducia nei riguardi di un intero sistema di vigilanti e vigilati.

Come è spesso destino dei pamphlet, anche questo, dopo un probabile effetto shock tra i suoi più o meno numerosi lettori, potrebbe finire presto dimenticato, senza alcuna effettiva utilità, a meno che, come si propone qui di seguito, non si dia a una tanto cruda rappresentazione un diverso indirizzamento per verificarne definitivamente l'attendibilità.

Secondo la logica che ci siamo prefissi, vale a dire quella della comparazione dei due scritti per valutarne l'utilità per il cittadino, vorremmo infatti avanzare la proposta di invertirne la destinazione.

Potrebbe essere quanto mai utile la pubblicazione del testo Angeloni sui giornali e su altri mezzi di comunicazione e forse anche la diffusione nelle scuole, affinché in questa particolare fase di profondo rinnovamento regolamentare dell'industria bancaria seguita all'avvio dell'Unione Bancaria Europea si alimentino conoscenze strutturate e ad ampio raggio del quadro in fieri.

Una maggiore consapevolezza dei cittadini-risparmiatori non può infatti prescindere dal soddisfacimento dei bisogni informativi su temi che presto li riguarderanno direttamente. Basti pensare al coinvolgimento dei risparmi nei processi di bail-in, per il salvataggio di banche in crisi, ma più in generale all'impatto della nuova regolamentazione sulla qualità e sui costi dei servizi bancari, anche per la stretta relazione tra Unione Bancaria e Area Unica dei Pagamenti Europei, cosiddetta SEPA, anch'essa avviata nel 2014.

La proposta speculare è quella di sottoporre il testo Lanutti alla Commissione Tesoro e Finanze di Camera e/o Senato, per valutare se, nell'aspra critica all'operato della Banca d'Italia, vi siano elementi tali da configurare un vulnus istituzionale. Circostanza che potrebbe prendere corpo, dato che la narrazione è finalizzata a una rappresentazione d'insieme, che rischia, tra l'altro, di danneggiare proprio le esigenze conoscitive del cittadino.

Se il detto latino secondo il quale "Oportet ut scandala eveniant" è sempre da tenere nella massima considerazione, siamo infatti portati ad osservare che approcci critici siffatti difficilmente possono aiutare nella difesa dei sacrosanti diritti dei consumatori, accrescendone al contrario il grado di confusione e facendo riemergere nella nostra italica mentalità la domanda del "cui prodest".

Per sgombrare il campo dai dubbi, vale a dire volendo dare rilevanza a tutto quanto riportato nel libro, verrebbe addirittura da pensare alla necessità di un'inchiesta parlamentare sulla Banca d'Italia, volta a chiarire definitivamente l'esistenza o meno dei conflitti di interessi endemici che, secondo il Lanutti, ne caratterizzerebbero l'azione. Ma ci sembrerebbe un po' troppo. Non di teoremi c'è bisogno, ma di chiarezza su singole circostanze, come ci ricorda anche oggi l'articolo del Corriere della Sera sulla storia della ricapitalizzazione del Monte dei Paschi di Siena.

Sarebbero, invece, da attendersi, ricorrendone i presupposti e sempre per esigenza di chiarezza, azioni giudiziarie di difesa da parte sia della Banca sia di coloro che nominativamente vengono chiamati in causa nel libro.

Considerazione finale: a coloro che in vari ambienti, anche a mezza voce, sollevano lamentele nei confronti dell'Unione Bancaria a causa della perdita di sovranità nazionale ovvero di regole di vigilanza troppo rigide e poco rispettose delle nostre peculiarità bancarie, vorremmo una volta per tutte ricordare una nota espressione, appena riadattata alla circostanza "È l'Europa bancaria, bellezza!" e aggiungere anche "finalmente!".

Daniele Corsini e Davide De Crescenzi 

Umberto Eco: "Un appello alla stampa responsabile"

Mi sono molto divertito con la storia degli imbecilli del web. Per chi non l’ha seguita, è apparso on line e su alcuni giornali che nel corso di una cosiddetta “lectio magistralis” a Torino avrei detto che il web è pieno di imbecilli. È falso. La “lectio” era su tutt’altro argomento, ma questo ci dice come tra giornali e web le notizie circolino e si deformino. 

La faccenda degli imbecilli è venuta fuori in una conferenza stampa successiva nel corso della quale, rispondendo a non so più quale domanda, avevo fatto un’osservazione di puro buon senso. Ammettendo che su sette miliardi di abitanti del pianeta ci sia una dose inevitabile di imbecilli, moltissimi di costoro una volta comunicavano le loro farneticazioni agli intimi o agli amici del bar - e così le loro opinioni rimanevano limitate a una cerchia ristretta. Ora una consistente quantità di queste persone ha la possibilità di esprimere le proprie opinioni sui social networks. Pertanto queste opinioni raggiungono udienze altissime, e si confondono con tante altre espresse da persone ragionevoli. 

Si noti che nella mia nozione di imbecille non c’erano connotazioni razzistiche. Nessuno è imbecille di professione (tranne eccezioni) ma una persona che è un ottimo droghiere, un ottimo chirurgo, un ottimo impiegato di banca può, su argomenti su cui non è competente, o su cui non ha ragionato abbastanza, dire delle stupidaggini. Anche perché le reazioni sul web sono fatte a caldo, senza che si abbia avuto il tempo di riflettere. 

È giusto che la rete permetta di esprimersi anche a chi non dice cose sensate, però l’eccesso di sciocchezze intasa le linee. E alcune scomposte reazioni che ho poi visto in rete confermano la mia ragionevolissima tesi. Addirittura, qualcuno aveva riportato che secondo me in rete hanno la stessa evidenza le opinioni di uno sciocco e quelle di un premio Nobel, e subito si è diffusa viralmente una inutile discussione sul fatto che io avessi preso o no il premio Nobel. Senza che nessuno andasse a consultare Wikipedia. Questo per dire come si è inclini a parlare a vanvera. 

