"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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lunedì 31 dicembre 2018

La solitudine dei vecchi sotto le Feste



Nei giorni che precedono immediatamente il Natale cominci a ricevere telefonate di persone che non frequenti più da tantissimo tempo. E la litania prosegue fino a Capodanno. Degli auguri hanno solo la forma, in realtà sono solo una delle manifestazioni di quella solitudine che assale alla gola noi vecchi sotto le Feste. Quella solitudine c’è sempre, ma qui si fa più acuta e dolorosa. Con una velocità vertiginosa ti vengono incontro i tempi in cui eri bambino e il Natale era una Festa, ricevere i regali un’affascinante sorpresa e ti agguantano anche i Natali in cui eri tu ad avere i bambini, e la tua famiglia, di cui eri diventato il capo, non era una famiglia ma un clan, con i genitori, i nonni, gli zii, la zia rimasta nubile, le sorelle, i fratelli, i cugini, con le loro fidanzate o compagne o mogli con i propri figli e magari già con i figli dei loro figli. Adesso quel clan si è smembrato così come si è smembrata la tua vita. Molti amici sono morti. Lì per lì non te ne sei quasi accorto, erano casi isolati. Ora è come essere su un campo di battaglia senza nemmeno la battaglia.
Terribile non è solo l’ira del mansueto, lo è anche la solitudine del vecchio. D’ordine diverso sono la solitudine del giovane e del vecchio. Quella del giovane è una scelta, può interromperla in qualsiasi momento, quella del vecchio è coatta, una prigione, un buio sforato solo da qualche, rara, ‘bocca di lupo’.
Da vecchi avviene una cosa sorprendente, all’apparenza. Le giornate sembrano lunghissime perché sei molto meno o per nulla impegnato (“E adesso vai curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo”, questo è il vero senso di quella pensione tanto agognata da molti). Inoltre dormi molto meno. Di quelle ore che un tempo ti sarebbero state così preziose ora non sai che fare. Mi ricordo il raccapricciante racconto di un vecchio amico di mio padre il quale, intendo mio padre, era morto, per sua fortuna, una ventina di anni prima. Era stato Direttore, oggi nella contrazione orwelliana delle sigle si direbbe AD o CO, di una banca di media importanza, un uomo molto attivo. Adesso si svegliava all’alba e passava quattro ore, ansiose e inoperose, in attesa dell’apertura della Biblioteca, alle otto del mattino. Qui, con l’inutile e patetica voracità di Bouvard e Pécuchet, si gettava a leggere di tutto, anche, anzi soprattutto, cose di cui non gli era mai importato nulla, tanto per “ammazzare il tempo” pur essendo ben consapevole, perché era un uomo intelligente e sensibile, che era il tempo ad ammazzar lui.
Al contrario, in vecchiaia, se i giorni sono lenti, gli anni passano fulminei, senza nemmeno che te ne accorga. “Come, è già di nuovo Natale? Ma non era stato ieri?”. Pensate a un mese di vacanza. La prima settimana passa lenta, la seconda un po’ più veloce, la terza rapidissima, la quarta è appena cominciata che è già finita. Così è il Tempo nella vita dell’uomo. Quanti secoli ci abbiamo messo per uscire dall’infanzia? La giovinezza, pur essendo oggettivamente più lunga (i Latini la fissavano dai 14 ai 45 anni) corre più veloce. La maturità che, sempre per i Latini, arrivava a sessant’anni, dopo di che cominciava l’atra senectus, è ancora più rapida. In vecchiaia il Tempo, questo padrone inesorabile delle nostre vite, precipita, cade a vite come un aereo cui abbiano impiombato un’ala.  E mentre spegni l’ultima candelina dell’ultimo albero di Natale ti chiedi, rassegnato più che sgomento, se ci sarà un’altra volta.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2018)



mercoledì 12 dicembre 2018

La religione laica di Einstein, maestro di vita


Christie’s ha venduto all’asta a New York per 2 milioni e 892.500 dollari una lettera che Albert Einstein scrisse a Eric Gutkind nel 1954, a 74 anni, mezzo secolo dopo aver preso il Nobel per la Fisica. Ma più fortunati del ricco Epulone che l’ha acquistata siamo noi che possiamo leggere gratuitamente questa straordinaria lettera di questo straordinario scienziato e di quest’uomo straordinario i cui pensieri continuano ad abitarci, come quelli di tutti i grandi, da Eraclito a Leonardo a Dante a Shakespeare a Milton a Nietzsche a Leopardi, anche se i loro corpi “dormono, dormono” sulla collina o altrove, e le loro menti non hanno più coscienza di sé e tantomeno di ciò che hanno suscitato.
La lettera di Einstein ruota intorno alla questione eterna dei rapporti fra scienza, religione, spiritualità e il mito di Dio. Einstein, da scienziato, è un ‘non credente’: “Sono un religioso, non un credente…Per me la parola ‘Dio’ non è altro che l’espressione e il risultato della debolezza umana”. E liquida la Bibbia (“un libro raccapricciante che suscita orrore” secondo l’interpretazione del laico Sergio Quinzio) il Vangelo e tutte le altre cosmogonie come raccolte di “Leggende venerabili ma piuttosto primitive. Non c’è un’interpretazione, per quanto sottile possa essere (e qui si riferisce precipuamente alla Bibbia, ndr) che mi faccia cambiare idea…Per me la religione ebraica nella sua versione originale è, come tutte le altre religioni, un’incarnazione di superstizioni primitive”. Insomma sono miti fondativi, ma senza nessun riscontro storico e tantomeno scientifico.
Ma Einstein non è un ‘non credente’ integralista, ‘freddo’ alla Rita Levi-Montalcini, se in questa stessa lettera riprende un passaggio di Spinoza che concepiva la figura di Dio come un essere senza forma, impersonale: l’artefice dell’ordine e della bellezza visibili nell’universo. In Einstein sembra quindi esserci comunque e nonostante tutto una tensione verso il trascendente e in questo credo consista la sua ‘spiritualità’. La presenza/assenza di Dio lo turba se nella famosa polemica col collega danese Niels Bohr, che aveva descritto per primo la struttura dell’atomo, gli replica: “Dio non gioca a dadi con l’universo”.
Einstein è ebreo e si riconosce nella cultura ebraica sia pur senza integralismi (“con piacere”) e scrive: “E la comunità ebraica, di cui faccio parte con piacere e alla cui mentalità sono profondamente ancorato, per me non ha alcun tipo di dignità differente dalle altre comunità. Sulla base della mia esperienza posso dire che gli ebrei non sono meglio degli altri gruppi umani, anche se la mancanza di potere evita loro di commettere le azioni peggiori”. E qui Einstein centra una questione molto attuale, che non ha a che vedere con la scienza ma con l’essenza dell’umano, e che risponde a quella legge storica per cui i vinti di ieri una volta diventati vincitori non si comportano molto diversamente dai loro antichi sopraffattori. Altrimenti sarebbe incomprensibile come lo Stato di Israele tenga a Gaza un enorme lager a cielo aperto, quando proprio dei lager gli ebrei sono stati vittime nei modi atroci che ci vengono sempre ricordati.
La lettera venduta l’altro giorno da Christie’s ci riporta anche alla famosa polemica fra Niels Bohr e lo stesso Einstein. In estrema sintesi: Bohr sostiene il “principio di indeterminazione” e cioè che la Scienza non può arrivare a scoprire la legge ultima dell’universo, Einstein al contrario non riuscirà mai a convincersi che non sia possibile, per l’uomo, arrivare alla Verità assoluta. E qui noi, pur nella consapevolezza di inserirci da nani in un confronto fra giganti, stiamo con Bohr che doveva aver ben presente il profondo insegnamento di Eraclito: “Tu non troverai i confini dell’anima (e qui per anima va intesa la Verità, ndr) per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione”. E aggiunge: la legge autenticamente ultima ci sfugge, è perennemente al di là e man mano che cerchiamo di avvicinarla appare a una profondità che si fa sempre più lontana.
Infine in un’altra nota Einstein, nella sua saggezza umana, molto umana e nient’affatto troppo umana ci dà un consiglio, che con la fisica ha poco a che vedere, ma che dovrebbe far rizzare le orecchie ai cantori molto attuali, inesausti e dilaganti delle “sorti meravigliose e progressive”, delle crescite esponenziali e del mito del successo: “Una vita tranquilla e umile porta più felicità che l’inseguimento del successo e l’affanno senza tregue che ne è connesso”.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2018)

giovedì 6 dicembre 2018

Gaffe mai vista, quel bulletto di Salvini fa più danni di Renzi e B.


L’invadenza di Matteo Salvini in ogni campo, fuori dalle sue funzioni di ministro degli Interni, non solo è intollerabile ma sta diventando pericolosa e dare giusto fiato a chi teme che sottobanco l’Italia si trasformi in una dittatura dove al posto di Benito Mussolini, che almeno uno spessore politico ce l’aveva, c’è questo bulletto da quattro soldi, più insidioso di Renzi e persino di Berlusconi.
Il ministro degli Interni non può intervenire in indagini in corso e nemmeno riferirne, non tanto e non solo perché può danneggiarle come ha fatto notare il procuratore della Repubblica di Torino Armando Spataro, ma per quella divisione dei poteri fra ordine giudiziario ed Esecutivo che anche i bambini dovrebbero conoscere.
Ai rilievi di Spataro Matteo Salvini ha reagito con parole sprezzanti che sul nostro giornale sono già state riportate da Gianni Barbacetto ma che vogliamo qui riprendere: “Inaccettabile dire che il ministro dell’Interno possa danneggiare indagini e compromettere arresti. Gli attacchi politici e gratuiti lasciamoli fare ai politici che si candidano alle elezioni. Se il procuratore è stanco, si ritiri dal lavoro: a Spataro auguro un futuro serenissimo da pensionato”. Da questa ennesima esternazione si ricava che Matteo Salvini non capisce nulla, o fa finta di non capir nulla, della fondamentale divisione dei poteri, sancita nella modernità da Montesquieu e assunta come cardine da tutte le democrazie liberali. Ma più gravi ancora delle violazioni dello Stato di diritto perpetrate da Matteo Salvini, a noi paiono le sue parole  rivolte a Spataro, uno dei nostri migliori magistrati che nella sua lunga carriera si è occupato di sequestri di persona, terrorismo, criminalità organizzata, traffico internazionale di stupefacenti, mafia, ‘ndrangheta. Non è certamente un caso che quando Antonio Di Pietro motore delle indagini di Mani Pulite lasciò quel ruolo, Francesco Saverio Borrelli chiamò Armando Spataro per sostituirlo.
Io non so come i nostri magistrati, sottoposti ad ogni sorta di attacchi, impediti nella loro delicatissima funzione da leggi demenziali che spesso li costringono a girare a vuoto, riescano a mantenere la saldezza di nervi necessaria per continuare il loro lavoro. Fra le sue numerose pubblicazioni di carattere scientifico Spataro ha pubblicato anche una autobiografia professionale col titolo Ne valeva la pena. Io ci aggiungerei un punto interrogativo. No, caro Spataro, non ne valeva proprio la pena.



martedì 27 novembre 2018

La diseducazione sociale, al giorno d’oggi.




La diseducazione sociale, al giorno d’oggi.