Un utente normale della rete dovrebbe essere in grado di distinguere idee sconnesse da idee ben articolate, ma non è sempre detto, e qui sorge il problema del filtraggio, che non riguarda solo le opinioni espresse nei vari blog o twitter, ma è questione drammaticamente urgente per tutti i siti web, dove (e vorrei vedere chi ora protesta negandolo) si possono trovare sia cose attendibili e utilissime, sia vaneggiamenti di ogni genere, denunce di complotti inesistenti, negazionismi, razzismi, o anche solo notizie culturalmente false, imprecise, abborracciate. 

Come filtrare? Ciascuno di noi è capace di filtrare quando consulta siti che riguardano temi di sua competenza, ma io per esempio proverei imbarazzo a stabilire se un sito sulla teoria delle stringhe mi dica cose corrette o meno. Nemmeno la scuola può educare al filtraggio perché anche gli insegnanti si trovano nelle mie stesse condizioni, e un professore di greco può trovarsi indifeso di fronte a un sito che parla di teoria delle catastrofi, o anche solo della guerra dei trent’anni. 

Rimane una sola soluzione. I giornali sono spesso succubi della rete, perché ne raccolgono notizie e talora leggende, dando quindi voce al loro maggiore concorrente - e facendolo sono sempre in ritardo su Internet. Dovrebbero invece dedicare almeno due pagine ogni giorno all’analisi di siti web (così come si fanno recensioni di libri o di film) indicando quelli virtuosi e segnalando quelli che veicolano bufale o imprecisioni. Sarebbe un immenso servizio reso al pubblico e forse anche un motivo per cui molti navigatori in rete, che hanno iniziato a snobbare i giornali, tornino a scorrerli ogni giorno. 

Naturalmente per affrontare questa impresa un giornale avrà bisogno di una squadra di analisti, molti dei quali da trovare al di fuori della redazione. È un’impresa certamente costosa, ma sarebbe culturalmente preziosa, e segnerebbe l’inizio di una nuova funzione della stampa.
 


domenica 28 giugno 2015

CONTRO IL TOTALITARISMO FINANZIARIO, L’EUROPA CAMBIA O MUORE

 

L’«economia che uccide» di cui parla il papa la vediamo al lavoro in que­sti giorni, in diretta, da Bru­xel­les. Ed è uno spet­ta­colo umi­liante. Non taglia le gole, non ha l’odore del san­gue, della pol­vere e della carne bru­ciata. Opera in stanze cli­ma­tiz­zate, in cor­ri­doi per passi fel­pati, ma ha la stessa impu­dica fero­cia della guerra. Della peg­giore delle guerre: quella dichia­rata dai ric­chi glo­bali ai poveri dei paesi più fra­gili. 

Que­sta è la meta­fi­sica influente dei ver­tici dell’Unione euro­pea, della Bce e, soprat­tutto, del Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale: dimo­strare, con ogni mezzo, che chi sta in basso mai e poi mai potrà spe­rare di far sen­tire le pro­prie ragioni, con­tro le loro fal­li­men­tari ricette. 

La «trat­ta­tiva sulla Gre­cia», nelle ultime set­ti­mane, è ormai uscita dai limiti di un nor­male, per quanto duro, con­fronto diplo­ma­tico per assu­mere i carat­teri di una prova di forza. Di una sorta di giu­di­zio di dio alla rove­scia.

Già le pre­ce­denti tappe ave­vano rive­lato uno scarto rispetto a un tra­di­zio­nale qua­dro da «demo­cra­zia occi­den­tale», con la costante volontà, da parte dei ver­tici dell’Unione, di sosti­tuire al carat­tere tutto poli­tico dei risul­tati del voto greco e del man­dato popo­lare dato a quel governo, la logica arit­me­tica del conto pro­fitti e per­dite, come se non di Stati si trat­tasse, ma ormai diret­ta­mente di Imprese o di Società commerciali.

Ha ragione Jür­gen Haber­mas a denun­ciare lo slit­ta­mento – di per sé deva­stante – da un con­fronto tra rap­pre­sen­tanti di popoli in un qua­dro tutto pub­bli­ci­stico di cit­ta­di­nanza, a un con­fronto tra cre­di­tori e debi­tori, in un qua­dro quasi-privatistico da tri­bu­nale fal­li­men­tare. 

Era già di per sé il segno di una qual­che apo­ca­lisse cul­tu­rale la deru­bri­ca­zione di Ale­xis Tsi­pras e di Yanis Varou­fa­kis da inter­lo­cu­tori poli­tici a «debi­tori», posti dun­que a priori su un piede di ine­gua­glianza nei con­fronti degli onni­po­tenti «creditori».Ma poi la vicenda ha com­piuto un altro giro. Chri­stine Lagarde ha impresso una nuova acce­le­ra­zione al pro­cesso di disve­la­mento, alzando ancora il tiro. Facen­done non più solo una que­stione di spo­lia­zione dell’altro, ma di sua umi­lia­zione. Non più solo la dia­let­tica, tutta eco­no­mica, «creditore-debitore», ma quella, ben più dram­ma­tica, «amico-nemico», che segna il ritorno in campo della poli­tica nella sua forma più essen­ziale, e più dura, del «polemos». 

In effetti non si era mai visto un cre­di­tore, per stu­pido che esso sia, cer­care di ucci­dere il pro­prio debi­tore, come invece il Fmi sta facendo con i greci.

Ci deve essere qual­cosa di più: la costru­zione scien­ti­fica del «nemico». E la volontà di un sacri­fi­cio esemplare. Un auto da fé in piena regola, come si faceva ai tempi dell’Inquisizione, per­ché nes­sun altro sia più ten­tato dal fascino dell’eresia.