In campo medico sottoporsi a un periodico check up, a maggior ragione quando si è in età più avanzata, è una forma di prevenzione minimale utile a poter diagnosticare in tempo patologie degenerative che, talvolta, se non aggredite/tamponate in modo tempestivo, possono essere poi difficilmente curate o debellate.
Il superamento di tutti gli esami clinici consente, pertanto, di accertare la pienezza fisica e mentale del nostro vivere quotidiano.
In campo artistico, ogni tanto è anche utile eseguire una disamina analoga, per costatare l’efficacia dei nostri messaggi e verificare la capacità di sapere ancora comunicare ciò che sta alla base di ogni intento creativo.
Anch’io, dopo qualche tempo, mi sono serenamente sottoposto fotograficamente al vaglio di critici, proponendo un portfolio di immagini abbastanza scontato e di facile lettura.
Anche se criticare la realizzazione di chi ci sta accanto è di gran lunga lo sport nazionale e la predisposizione prediletta da molti, oserei consigliare e sarebbe opportuno, per chi continua ad avere velleità artistiche, verificare ogni tanto il proprio status creativo e trarne le conseguenze per possibili correzioni di rotta o altro.
L’operazione è servita a me, non per competere in una possibile vincita di premi ma, bensì, per testare l’efficacia del modo di propormi oggi, la valenza della mia grammatica attuale e della relativa sintassi attraverso l’utilizzo di foto selezionate in una narrazione.
La scelta poi di sottoporre un unico lavoro a letture di differenti critici mi ha consentito, peraltro, anche di appurare la coincidenza/comunanza di eventuali osservazioni e difetti, nonchè di stabilire il livello di sintesi che, a loro dire, era necessario per rendere meglio leggibile il mio messaggio.
Nello specifico ho, quindi, sottoposto all’esame dei critici immagini relative a una vecchia storia, accaduta nel lontano 1881; un evento che indusse le autorità del tempo a edificare un sito monumentale che restasse a commemorare l’accadimento.
Il fatto ha riguardato la tragedia della Zolfara di Gessolungo e le mie stampe ritraevano il “Cimitero dei Carusi” a oggi (immagini relative messe in coda nello slide show soprastante); fotografie di una testimonianza, fortemente voluta dalla popolazione del tempo, che raccoglie la sepoltura delle giovani salme di tanti piccoli “carusi” deceduti a seguito dell’accidentale scoppio accaduto nella miniera.
Le letture del mio progetto fotografico sono state separatamente effettuate da quattro affermati professionisti del settore (Giammarco Maraviglia, Pippo Pappalardo, Fabio Savagnone e Sandro Iovine); una sintesi, che pure ha stabilito in tutti il riconoscimento della valenza del progetto, ha però messo in luce, per ciascuno secondo un proprio diverso punto di vista, problematiche a me note, quali ridondanze, approssimazione e una incompletezza nel prodotto proposto.
Per chi vorrà meglio approfondire i diversi aspetti critici e ascoltare le articolate fasi dell’analisi che hanno riguardato il mio progetto rimando agli specifici video citati e postati nel mio canale You Tube.
I video, seppur con talune interruzioni tecniche, consentono di avere in quadro assai chiaro delle modalità operative/didattiche che caratterizzano la tipica “lettura di portfolio” nella fotografia.
Non mi dilungo oltre, perché nel caso, la visione rende più di qualunque altra parola scritta.

Buona luce a tutti!
 
 © Essec
 
I “lettori” che hanno preso parte quest’anno all’ottava edizione di TrapaninPhoto sono stati: Sandro Iovine (giornalista, critico fotografico e direttore responsabile FPmag), Gianmarco Maraviglia (fotogiornalista e docente IED Milano), Pippo Pappalardo (critico fotografico e storico della fotografia), Chiara Oggioni Tiepolo (direttore artistico Officine Fotografiche Milano), Orietta Bay (Delegato Regionale Ligure FIAF, Docente di fotografia e critico), Fabio Savagnone (fotografo pubblicitario e fine art), Pietro Collini (medico, fotoreporter).


sabato 24 novembre 2018

24° Maratona di Palermo - Ti ferisce, ma come puoi non amarla?





Palermo,18 novembre. 


Dopo quest'ultima, drammatica esperienza, arricchisco il mio bagaglio di esperienza di un'emozione nuova, mai vissuta in tanti anni di Maratone corse un pò ovunque: passare dal "Paradiso all'Inferno" in poco più di un'ora di gara.
A Palermo è possibile, ma nonostante tutto anche questa dura sconfitta mi ha fatto apprezzare il volto sportivo della mia Città.

Le ultime settimane erano filate via abbastanza liscie ed avevo badato maggiormente a non cogliere malanni di stagione curando ogni aspetto utile a prevenire.
Gli allenamenti erano stati tirati e mirati soprattutto ad affrontare le lunghe uscite su percorsi molto difficili, vallonati e con i consueti lunghi cambi di ritmo in modo da simulare le difficoltà altimetriche che avrei incontrato in gara.
Ho fatto tutto il possibile per arrivare preparato alla Maratona, senza tralasciare gli impegni familiari.

Ed è per questo motivo che sono arrivato alla vigilia della Maratona senza particolare tensione, se non quella consapevole di voler arrivare a podio.
 
Il "compitino" era semplice: concludere la Maratona di Palermo sotto le 2h40' non è una sfida facile, ma con sufficiente allenamento ed un'attenta strategia di corsa è fattibile.
Avevo le idee chiare in mente e, a parte la tensione nervosa fisiologica avvertita al mattino, trovare un clima mite addirittura correndo il breve riscaldamento con una lieve pioggerella, mi dava tanta tranquillità.

La partenza è avvenuta in leggero ritardo, per un'edizione tra le più bene organizzate in termini di chiusura al traffico delle auto.
Peccato per l'assenza del nostro Sindaco al via.


Alla partenza, visti passare i più forti atleti della Maratona (i due keniani chiamati a lottare per la vittoria) ed i migliori specialisti sulla Mezza (Idrissi il vincitore, Bibi, S. Laudicina e Mazzara), mi sono adagiato sul ritmo a me più congeniale, chiamando a me un folto gruppo a seguirmi.
In una gara di endurance la compagnia ricopre un ruolo fondamentale per far passare facilmente i chilometri.

In poco tempo usciamo dal Parco della Favorita e, come da tradizione, ci immettiamo direttamente su Via Libertà, verso il Centro storico con le sue ricchezze artistiche tutte da vedere.
"Stranamente" iniziavo ad avvertire caldo (il cielo era nuvoloso ma il sole si faceva sentire) e l'aria fresca e umida mi portava ad una facile sudorazione.
I rifornimenti erano fondamentali, da prendere tutti perchè era più prudente bere tanto da non avvertire il senso di sete, che il contrario.