Leg­ge­tevi con atten­zione l’ultimo docu­mento con le pro­po­ste gre­che e le cor­re­zioni in rosso del Brus­sels group, pub­bli­cato (con un certo gusto sadico) dal Wall Street Jour­nal: è un esem­pio buro­cra­tico di peda­go­gia del disumano.L’evidenziatore in rosso ha spi­go­lato per tutto il testo cer­cando, con mania­cale acri­bia ogni, sia pur minimo, accenno ai «più biso­gnosi» («most in need») per cas­sarlo con un rigo. Ha negato la pos­si­bi­lità di man­te­nere l’Iva più bassa (13%) per gli ali­menti essen­ziali («Basic food») e al 6% per i mate­riali medici (!). 

Così come, sul ver­sante oppo­sto, ha can­cel­lato ogni accenno a tas­sare «in alto» i pro­fitti più ele­vati (supe­riori ai 500mila euro), in omag­gio alla fami­ge­rata teo­ria del tric­kle down, dello «sgoc­cio­la­mento», secondo cui arric­chire i più ric­chi fa bene a tutti!Ha, infine, dis­se­mi­nato di rosso il para­grafo sulle pen­sioni, impo­nendo di spre­mere ulte­rior­mente, di un altro 1% del Pil — e da subito! — un set­tore già mas­sa­crato dai Memo­ran­dum del 2010 e del 2012.Il tutto appog­giato sulla infi­ni­ta­mente repli­cata fal­si­fi­ca­zione dell’età pen­sio­na­bile «scan­da­lo­sa­mente bassa» dei greci (chi spara 53 anni, chi 57…). 

Il diret­tore della comu­ni­ca­zione della Troika Gerry Rice, durante un incon­tro con la stampa, per giu­sti­fi­care la mano pesante, ha addi­rit­tura dichia­rato che «la pen­sione media greca è allo stesso livello che in Ger­ma­nia, ma si va in pen­sione sei anni prima…». 

Una (dop­pia) men­zo­gna con­sa­pe­vole, smen­tita dalle stesse fonti sta­ti­sti­che uffi­ciali dell’Ue: il data­base Euro­stat segnala, fin dal 2005, l’età media pen­sio­na­bile per i cit­ta­dini greci a 61,7 anni (quasi un anno in più rispetto alla media euro­pea, la Ger­ma­nia era allora a 61,3, l’Italia a 59,7). 

E sem­pre Euro­stat ci dice che nel 2012 la spesa pen­sio­ni­stica pro capite era in Gre­cia all’incirca la metà di Paesi come l’Austria e la Fran­cia e di un quarto sotto la Ger­ma­nia.Il Finan­cial Times ha dimo­strato che «accet­tare le richie­ste dei cre­di­tori signi­fi­che­rebbe per la Gre­cia dire sì ad un aggiu­sta­mento di bilan­cio… pari al 12,6% nell’arco di quat­tro anni, al ter­mine dei quali il rap­porto debito-PIL si avvi­ci­ne­rebbe al 200%». 

Paul Krug­man ha mostrato come l’avanzo pri­ma­rio della Gre­cia «cor­retto per il ciclo» (cycli­cally adju­sted) è di gran lunga il più alto d’Europa: due volte e mezzo quello della Ger­ma­nia, due punti per­cen­tuali sopra quello dell’Italia. Dun­que un Paese che ha dato tutto quello che poteva, e molto di più. Per­ché allora con­ti­nuare a spre­merlo? 

Ambrose Evans-Pritchard – un com­men­ta­tore con­ser­va­tore, ma non acce­cato dall’odio – ha scritto sul Tele­graph che i «cre­di­tori vogliono vedere que­sti Kle­pht ribelli (greci che nel Cin­que­cento si oppo­sero al domi­nio otto­mano) pen­dere impic­cati dalle colonne del Par­te­none, al pari dei ban­diti», per­ché non sop­por­tano di essere con­trad­detti dai testi­moni del pro­prio fal­li­mento. E ha aggiunto che «se vogliamo datare il momento in cui l’ordine libe­rale nell’Atlantico ha perso la sua auto­rità – e il momento in cui il Pro­getto Euro­peo ha ces­sato di essere una forza sto­rica capace di moti­vare – be’, il momento potrebbe essere pro­prio que­sto». È dif­fi­cile dar­gli torto.

Non pos­siamo nascon­derci che quello che si con­suma in Europa in que­sti giorni, sul ver­sante greco e su quello dei migranti, segna un cam­bia­mento di sce­na­rio per tutti noi.Sarà sem­pre più dif­fi­cile, d’ora in poi, nutrire un qual­che orgo­glio del pro­prio essere euro­pei. E ten­derà a pre­va­lere, se vor­remo «restare umani», la vergogna.
 

Se, come tutti spe­riamo, Tsi­pras e Varou­fa­kis riu­sci­ranno a por­tare a casa la pelle del pro­prio Paese, respin­gendo quello che asso­mi­glia a un colpo di stato finan­zia­rio, sarà un fatto di straor­di­na­ria impor­tanza per tutti noi.

E tut­ta­via resterà comun­que inde­le­bile l’immagine di un potere e di un para­digma con cui sarà sem­pre più dif­fi­cile con­vi­vere. Per­ché malato di quel tota­li­ta­ri­smo finan­zia­rio che non tol­lera punti di vista alter­na­tivi, a costo di por­tare alla rovina l’Europa, dal momento che è evi­dente che su que­ste basi, con que­ste lea­der­ship, con que­sta ideo­lo­gia esclu­siva, con que­ste isti­tu­zioni sem­pre più chiuse alla demo­cra­zia, l’Europa non sopravvive. 

Mai come ora è chiaro che l’Europa o cam­bia o muore.La Gre­cia, da sola, non può far­cela. Può supe­rare un round, ma se non le si affian­che­ranno altri popoli e altri governi, la spe­ranza che ha aperto verrà soffocata.Per que­sto sono così impor­tanti le ele­zioni d’autunno in Spa­gna e in Portogallo. 