Inizio a strabuzzare gli occhi (coperti dagli immancabili occhiali da sole, scelti gli Zony Aero Pro) quando l'incrocio da sempre critico coincidente con il Giardino Inglese era stato isolato dalla circolazione delle auto: finalmente mi sentivo al sicuro!

Pochi chilometri più avanti, superata la magnificenza della Cattedrale ed entrati dentro Palazzo delle Aquile, il gruppo da me trainato con molto entusiasmo (e comunque sul filo moderato dei 3'35"-45"/Km) faceva il suo ingresso su Via Roma.
Normalmente questa via principale della Città, parallela a Via Maqueda e Via Libertà, restava parzialmente chiusa lasciando ai podisti una striscia asfaltata in modo tale da non creare più di tanto "offesa" agli automobilisti.

Quest'anno, con sommo stupore, mi renderò conto dopo poche centinaia di metri che la strada era stata completamente CHIUSA alle auto, consentendoci di correre esattamente a centro strada su una sede praticamente ampia, larghissima.
Che dire, il più bel ricordo della corsa, in quel momento attraversando i vari blocchi stradali, mi sentivo come se mi trovassi a New York City affrontando la 1st Avenue!

Rientrando su Via Libertà affiancando il Teatro Massimo e successivamente il Teatro Politeama, particolarmente colorata era la partecipazione di un tifo preparato per l'occasione ma comunque d'effetto.

Una volta lasciate alle spalle le bellezze artistiche, si rientrava verso il Parco ed iniziava la lunga ed inesorabile salita.
Io, sempre euforico, seguivo il migliore di un gruppo che man mano si andava sgretolando, ivi compreso un altro contendente per la Maratona, un runner lombardo.
Preso dall'entusiasmo di trovare maggiore frescura sotto gli alberi, spingevo il ritmo di circa 3'40"/Km ritrovandomi ormai a tre chilometri dal traguardo della mezza maratona, con un solo compagno di via, un atleta della Podistica Messina.


Il passaggio della metà gara non era dei migliori, ma lo accettavo di buon grado visto che da quel momento in avanti mi sarei trovato da solo a correre contro le avversità altimetriche: 1h18' circa e via verso Mondello!

Bevo da una bottiglia preparata ad hoc la mattina, con tanto miele e sali minerali con magnesio e potassio su acqua leggermente frizzante, ciò che solitamente bevo in allenamento.
Stranamente quell'acqua, rimasta all'aria circa due ore, era divenuta tiepida…
Strano, eppure c'era tanto fresco nell'aria, eppure il mio completo era totalmente sudato ed avevo bevuto ad ogni rifornimento con reale necessità... non riusco ben a capire quanto fosse calda l'atmosfera per via dell'aria fresca che tirava!
L'entusiasmo c'era ancora, da vendere, ma non riesco a ripartire alla stessa maniera al secondo giro nel tratto di discesa che durava meno di tre chilometri...
Il percorso faceva si che si rientrasse sul tracciato affrontato dai podisti in mezza, quindi avevo comunque tanta e colorata compagnia per strada per gran parte del tratto da affrontare nuovamente che attraversava per intero il Parco della Favorita...

La differenza stavolta si sentiva, non riuscivo a tenere i 4'00"/Km e continuavo a sudare, sentendo il vento sempre più freddo addentrarsi nella mia pelle man mano che gli alberi si infittivano.
In quel momento di reale difficoltà, ho avvertito un primo "movimento allo stomaco" che rendeva reale il disagio sul cronometro.
Non mi volevo abbattere, sapevo che poco più avanti iniziava la lunga discesa che portava a Mondello e che avrei avuto tempo e modo di recuperare.
Il freddo, invece, iniziava a picchiare sullo stomaco...
Giunti alle porte della spiaggia ormai il terzo posto era comunque andato, sorpassato con facilità dal bravo podista lombardo che normalmente veleggia su questi tempi.

Il rettilineo del Lido di Mondello non finiva più.
Mi passavo il tempo a vedere quanto si divertissero le persone a passeggiare sulla spiaggia, giocando con i cani, oppure passeggiando sulla strada deserta alle auto.
Volevo essere con loro, fermarmi e ammirare tanta pace, beatitudine e silenzio dalle assordanti auto...

Alcuni passanti, ahimè, erano totalmente noncuranti del passaggio degli atleti in gara (me compreso) con scarso spirito sportivo, di partecipazione o semplice rispetto per chi prendeva parte alla manifestazione.


Ero ormai cotto, le gambe non reggevano più lo sforzo della corsa e mancavano 10 durissimi ed estenuanti chilometri.
Dove avrei trovato le altre forze?
Da nessuna parte, eppure nella mente c'era un solido "meccanismo di protezione" che mi impediva di fermarmi perchè sapevo con certezza che lì sarebbe stata la fine, la più ingloriosa.
In quei momenti avevo solo voglia di scappare in bagno ed invece mi aspettava una impegnativa ed infinita salita...

Continuavo ad idratarmi, cosa assurda, ma di certo avevo preso una crisi intestinale di notevole potenza.
La gente continuava comunque ad incitarmi (loro sono stati determinanti con il loro affetto), a darmi aiuto e la salita di
Mondello stavolta si faceva pesante.
Pian piano scollino, pian piano raggiungo la Palazzina Cinese, Villa Niscemi e, raggiunto ormai il quarantesimo, mi accosto fugacemente al bagno, con discrezione e celerità da record (quella sicuramente).

Al giro di boa conclusivo emetto il seguente verbo, mestamente: "adesso andiamocene a casa" e continuo sul piede dei 4'40"/Km verso il traguardo.

Perdo qualche secondo per il pubblico, che mi applaude, mi sostiene, ha capito che qualcosa non è andata per il verso giusto e mi inchino per loro, mi sembrava giusto: l'edizione migliore in assoluto organizzativamente parlando meritava tanto calore anche da parte mia.
Se non fosse chiaro ancora, il crono è di 2h49'07" e quarto posto assoluto finale.

Anche il secondo keniano giunto al traguardo non se l'è passata bene con un modesto 2h26' e man mano arrivano tutti gli eroici finisher mi rendo conto delle dimensioni delle imprese e delle vicissitudini personali di ognuno di loro.
Le premiazioni di categoria si fanno aspettare anche troppo, ma passo il tempo a far passare i crampi ed a idratarmi, bevendo tanto e nel contempo tremando per il freddo.



Una Maratona vissuta così male prima d'ora non mi era mai capitata e come al solito il clima caldo umido mi ha dato un pugno diretto allo stomaco.

Ma quanto di buono realizzato dall'organizzazione va evidenziato, con il tracciato di mezza maratona veramente leggero e filante senza inutili giri di boa e, come non ribadirlo, completamente chiuso alle auto.
Per la prima volta in vita mia mi sentivo nella mia Città dentro a una manifestazione internazionale dove il running per una domenica è padrone su tutti gli altri sport...

Mondello è la croce e delizia di una Maratona veramente tanto, troppo dura, che mi immaginerei correre magari a dicembre, anche con il rischio pioggia, perchè no!
E' la ragione insita di chi l'ha corsa, magari con successo e soddisfazione personale e poi non la corre più: molti di loro sono podisti che provengono dall'estero o da altre Città d'Italia.

Di certo torneranno a casa sognanti e soddisfatti di aver chiuso con una medaglia una simile impresa, ma sapranno che la Maratona di Palermo è bella "ma non per fare il tempo".

Io chiudo la mia terza esperienza in modo drammatico e posso dire: cara mia Città, il prossimo anno mi vedrai nuovamente al via, per vendicarmi di te ;-)

 
(Grazie di cuore all'organizzazione, a Sicilia Running, a Pasquale Ponente ed al Gruppo di fotografi capitanati da Toti Clemente)


mercoledì 21 novembre 2018

Gregorio De Falco non deve stare a bordo


Credo che nella prossima legislatura i Cinque Stelle dovranno essere molto più attenti nel selezionare i propri candidati per la Camera e il Senato. Nelle prime due, essendo un movimento nuovo, hanno dovuto imbarcare ‘n’importe quoi’ purché avesse la fedina penale pulita. Così nelle elezioni del 2018 si sono fatti affascinare da Gregorio De Falco, famoso e popolarissimo per la frase diretta al comandante Schettino: “Torni a bordo, cazzo!”. Non c’era alcun bisogno di fare il fenomeno, umiliando un uomo già umiliato e che con tutta evidenza non era più in grado di agire. Quello che doveva fare De Falco, come capo sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno, era inviare un elicottero (da Livorno all’Argentario ci vogliono 15 minuti) con a bordo un paio di ufficiali di Marina che scendessero sulla nave e prendessero il controllo della situazione. Non lo fece, accontentandosi di quella inutile e maramaldesca esibizione. Un comandante di una di queste grandi navi, che nella sua lunga carriera non aveva avuto incidenti di rilievo, senza voler difendere l’indifendibile Schettino ma evidentemente rivolto a De Falco, disse: “C’è chi va per mare e chi sta a terra”. E De Falco è uno che nella sua carriera è sempre stato a terra. De Falco si aspettava chissà quale promozione. Invece il suo atteggiamento non piacque affatto, e a nostro avviso giustamente, al Comando generale della Marina mercantile che nel 2014 lo trasferì alla Direzione Marittima di Livorno con le mansioni di capo ufficio studi e relazioni esterne. Fu relegato a un ruolo meramente burocratico, una decisione punitiva tanto che De Falco fece ricorso, ma inutilmente.

De Falco è un uomo che va per terra, molto per terra. Tanto che colse subito l’occasione, approfittando dell’indebita popolarità acquisita, e si fece candidare al Senato dai Cinque Stelle e fu eletto.

Adesso Gregorio De Falco, che a me pare un uomo molto più attento a se stesso che ai valori dei Cinque Stelle, si è messo di traverso contro il Movimento in cui milita (o militava, nel momento in cui scriviamo non sappiamo se è stato espulso) in tre occasioni: sul decreto Sicurezza, sull’emendamento al dl Genova per il quale ha votato contro insieme a Forza Italia e al Pd, sull’articolo 41 che riguarda lo sversamento dei fanghi da depurazione.

E’ vero che la nostra Costituzione all’articolo 67 dichiara: “Ogni membro del Parlamento…esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Questa disposizione fu presa dai nostri Padri costituenti perché ogni parlamentare potesse votare in piena libertà di coscienza. Ma allora i partiti non avevano ancora occupato, del tutto arbitrariamente come abbiamo scritto più volte, buona parte del sistema democratico. Bisogna quindi prendere atto della realtà: la libertà di voto, in linea teorica sacrosanta, si è trasformata nel disinvolto passaggio di un parlamentare da un gruppo all’altro, come abbiamo visto tante, troppe volte, spesso in modo prezzolato (il caso De Gregorio, comprato da Berlusconi con 3 milioni di euro per sottrarlo al gruppo di Antonio Di Pietro, docet). Per evitare queste situazioni i Cinque Stelle si sono dati regole rigidissime sul comportamento dei loro parlamentari che devono seguire la linea politica e le direttive del Movimento, pena il richiamo, la sospensione e l’espulsione. Si può discutere molto su queste regole dei Cinque Stelle, ma quando De Falco è entrato a far parte del movimento fondato da Beppe Grillo le conosceva benissimo e non può ora darsela da martire. Adesso la questione è questa: se Gregorio De Falco, come crediamo, sarà espulso dal Movimento politico che lo ha portato in Parlamento, si dimetterà dal Parlamento, come coerenza vorrebbe, lasciando il posto a chi ha diritto a subentrare? Non crediamo proprio. De Falco è “un uomo di terra”.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2018)