Per que­sto è così urgente il pro­cesso di rico­stru­zione di una sini­stra ita­liana all’altezza di que­ste sfide, supe­rando fram­men­ta­zioni e par­ti­co­la­ri­smi, incer­tezze e distin­guo, per costruire, in fretta, una casa comune grande e credibile.

Marco Revelli (“Il Manifesto” http://ilmanifesto.info/)

sabato 27 giugno 2015

25 Agosto 2000: centenario della morte di Nietzsche

 

Cento anni fa, proprio il 25 agosto 2000, sei settimane prima del suo 50° compleanno, moriva Friedrich Nietzsche.

Durante i precedenti due anni non aveva saputo nulla, sentito nulla, pensato nulla. Per quel che possiamo dire, non sapeva che la madre era morta nè che egli si trovava a Weimar. Non sapeva di essere famoso, nè che la sua fama poggiava sulla conferma di quasi tutto quello che aveva pensato.

Quando morì, non sapeva di vivere da quasi 8 mesi nel XX secolo, della cui prossima storia aveva previsto tanto e con tanta chiarezza: il secolo del "sorgere del nichilismo" e del crollo del vecchio ordinamento mondiale; la "classica età della guerra" e della "politica su larga scala" che avrebbe tratto le ultime conclusioni della "morte di Dio" e della scomparsa di ogni sanzione per la morale; l'età in cui la democratizzazione dell'Europa centrale avrebbe offerto un "involontario campo di cultura alla tirannia" e in cui gli insegnamenti di Hegel ( "la marcia della storia" ) e di Darwin ( "la sopravvivenza dei più forti" ) sarebbero diventati realtà pratiche e avrebbero ridotto gli individui ad "animali o automi".

Il secolo in cui la volontà di potenza, non sublimata e non frenata dalle costrizioni che ancora si imponevano al XIX secolo, si sarebbe impadronita dovunque delle leve del potere, in cui "questo maledetto antisemitismo" avrebbe offerto l'occasione e il movente all'ultimo dei delitti nichilistici, e in cui la sua teoria che "un popolo dalla forte volontà di potenza, privato della soddisfazione esteriore, vorrà la propria distruzione piuttosto che non volere affatto" sarebbe stata dimostrata con terribile compiutezza dalla disperata e tremenda esperienza del Reich.

L'amico e "discepolo" Peter Gast, che l'anno precedente, insieme a Elisabeth, sorella di Nietzsche aveva dato inizio alla terza edizione Omnia delle opere del filosofo, tenne l'orazione funebre nel cimitero parrocchiale di Röchen dove Nietzsche veniva sepolto accanto al padre, e, visibilmente commosso, ma anche rivelando quanto poco avesse capito del suo "Maestro", chiuse il suo indirizzo con queste parole: "Pace alle tue ceneri! Santo sia il tuo nome a tutte le generazioni future!".

In Ecce homo Nietzsche aveva scritto: "Ho una terribile paura: che un giorno mi chiameranno santo". Aveva previsto anche questo.

Oggi, a un secolo dalla morte, di tutte le sue profezie vogliamo mettere a fuoco quella per cui Nietzsche é noto a tutti: l'annuncio della morte di Dio, del Dio cristiano naturalmente, per cui la morte di Dio significa la fine del cristianesimo come religione dell'Occidente.

Nietzsche era profondamente convinto che il cristianesimo fosse nato e fosse morto anche se la sua agonia é durata 2000 anni, quando i discepoli di Gesù non hanno perdonato i suoi nemici.

L'argomentazione di questa tesi (che troviamo nell' Anticristo, opera scritto lo stesso anno, 1889, in cui Nietzsche cadde nella buia notte della follia), prende le mosse dalla convinzione che per il cristianesimo: "E' in sè completamente indifferente il fatto che una cosa sia vera o no, ma é estremamente importante, invece, fino a che punto sia creduta. Così ad esempio, se é insita una felicità nei credenti redenti dal peccato, come premesse di ciò, non é necessario che l'uomo sia peccatore, ma che si senta peccatore."

In questo modo il cristianesimo ha sostituito la verità con la fede che qualcosa sia vero. Anzi alla ricerca della verità ha posto un "divieto", e ha sostituito questa, che é la più autentica delle virtù, con le virtù teologali: fede, speranza e carità, che sono 3 "accorgimenti" a cui il cristianesimo é ricorso per distogliere l'uomo dalla ricerca della verità, e poterlo così "signoreggiare, addomesticare, dominare".

Fu così che il cristianesimo sostituì alla "lotta contro il dolore", che ritroviamo in ogni religione della natura, "la lotta contro il peccato", concepibile solo di fronte a una legge. Ma dov'é l'origine della legge se non nella casta sacerdotale che la promulga e riesce a imporla?

All'inizio non c'era legge nella religione ebraica i cui tratti essenziali erano quelli tipici di ogni religione, dove sono codificati i precetti che regolano il rapporto originario dell'uomo con la natura: "Il culto divino era, nell'antichità ebraica, natura, era il vertice della vita, e chiarirne l'altezza e la profondità costituiva il suo significato autentico". Poi, a seguito della cattività in Babilonia, questa religione andò incontro a un processo di "denaturalizzazione (denaturierung)" e il concetto di dio passò "nelle mani di agitatori sacerdotali" che ne fecero uno strumento di potere sui loro fedeli.

Nel Deuteronomio, infatti, emerge la legge, e alle nozioni naturali di causa ed effetto subentrarono le nozioni antinaturali di premio e castigo che facevano riferimento non più "alle condizioni di vita e di sviluppo di un popolo, ma a quell'unica condizione che si oppone alla vita che é la nozione di peccato".

A questo punto i peccati, "che sono caratteristici appigli per l'esercizio del potere, diventano indispensabili. Il prete vive di peccati, per lui é necessario che si pecchi. Principio supremo: dio perdona chi fa penitenza- o più chiaramente chi si sottomette al prete".