domenica 11 novembre 2018

I garantisti "pelosi" che danneggiano gli innocenti


Non si capisce se i berlusconiani e i loro adepti, palesi e occulti, siano più in malafede o ignorino la logica più elementare. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sta preparando un disegno di legge per il quale la decorrenza dei tempi della prescrizione si arresta dopo il primo grado di giudizio. Apriti cielo. Il parlamentare di Forza Italia Enrico Costa ha parlato di “omicidio del processo penale”. Il suo collega dem Alfredo Bazoli ha dichiarato: “E’ un atto gravissimo che introduce un allungamento smisurato dei processi” e Giulia Bongiorno, ministro per la Pubblica Amministrazione in quota Lega, avvocato di grido, ha detto all’ottima Maria Latella: “Bloccare la prescrizione dopo il primo grado di giudizio significa mettere una bomba atomica nel processo penale, non ci sarebbero più Appello e Cassazione perché non sarebbero più fissate le udienze”. Ora, la legge Bonafede non accorcia e non allunga i tempi del processo. Non si capisce perché mai non dovrebbero essere più fissate udienze come afferma la Bongiorno, il processo proseguirebbe come sempre e con i lunghi tempi aberranti di sempre però alla fine a una sentenza si arriva e si accerta se un reato è stato effettivamente commesso.
Con l’attuale regime della prescrizione il processo non viene ucciso, nasce già morto. Perché sono infiniti i procedimenti che cadono sotto la mannaia della prescrizione (165 mila ogni anno). Col risultato di aver fatto lavorare a vuoto i magistrati e di aver sostenuto costi del tutto inutili a spese dello Stato, cioè di noi cittadini.
Evidentemente inconsapevole del ridicolo a cui si espone Mattia Feltri ha scritto sulla Stampa che Bonafede è un “bifolco” del diritto, “uno che quanto a cultura giuridica dev’essere rimasto al codice di Hammurabi e alla civiltà degli oranghi”. Bonafede è un avvocato che nel 2006 ha conseguito il dottorato di ricerca presso la facoltà di Giurisprudenza all’Università di Pisa e ha da anni un avviato studio a Firenze. Mattia Feltri non è laureato in Giurisprudenza e peraltro in nessuna altra facoltà. Chi è allora il “bifolco” e l’“orango”, almeno in tema di diritto?
In realtà il disegno di legge Bonafede andrebbe accompagnato da altre misure. La prima è far decorrere i tempi  della prescrizione dal momento in cui è stato commesso il reato e non da quello in cui viene scoperto. L’altra, fondamentale, è lo snellimento delle nostre procedure. L’abnorme durata dei processi italiani ha una causa recente e un’altra che ha origine nel passato e radici culturali.
Prima causa. Dopo Mani Pulite, quando per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana anche ‘lorsignori’ furono chiamati a rispondere a quelle leggi che tutti noi siamo tenuti a rispettare, la classe politica, berlusconiana ma non solo, temendo un replay, ha inzeppato il Codice penale e di Procedura penale di leggi fintamente ‘garantiste’ che hanno ulteriormente allungato la durata di processi già interminabili, danneggiando gli innocenti e favorendo i colpevoli. Qual è infatti l’interesse dell’innocente? Essere giudicato il più presto possibile. Quale quello del colpevole? Essere giudicato alle calende greche e, possibilmente, mai.
Causa remota. Sono stati i Latini a creare il diritto. Il loro era un diritto pragmatico, contadino, che privilegiava la velocità delle procedure, scontando la possibilità dell’errore. L’intero mondo anglosassone, compreso quello che ha subìto la colonizzazione inglese, ha preso dal diritto romano classico. Sciaguratamente noi abbiamo preso dal diritto bizantino –le pandette di Giustiniano- che è una stupenda cattedrale, fatta di pesi e contrappesi, di ricorsi e controricorsi, di appelli e controappelli, di verifiche e controverifiche, in modo da rendere impossibile l’errore. Che è pura illusione, anzi si risolve nel suo contrario perché, passati gli anni, i testimoni sono morti, le carte ingiallite e illeggibili oppure scomparse nel tempo.
Oltre a rendere di fatto nulli centinaia di migliaia di processi decapitati dalla prescrizione, la lunghezza dei procedimenti incide su tutta una serie di questioni rilevanti.
Uno. La certezza della pena. Si può tranquillamente delinquere contando di non scontarla mai, data l’altissima probabilità che i processi non arrivino a una sentenza definitiva.
Due. La custodia cautelare. A processi lunghi corrispondono carcerazioni preventive in proporzione. Per gli stracci naturalmente: Pietro Valpreda fece quattro anni di galera senza processo, Giuliano Naria, un presunto terrorista rosso, nove finendo poi assolto. Ma i ‘garantisti’ di oggi o i loro antenati ideologici di ieri non fecero una piega. Andava bene così. Mentre durante Mani Pulite per due settimane di custodia cautelare di uomini politici o imprenditori o altri ‘colletti bianchi’ si arrivò ad invocare Amnesty International sostenendo che venivano arrestati, e quindi in qualche modo torturati, perché confessassero. Francesco Saverio Borrelli, il Procuratore capo di Milano che guidava quelle inchieste, corresse: “Noi li arrestiamo e loro confessano”. Peraltro questa concezione di un doppio diritto permane: uno per ‘lorsignori’ che commettono, a detta dei ‘garantisti’, reati che non creano “allarme sociale”, e uno per i reati da strada, commessi in genere da gente del popolo per la quale, ad ascoltare madama Santanchè che appartiene all’esercito dei ‘garantisti’ pelosi, è superfluo anche il processo (“In galera subito e buttare via le chiavi”). Può accadere però che sotto la spinta di qualche ondata emotiva i termini della carcerazione preventiva vengano abbassati in eccesso e allora escono di galera anche dei sicuri delinquenti, pluripregiudicati. Insomma l’aberrante durata dei processi ha l’effetto di far andare su e giù, come la pelle dei coglioni, i termini della carcerazione preventiva, che risulta iniqua o pericolosa a seconda dei casi.
Tre. Certezza nei rapporti sociali. Il processo non serve solo per rendere giustizia, quando ci si riesce, serve anche per mettere dei punti fermi nei rapporti sociali. Non si può stare dieci o vent’anni senza sapere se Tizio è un delinquente o invece un innocente che ha vissuto, per lo stesso periodo, sulla graticola. E’ il caso di Berlusconi che, dopo aver usufruito di 9 prescrizioni, è stato condannato quando tutto il male che poteva fare lo aveva già fatto.
Sono cose che scrivo da quasi cinquant’anni, da quando nel 1971 entrai all’Avanti! come cronista giudiziario. E io, a differenza di Mattia Feltri, mi sono laureato in Giurisprudenza col massimo dei voti e la lode, con Gian Domenico Pisapia il padre dell’attuale Codice di Procedura penale che, nato con tante buone intenzioni ma già minato da un connubio incestuoso fra sistema accusatorio e inquisitorio, è diventato, a causa anche di successivi inserimenti che non hanno tenuto conto che il diritto è un ‘corpus iuris’ coeso dove ogni norma deve essere compatibile con tutte le altre, di fatto inservibile.
Ciò toglie senso alla fatica dello scrivere, che sarebbe il meno, ma anche dell’operare perché in Italia i problemi, si tratti della questione meridionale o di quella dell’ordinamento giudiziario, restano eternamente gli stessi (in proposito c’è una divertente filastrocca di Ennio Flaiano in Solitudine del satiro) e ogni tentativo di cambiamento, si tratti di Mani Pulite o del progetto di legge Bonafede, viene osteggiato e, se proprio non è possibile toglierlo brutalmente di mezzo, alla fine implacabilmente aggirato.

Massimo Fini
(Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2018)


mercoledì 7 novembre 2018

Sulle letture di portfolio fotografici e su altro.



Il mondo della fotografia, come tutte le forme artistiche, si presenta alquanto variegato e per molti aspetti alimenta spunti per argomentare, magari contrapponendo spesso proposte e tesi diverse.
L'utilità in ogni dibattito è comunque costituita dalla chiara illustrazione dei rispettivi punti di vista.
Ogni posizione e proposta ha una sua valenza che può essere accettata, parzialmente condivisa o rifiutata, importanti rimangono comunque le esposizioni delle proprie tesi a supporto.
Per quanto mi riguarda, correndo sempre più il rischio di apparire autoreferenziale, se è il caso mi piace sollevare contestazioni o critiche prendendo spunto da realizzazioni che mi riguardano direttamente.
Qualche tempo fa ho anche avuto modo di contestare apertamente sull'operato di giurie accomunate in un circuito di tre concorsi, argomentando specificatamente le mie perplessità in merito alla non ammissione di nessuna delle foto da me presentate (per chi avesse la curiosità di approfondire rimando all'articolo "Quando i risultati non corrispondono per nulla alle aspettative" e ai diversi commenti successivamente scaturiti).
Presunzione dirà qualcuno o forse tanti. No, obietto io, è semplicemente ricerca di chiarezza.
Per completezza devo ricordare che io stesso sono stato anche autore di un altro articolo "Fotografia: Concorsi a premi, onorificenze e corsie privilegiate" in cui accolgo e difendo l’insindacabilità dei giudizi delle giurie, collegandole sempre a casualità legate anche al contesto di concorrenti ed al coesistere con altre valide opere da giudicare.
Continuando sempre sulla scia di voler assicurare trasparenza alle tante sfaccettature e chiavi di lettura possibili in fotografia, ho di recente pensato di sottoporre all'attenzione di appassionati le possibili diverse letture/interpretazioni derivanti da differenti critici su un unico portfolio fotografico.
L’esperimento riesce a dimostrare come tutte le letture siano di per se legittime, specie se sviluppate secondo presupposti, con logiche comunemente condivise e supportate sempre da onestà intellettuale.
Nello specifico, quindi, ho approntato in un paio di giorni un mio racconto semplice, costituito da quindici foto (in copertina) riguardanti il "Cimitero dei Carusi", ubicato nei pressi di Caltanissetta, che custodisce i resti dei minatori bambini coinvolti nel drammatico incidente occorso nel lontano 1881, nella miniera di zolfo di Gessolungo.
I quattro video amatoriali, realizzati per lo scopo, durante la giornata dedicata ai "portfolio" in seno all'evento "TrapaninPhoto" dello scorso ottobre, sono pubblicati separatamente su You Tube e registrano le interessanti differenti letture effettuate da Sandro Iovine, Giammarco Maraviglia, Pippo Pappalardo e Fabio Savagnone.
Chi avesse curiosità al riguardo, attraverso una visione potrà formularsi una propria opinione in argomento e verificare come alcuni aspetti accomunino tutti in giudizi univoci, mentre altri aspetti si differenziano secondo le specificità e le caratteristiche dei singoli critici.

Buona luce a tutti!