Contro questa impostazione dell'ordine religioso muove la sua azione Gesù, che per Nietzsche non é il "Cristo della fede", ma il "Gesù storico", che i Vangeli presentano come il ribelle che si oppone "a tutto ciò che era ecclesiastico e teologico", una sorta di "santo anarchico", un "delinquente politico" condannato perciò a subire "per colpa sua" la condanna della croce.

Alla "negazione della dottrina ecclesiastica ebraica" Gesù affianca l'annuncio della buona novella a cui mancano sia la nozione di colpa che quella di castigo; il peccato come segno di distanza tra l'uomo e Dio é eliminato, mentre la beatitudine, che scaturisce dall'innocenza infantile, diventa pratica di vita: "La vita di Gesù non é stata nient'altro che questa pratica di vita- anche la sua morte non fu altro.

Egli sa che solo con la pratica di vita ci si poteva sentire divini, beati, evangelici, figli di dio in qualsiasi momento. Non la penitenza, non la preghiera per il perdono sono le vie che conducono a dio, soltanto la pratica evangelica porta a dio, essa appunto é dio.

Ciò che fu liquidato con l'Evangelo fu l'ebraismo delle nozioni di peccato, remissione dei peccati, fede, redenzione mediante la fede", l'intera dottrina ecclesiastica ebraica era negata nella buona novella". Ma, prosegue Nietzsche: il Vangelo morì sulla croce. Ciò che da quel momento é chiamato buona novella o vangelo era già l'antitesi di quel che lui aveva vissuto: una cattiva novella un Dysangelium.

Come é potuta accadere questa metamorfosi che trasformò la pratica di vita di Gesù in una nuova chiesa in tutto simile alla chiesa dell'ebraismo? Accadde, a parere di Nietzsche, ad opera dei discepoli di Gesù che "non perdonarono quella morte- il che sarebbe stato evangelico nel più alto senso; e al perdono subentrò il sentimento meno evangelico, la vendetta. Questa si tradusse nell'innalzare Gesù in una maniera aberrante, di distaccarlo da loro, proprio allo stesso modo con cui una volta gli ebrei, per vendicarsi dei loro nemici, avevano separato da sè il loro Dio e lo avevano portato in alto. Il Dio unico e il figlio unico di Dio: entrambi prodotti del risentimento".

L'artefice massimo di questa trasformazione del messaggio originario di Gesù fu Paolo: "Questo genio dell'odio che, nella visione dell'odio e nella spietata logica dell'odio ereditato dall'istinto sacerdotale ebraico, trasformò la buona novella nella peggiore fra tutte.

Per questo falsificò la storia di Israele affinchè apparisse come la preistoria della sua azione: tutti i profeti hanno parlato del suo redentore. Poi la chiesa falsificò la storia dell'umanità facendone la preistoria del cristianesimo".

Come ogni sacerdote, Paolo aspirava alla potenza e, per ottenerla, si servì della menzogna: "Quel che lui stesso non credeva, gli idioti, tra cui egli gettò la sua dottrina, lo credettero; così riuscì a realizzare la tirannia dei sacerdoti, per formare delle mandrie: la fede nell'immortalità - vale a dire la dottrina del giudizio".

Oggi, alla luce della morte di Dio, scrive Nietzsche: é indecoroso essere cristiani; un teologo, un prete, il papa, non soltanto errano, ma mentono in ogni frase che proferiscono; anche il prete sa che Dio non esiste, che non c'é nessun peccatore, nessun redentore", perciò, recita l'ultima parte dell' Anticristo: "Sono giunto alla conclusione ed esprimo il mio giudizio . Io condanno il cristianesimo , levo contro la Chiesa cristiana la più tremenda di tutte le accuse che siano mai state sulla lingua di un accusatore. Essa é per me la massima di tutte le corruzioni immaginabili; essa ha avuto la volontà dell' estrema corruzione possibile.

La Chiesa cristiana non lasciò nulla di intatto nel suo pervertimento, essa ha fatto di ogni valore un disvalore, di ogni verità una menzogna, di ogni onestà un' abiezione dell' anima.

Computiamo il tempo di quel dies nefastus con cui ebbe inizio questa fatalità - dal primo giorno del cristianesimo! E perchè non invece dal suo ultimo giorno? Trasvalutazione di tutti i valori".

Qui il riferimento di Nietzsche non é solo ai valori cristiani, ma anche ai valori metafisici che, inaugurati dal platonismo, per 2000 anni hanno dominato la cultura dell'Occidente.

Lo scetticismo radicale che erode le fondamenta metafisiche e cristiane della cultura occidentale, a parere di Nietzsche, va portato fino in fondo, affinchè l'umanità sappia creare un "nuovo Dio" che Nietzsche indica in Dioniso, contrapposto non più ad Apollo, come nell'antica Grecia, ma al Crocefisso.

Quindi un Dio della natura e della gioia di vivere, nei limiti che la natura concede, contro il Dio della trascendenza e della glorificazione della sofferenza che abita quel "mondo dietro il mondo" che Platone da un lato e il cristianesimo dall'altro hanno inaugurato.

Ma "la menzogna bimillenaria", come la chiama Nietzsche, é ormai alla fine. E la sua fine coinciderà con la fine di un tipo d'uomo, quello cresciuto sui valori cristiani, che attende di essere superato da un nuovo tipo d'uomo, capace di liberare tutte le possibili risorse umane finora trattenute sotto il giogo di chi aveva la pretesa di parlare in nome di Dio.

Con questo messaggio si é chiusa la vita di Nietzsche e con essa la sua filosofia dell'avvenire con l'indicazione profetica della laicizzazione dell'Occidente che il XX secolo ha registrato come tratto tipico della sua fisionomia.


mercoledì 24 giugno 2015

La corruzione? Si combatte con la cultura digitale. Ecco perché

La corruzione, l'inefficienza, la cultura della raccomandazione possono essere combattute anche con l'informatica ma la digitalizzazione è ostacolata proprio da questi 3 fattori.

 

È una situazione di stallo ("deadlock" come dicono gli anglosassoni) non è dettata solo dal buon senso ma anche dall'indicatore della correlazione tra il Digital Economy and Society Index (DESI, fonte UE) e la classifica dei Paesi meno corrotti (fonte Transparency International), che risulta essere superiore a 0,9, un valore che fa pensare che i due ranking siano quasi lo stesso ranking.

 

Pur non potendo parlare di causalità o di uno studio scientifico, tutto ciò ci porta senza ombra di dubbio ad affermare che se riuscissimo a recuperare posizioni nel DESI (Indice digitale, economico e sociale all'interno dell'UE) sviluppando una corretta politica del digitale in Italia, certamente la corruzione nel nostro Paese subirebbe un significativo ridimensionamento.

 

La politica deve quindi comprendere che oggi come oggi la civiltà di un Paese si misura anche dal grado di digitalizzazione raggiunto e che nell'attuazione del digitale (e non nella produzione normativa) si trovano le leve per produrre un vero cambiamento.

 

Forse proprio così scopriremo che, come diceva Nelson Mandela, "Sembra sempre impossibile, finché non viene fatto". 

 

LUCA ATTIAS - Direttore Generale Sistemi Informativi Corte dei conti (Repubblica - 23 giugno 2015)

 

 

mercoledì 17 giugno 2015

SIAMO GIÀ MANIPOLATI ALL’INTERNO DA NOI STESSI?



Non bastano i media embedded (“arruolati”), i talk-suggestione, e gli opinionisti del quartiere (bottegaio, vicina del pianerottolo..), ora scopriamo che “siamo suggeriti”, e pure spesso condizionati, anche dall’interno di noi stessi. I batteri “alteranti”. 

I batteri sono ovunque. Non solo sono presenti in tutti i nostri contatti esterni ma dimorano in noi. Ma noi… siamo i nostri batteri?


E’ stato calcolato che nel microbiota del nostro sistema digestivo, in particolare della flora batterica intestinale, vivono almeno10 volte più cellule microbiche che in tutto il nostro corpo umano, ovvero decine di migliaia di mld di batteri. 

Il patrimonio genetico di questa affollata popolazione possiede più di 3 mln di geni, circa 150 volte quelli presenti nell’organismo umano. Sono circa 1000 le diverse specie di batteri rilevati nella flora intestinale umana, di queste specie però sono da 150 a 170 quelle prevalenti. 

Fra i 50 phyla batterici (il “phylum” pl. “phyla”, è il gruppo tassonomico gerarchicamente inferiore al regno, e superiore alla classe) classificati, 10 abitano il colon e 3 sono predominanti: Firmicutes, Bacteroidetes e Actinobacteria. 

L’interessante di tutto ciò è che solo un terzo di tutto questo patrimonio batterico è comune nella maggior parte delle persone, i restanti 2/3 sono specifici a ogni individuo, un po’ come le impronte digitali o i volti che variano sempre da persona a persona.

Riconosciamo a questa “popolazione” prevalentemente delle qualità fondamentali per la nostra salute. Dalla corretta digestione al buon assorbimento dei nutrienti, dalla produzione di alcune vitamine alla protezione dai patogeni, dall’integrità della mucosa intestinale allo sviluppo e sostegno del sistema immunitario.


Allora non è scorretto dire ..che noi siamo anche… i nostri batteri! Con i quali viviamo in simbiosi, d’accordo. Ma forse anche qualcosa di più..
 
Una ricerca scientifica del 2014 pubblicata sulla rivista “BioEssays” da ricercatori della UC San Francisco, Arizona State University e University of New Mexico (“Is eating behavior manipulated by the gastrointestinal microbiota? Evolutionary pressures and potential mechanisms” http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/bies.201400071/abstract) mette in evidenza come il microbioma intestinale, possa influenzare le scelte alimentari e le nostre decisioni con il rilascio di molecole di segnalazione nel nostro intestino e poiché l’intestino è collegato al sistema immunitario, al sistema endocrino e al sistema nervoso quindi al cervello, tali segnali potrebbero quindi influenzare la nostra fisiologia e le nostre risposte comportamentali. 

“I microbi hanno la capacità di manipolare il comportamento e l’umore alterando i segnali neurali del nervo vago, cambiando recettori del gusto, producendo tossine per farci sentire male, e rilasciando ricompense chimiche per farci sentire bene” afferma la Dott.ssa Athena Aktipis, dell’Arizona State University Department of Psychology. 

In un’altra ricerca precedente, il dottor Peter Konturek del Dipartimento di Medicina del Teaching Hospital of the University Jena, in Germania, ha scoperto insieme ad altri collaboratori che i batteri dell’intestino sono in grado di rispondere ai segnali di stress in modo attivo. Occorre inoltre sapere che il 95% della serotonina, il neurotrasmettitore dell’umore, viene prodotta proprio dall’intestino.


Allora… l’idea di sterminare germi e batteri come si vedeva nei film di fantascienza degli anni ’50, ma anche in certe attualissime spray-pubblicità, è qualcosa di superato se non assurdo, in quanto s’è da un po’ capito che nel mondo il 99% delle reazioni sono compiute proprio da batteri, e che senza di essi ci saremmo praticamente già estinti. 

Tuttavia, più se ne sa sull’argomento e più la nostra consapevolezza è utile che avanzi. Capire, ad esempio che i batteri hanno funzioni ‘socialmente’ utili di cui tuttavia ci siamo sempre serviti senza comprenderne appieno le implicazioni. 