© Essec


martedì 6 novembre 2018

Miracolo a Milano: senza luce per soldi


Storie di ordinaria follia. Abito in un palazzo anni Cinquanta, brutto come quasi tutti gli edifici costruiti in quell’epoca. Fu un’iniziativa di una cooperativa di giornalisti che, informati meglio degli altri (allora succedeva), sapevano che di lì a poco sarebbe sorta nei pressi la city e quindi che il palazzo, costruito su un terrain vague, regalo dei bombardamenti angloamericani, avrebbe moltiplicato il suo valore. E’ stato abitato da personaggi noti del mondo della cultura, Achille Campanile, Paolo Murialdi, Giovanni Mosca. Venne costruito male da un architetto, l’architetto Guagliumi. Per dire delle sue capacità per sé si fece un appartamento nel quale per andare dalla camera da letto al bagno bisognava passare, allo scoperto, dal balcone e quando a Milano ci fu un terremoto di infima portata era tanto sicuro di quello che aveva costruito che si precipitò in strada temendo che l’edificio fosse crollato. Con queste premesse il palazzo ha avuto sempre dei problemi strutturali. Ultimamente riguardavano il decimo e ultimo piano. Si trattava di fare dei lavori con delle normali gru. Ma all’attuale amministratore e ai coinquilini venne la bella idea, per rifarsi delle spese e guadagnarci qualcosa, di far costruire una gigantesca impalcatura che copre tutta la facciata fino al decimo piano per potervi installare una pubblicità. La prima fu di Sky, quella che fa tutta una campagna, molto meritoria, contro la plastica ma non disdegna di coprire di plastica un intero grattacielo. Business is business. Respirare plastica non è il massimo per la salute. Ma il vero problema è un altro. Il telone pubblicitario e l’impalcatura che lo sostiene tengono completamente al buio le nostre abitazioni. Viviamo peggio dei carcerati che almeno con la ‘bocca di lupo’ uno spicchio di cielo lo vedono. Ora, non è necessario essere un neurologo e nemmeno un medico ma semplicemente una persona che abbia conservato un po’ di senso comune per sapere che la privazione permanente della luce e dell’aria causa gravi problemi alla salute, in particolare depressione e nevrosi (insieme al waterboarding è uno dei sistemi di tortura per estorcere confessioni da terroristi o presunti tali in qualche carcere speciale). Qual è il compenso alle privazioni cui ci stiamo sottoponendo: 1.000 euro al mese a inquilino. Il nostro palazzo, quasi nel centro di Milano, venti minuti a piedi da piazza Duomo, è abitato da persone benestanti alle quali 1.000 euro in più per qualche mese non cambiano certamente la vita. Eppure per 1.000 euro al mese ci siamo venduti la luce, l’aria, pezzi di salute e, a mio modesto avviso, anche la dignità. Ho chiesto alla mia domestica rumena i cui genitori sono rimasti in Romania e non se la passano esattamente bene se suo padre avrebbe accettato di farsi privare della luce e dell’aria per mesi. “Mai nella vita” ha risposto.
Nella mia via, dalla parte opposta, c’è un grattacielo prestigioso, il cosiddetto ‘grattacielo rosso’. Ne conosco bene le abitazioni perché in gioventù vi andavo a pelare a poker i ragazzi della Milano-bene (la sola cosa meritoria che abbia fatto nella mia vita) a casa di Roberto Martone figlio di Vincenzo Martone padrone della Marvin a quei tempi un’importante azienda specializzata in prodotti farmaceutici e cosmetici. Vi abitavano anche i Vecchioni, i genitori del cantante. Sono appartamenti estremamente lussuosi e non per nulla Salvatore Ligresti, che aveva saccheggiato la Milano delle periferie costruendovi edifici dal gusto, diciamo così, imbarazzante, soprattutto sui terreni verdi delle scuderie intorno agli ippodromi di San Siro, per i suoi uffici aveva scelto il ‘grattacielo rosso’. Ebbene anche i locupletari proprietari o affittuari di queste lussuose e prestigiose abitazioni si son fatti coprire, per intero, entrambe le facciate dalle pubblicità e come noi vivono tutto il giorno senza luce e senz’aria. Che il denaro sia “lo sterco del Demonio” lo ha detto Martin Lutero ma davvero non pensavamo che la sua potenza arrivasse a travolgere, per degli spiccioli, perché a quei livelli tali sono, anche persone che non ne hanno alcun bisogno. Evidentemente oggi il denaro spazza via tutto, non solo i valori etici, la dignità, non solo i valori esistenziali, una ragionevole qualità della vita, ma anche quelli estetici. E a questo proposito c’è una domanda che vorremmo porre all’assessore all’urbanistica di Milano. Sarà anche tutto lecito ma una città è fatta dei suoi palazzi, delle sue abitazioni, dei suoi monumenti, delle sue chiese, se li ricopriamo e li nascondiamo con la pubblicità, cioè ancora e sempre per denaro, che ne resta? Quando Ridley Scott nel suo Blade Runner immaginò le pubblicità parlanti non era che un dilettante.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2018)


lunedì 5 novembre 2018

Un breve racconto sulla nascita di una bella foto.



Chiamato a partecipare al meeting, programmato per celebrare l’ennesima giornata della fotografia, partecipo con poco entusiasmo; obiettivo principale è infatti quello di fotografare delle modelle, nelle solite pose e con il ricorrente stuolo di paparazzi che, in taluni casi, nei gruppi, rappresentano dei personaggi.
Girando negli ambienti, mi capita però di vedere anche un manufatto interessante, una scala a chiocciola particolare, che di per sé intriga, sia per la sua struttura che per l’artigianalità associata a un qualcosa di artistico.
Poi capita pure di intravedere un’idea, indotta dallo scatto di un amico che ho vicino, e così incomincio a elaborare una personale chiave di lettura, immaginando un mio film.
Come accade spesso in queste circostanze “da cosa nasce cosa”, allora comincio a intervenire con accorgimenti, in modo che il racconto vada sempre più a completarsi.
A un certo punto però la disponibilità del soggetto che fin qui si era prestato casualmente al gioco comune si ferma e ci abbandona.
La mente però non si rassegna, perchè io continuo intanto a immaginare qualcosa di più.
Nella mia fantasia si definisce ormai chiara un’immagine che necessita solamente di essere fissata con i pixel.
Allora attendo con pazienza che le modelle portino a compimento le loro azioni e poter sceglierne una che magari collabori e si presti a realizzare quella mia narrazione.
Fortunatamente riesco a indurre il soggetto ad accettare ma, nonostante si posizioni secondo specifiche indicazioni, mi accorgo che la cosa non funziona.
Allora rendo la modella complice dell’idea mostrandole gli scatti che ho realizzato fino a quel momento: Eureka!
Il progetto viene percepito, raccolto in pieno e l’entusiasmo ora si palesa con una piena collaborazione partecipativa.
Si ritorna alle posizioni di prima e adesso ad ogni input corrisponde puntuale una risposta.
Anzi di più, perché la modella ora assume iniziative autonome che generano una serie ininterrotta di scene.
La macchina fotografica va in crisi e io impazzisco con essa, perché non riesco a tenere più il ritmo creativo della complice che genera continue soluzioni, con entusiastica lena.
Alla fine sono ampiamente contento e penso anche lei.
Già soddisfatto dei risultati accennati dal visore, immagino che il computer mi saprà restituire delle immagini perfette o per lo meno vicine all’ideato.
Non mi ero sbagliato.
Anche questa volta sono riuscito a trovare una strada per il mio divertimento creativo.
Questo è l’aspetto ludico che dovremmo ricercare tutti e che dovrebbe sottostare al modo leggero di vivere il variegato mondo della fotografia.

Buona luce a tutti!

© Essec


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