Ora, anche alla luce di queste nuove ricerche, dovremo cercare di verificare se i desideri più o meno improvvisi per certi cibi (fame compulsiva) o i “cali di umore” (disforie) che a volte ci prendono e ci attanagliano, siano davvero endogeni o “endogeni-indotti”… indotti da “loro”, appunto. 

E inoltre dovremmo anche tentare di analizzare se la “loro” reazione è giustificata e quindi da soddisfare, oppure si tratta solo di un “capriccio” di specie, ovvero una “loro” “necessità” di primeggiare e/o di prevalere su altre specie di batteri, senza una ragione (almeno per noi) apparente.


Visto che questa nuova mansione risulterebbe per la maggior parte di noi un compito assai arduo, che si aggiunge al già pesante fardello quotidiano di fatiche, lavori, commissioni, spese previste e impreviste, stress, figli, coniugi e nipoti alla carica ecc. ecc. il consiglio, per chi può e soprattutto vuole, è quello di “nutrire” correttamente il microbiota con una buona alimentazione: ricca di alimenti vegetali (meglio se biologici o dell’orto), carboidrati complessi meglio se integrali (fibra), meno, molto meno derivati animali e zuccheri semplici raffinati, e un limitato (solo se davvero necessario) utilizzo di antibiotici, a favore di pre e pro-biotici. 

E’ quasi certo che così facendo ci risparmieremo l’ulteriore incombenza dell’analisi delle nostre, alle volte strane ancorchè persistenti, “voglie viscerali”, e gli amici batteri ci ringrazieranno e ci faranno… meno scherzetti.




martedì 16 giugno 2015

Kashgar di domenica: i mercati - A Kashgar il tempo sembra essersi fermato all'epoca della Via della Seta

https://youtu.be/bJysrj2u3GQ

Nella prefettura di KASHGAR il 72% della popolazione è uigura, il 4% sono pastori kirghisi o tagiki, il resto sono han. In tutto sono 280.000 abitanti. La città sorge a 1260 mt di altitudine tra i massicci del Tien Shan a nord (che dividono i bacini della Zungaria e del Tarim) Pamir a est e più spostato a sud il Karakorum. Non a caso Kashgar significa “punto d’incontro tra le genti”. 

Fu un centro carovaniero strategico lungo la Via della Seta all’incrocio delle piste che, contornando a nord e a sud il deserto del Taklamakan, collegavano la Cina all’Asia Centrale. Si può dire che qui iniziava la circumnavigazione del deserto che si apriva o chiudeva a Dunhuang. Nell’epoca in cui i mercanti percorrevano la Via della Seta, il viaggio da Xi’An a Kashgar richiedeva almeno 5 mesi. 

La prefettura di Kashgar confina con 5 Paesi e questo contribuisce ad aumentarne la strategicità politica. Tre di queste frontiere sono aperte (Pakistan, Kirghizistan e Tagikistan) mentre quelli con India e Afghanistan sono chiuse.

La maggioranza della popolazione è ancora uigura. In tempi recenti vi è stata un’immigrazione pari al 25% di han. Dopo la presa di potere negli anni ’50 si trattava perlopiù di carcerati mandati in esilio. Vivevano qui in isolamento ed erano costretti a lavori duri, ma potevano comunque spostarsi liberamente nella zona. 

Altri vennero incentivati e, viste le condizioni di vita ed ambientali, chi poteva ritornava da dov’era venuto. Attualmente, grazie ad un certo benessere che è arrivato fin qui, chi vi arriva riesce a trovare un ambiente più favorevole. Fa sempre molto caldo in estate e freddo in inverno ma nel complesso le condizioni sono accettabili. 

Il governo centrale ha investito parecchio, facendo arrivare l’autostrada nel 2007 e cercando di industrializzare la zona. L’errore è stato quello di non considerare che questa è un’oasi e che le risorse sono limitate. Innanzitutto l’acqua: a Kashgar scendono 15 mm di pioggia l’anno, pertanto tutta l’acqua deve arrivare via scorrimento dalle montagne oppure dal sottosuolo. 

Questa può essere molta ma non può sopportare un’industrializzazione sfrenata. In secondo luogo stanno venendo a mancare le risorse alimentari: la conversione di terreni agricoli in industriali crea la riduzione delle già limitate terre fertili con conseguente decremento dei raccolti, nonché l’aumento di prezzo delle derrate, in alcuni casi perfino triplicato.

Vicino al centro, di fronte ad una vasta piazza campeggia la statua di Mao. In Cina ne resistono poche e questa sembra essere quasi una beffa per gli uiguri che si vendicano dicendo che serve per fissare le adunate dei piccioni. Piccioni che lasciano irriverentemente il loro ricordo sul berretto del Grande Timoniere.

Con la nostra guida facciamo un giro per il bazar che in parte avevamo già visto da soli ieri sera. In realtà ieri abbiamo accumulato le domande e oggi cerchiamo le risposte. Stupisce vedere molti studi dentistici, che si presentano come dei negozi con accesso immediato alla poltrona. In questo si confondono quasi con gli onnipresenti barbieri. 

Sebbene il Profeta abbia prescritto di curare l’igiene personale, qui pare che non siano molto ligi e che per conseguenza creino molto lavoro per i dentisti. Vediamo inoltre delle sorte di cateteri intagliati in legno per bambini, i quali vengono fasciati e costretti a mantenere la posizione durante la notte. 

Una cosa particolare che ci lascia quantomeno perplessi è la vista di bambini col sedere scoperto in braccio ai genitori. Un’alternativa al pannolino. Al mercato sono esposti dei piccoli serpenti essiccati da usare come medicamento, mentre i pipistrelli o tartarughe secche servono solo come attrazione.

Il centro storico è in corso di totale trasformazione: le vecchie case vengono abbattute per lasciare il posto a nuove costruzioni. Prima le abitazioni erano costruita in terra mista a paglia mentre ora sono in cemento o mattoni con un rivestimento che richiama la tradizione uigura. Fortunatamente lo stile rimane quello precedente e l’impatto dovrebbe risultare minimo. 

Quello che stupisce è la contemporaneità di queste ristrutturazioni: sembra che tutto debba essere abbattuto e riscostruito allo stesso tempo. Ovunque si vedono cantieri e macerie. L’impressione è quella di trovarsi di fronte alla fase successiva a quella di un terremoto. Forse il terremoto c’è stato davvero e il suo epicentro si trova a Pechino. 

Ancora una volta il governo impone di rifare le case, offrendo degli incentivi che possono raggiungere anche il 60/70%, ma chi non la disponibilità del rimanente non può che vendere ad affamati speculatori. Il prezzo al mq si aggira sui 10/12 Mn/¥.

In tema di eccessi costruttivi, avevamo appreso il caso del proprietario di un hutong a Pechino, il quale si è rifiutato di vendere la sua proprietà perché fosse demolita per far posto ai palazzi, facendo innalzare la casa su un altro edificio tra ai grattacieli. Di solito le autorità non esitano a tirare dritto, ma in alcuni casi accondiscendono alle istanze accompagnate da un regalo.

Entriamo in un laboratorio artigianale di violini uiguri e scopriamo il dettaglio delle finiture. Solo per la decorazione esterna sono necessari da 3 a 25 giorni di lavoro in quanto vengono inseriti dei quadratini neri derivanti da corna di bue e altri per il colore bianco in materiale finemente tagliato.

Un’altra perla dell’artigianato di Kashgar è la costruzione dei rinomati coltellini. Il mercato di questi attrezzi è tuttavia in calo a causa del divieto di portarli in aereo (sembra che non possibile nemmeno nel bagaglio da imbarcare). Per contro, a seguito delle difficoltà che si incontrano a visitare Paesi come Pakistan o Afghanistan, i commercianti importano tappeti che vendono in questo luogo più tranquillo.

Su una lato della piazza principale si vedono molti uomini assiepati: sono dei lavoratori che hanno terminato la loro stagione nei campi (soprattutto coltivazioni di cotone) e vengono in città per cercare lavoro a giornata. Questa parte della piazza serve da ufficio di collocamento improvvisato dove se va bene vengono assoldati a fare i muratori per qualche giorno.

Essendo in vigore il divieto d’assembramento per evitare i tumulti già vissuti in passato, i poliziotti sono intenti a parlamentare per disperdere il fitto gruppo di persone in attesa. L’elevato tasso di disoccupazione viene addirittura beffato dal divieto di trovarsi in un dato punto nel tentativo di cercare lavoro.

Arriviamo alla Moschea Id Kah. E’ la più grande della Cina, può ospitare 20.000 persone ed è quasi certamente la più attiva nel Paese. Costruita nel 1442 da Saqsiz Mirza nel luogo in cui erano sepolti i suoi genitori. Non potendo raggiungere la Mecca a causa dell’impedimento creato dai Persiani ha usato i soldi per costruire la moschea. Si può anche sentire il richiamo alla preghiera risuonante nel centro cittadino, un suono raro in Cina.

L’islamismo che c’è qui è tollerante ed è vero che per le strade si trovano sia donne col burqa che ragazze con la minigonna. Sono di orientamento sunnita di suola sofita, il che li rende meno inclini al fondamentalismo.

Allo stesso tempo la Cina ha l’interesse a mantenere la regione sotto scacco in modo totale senza consentire la benché minima opposizione o dissenso. A parte la geografia che lega il confine meridionale dello Xinjiang con quello settentrionale dei Tibet, un irredentismo uiguro non farebbe altro che innescare il secondo con conseguenze difficili da immaginare. 

Pur partendo da storie e presupposti diversi con religioni assai distanti fra loro, le due regioni formano un’estensione enorme e contengono nel loro sottosuolo ricchezze alle quali la Cina sta iniziando ad attingere. Non ultimo, pur essendo perlopiù aree impervie rappresentano una valvola di sfogo all’emigrazione per la Cina interna sovrappopolata.

La domenica la gente di Kashgar aumenta di 50.000 persone provenienti dalle aree circostanti per il Bazar domenicale. Migliaia di contadini con carri e pecore arrivano dalle campagne per il grande appuntamento. Il realtà i mercati sono due: il più interessante è sicuramente quello del bestiame che si tiene intorno ad Aizilaiti Lu, a est del Tuman River.

I pastori o commercianti arrivano verso le 10,30 ora locale. Quando arriviamo il mercato è già allestito secondo gli ordini, ma altri camioncini carichi di bestiame fanno ancora la fila per entrare: lungo il perimetro si allineano i chioschi che cucinano (Foto2), nella zona espositiva si trovano prima i bovini, quindi le pecore e le capre

Verso il fondo gli asini, yak e un solo cammello. E’ particolare vedere le pecore allineate da un lato e dall’altro di una corda. Ci sono tre tipi di agnelli: del nord Xinjiang e quelli di montagna il cui valore si aggira sugli 800 ¥, quelli di città che vengono venduti a 1000/1200 ¥.

Si tratta di bestie di circa un anno e tutte quelle acquistate finiscono alla macellazione, fatta eccezione per i piccoli che vengono comprati in primavera e portati a crescere in montagna. Siccome il prezzo è soggetto a fluttuazioni, se gli allevatori non sono contenti tornano le settimane successive nella speranza di realizzare qualcosa in più.

Il mercato che si tiene in città (non quello di tutti i giorni nel centro storico) ha ormai perso parecchio del suo significato a causa dell’invasione di prodotti cinesi. 

Resta comunque interessante per le dimensioni (una sorta di città nella città) e per la varietà delle merci esposte. I chioschi che vendono stoffe, tappeti e le immancabili spezie sono particolarmente belli in quanto riccamente colorati. 

https://youtu.be/9KI_2jEcGts


      2012   http://uyghur.it - Fonte  northwestalps.com      

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