"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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sabato 31 marzo 2018

La mia Costituzione


Poiché, raccolte le firme necessarie, intendo presentarmi alle prossime, e probabilmente vicine, elezioni, ritengo doveroso esporre alla cittadinanza il mio programma che è anche una parziale riforma dell’attuale Costituzione.
PRINCIPI FONDAMENTALI
Art. 1.- Ogni cittadino maggiorenne è libero di fare ciò che preferisce nella misura in cui la sua attività non nuoce ad altri.
Art. 2.- Il primo articolo della Costituzione promulgata nel 1948 viene così modificato: l’Italia è una Repubblica fondata sul tempo liberato.
TITOLO I – Ordinamento della Repubblica
Art. 3.- Il Premier è scelto con sorteggio fra cittadini in età compresa fra i 30 e i 70 anni in possesso di diploma superiore. Sono ineleggibili i soggetti che siano stati condannati per reati dolosi o che, al momento del sorteggio, siano sotto procedimento per lo stesso tipo di reati. Il Premier resta in carica cinque anni. Il mandato può essere replicato per una sola volta.
Art. 4.- Il Premier può essere sfiduciato da un referendum cui partecipi la metà più uno dei cittadini con diritto a elettorato attivo. Per il raggiungimento della sfiducia è prevista la maggioranza semplice.
Art. 5.- Il Premier sorteggiato è obbligato a disfarsi entro 30 giorni di media di sua proprietà o di proprietà di congiunti fino al sesto grado, pena la decadenza. Le stesse limitazioni valgono per i ministri e i sottosegretari.
Art. 6.- Il Premier può scegliere liberamente i propri ministri secondo valutazioni di capacità, competenza, esperienza. Altrettanto liberamente può dimissionarli.
TITOLO II- Rapporti economici
Art. 7.- Viene abolita qualsiasi attività finanziaria in qualsivoglia forma. E di conseguenza è abolita ogni rendita finanziaria. Holding finanziarie costituite all’estero ma operanti in Italia sono fuorilegge e i loro attori e prestanome perseguiti per evasione fiscale.
Art. 8.- Vengono abolite le banche che nel tempo si sono trasformate in Istituti che prestano ad usura ai cittadini denaro che appartiene agli stessi cittadini. Restituito il denaro ai correntisti i beni, mobili e immobili, delle Banche sono requisiti dallo Stato che li destinerà a usi sociali.
Art. 9.- E’ abolita la Borsa.
Art. 10.- Gli imprenditori con più di 15 dipendenti vengono espropriati dei beni mobili e immobili pertinenti all’impresa, requisiti dallo Stato e destinati a usi sociali.
Art. 11.- L’orario di lavoro della Pubblica Amministrazione è portato a quattro ore. Il resto delle incombenze è rimandato alla robotica.
Nei rapporti di lavoro privati l’orario è stabilito attraverso una libera contrattazione fra proprietà e i sindacati di categoria.
Art .12.- I Supermarket e i Grandi Magazzini di qualsiasi tipo vengono abbattuti e i terreni sono requisiti dallo Stato che si adopererà per favorire, con opportuni incentivi, la nascita su quegli stessi terreni di piccoli negozi e botteghe artigiane.
Art. 13.- Con i mezzi ottenuti grazie alle requisizioni e con una mirata campagna culturale lo Stato si adopera per favorire un ritorno all’agricoltura, alla campagna e a una relativa disurbanizzazione delle metropoli.
Art. 14.- E’ istituita una tassa sul patrimonio con esclusione delle prime e delle seconde case e dei liquidi fino a un milione di euro.
Art. 15.- Lo Stato italiano chiude le proprie frontiere ai turisti. Le apre, senza discriminazioni e limiti alcuni, a coloro che abbiano bisogno di vivere o transitare sul suo territorio. Chiunque, sotto le mentite spoglie di profugo o di migrante, si introduce in Italia per fini turistici è punito per il reato di frode.
TITOLO III- Diritti civili
Art. 16.- Le cure mediche e i trasporti pubblici sono gratuiti.
Art. 17.- La libertà di opinione non conosce limiti se non quelli della diffamazione e dell’istigazione a delinquere nei confronti di persone precise, individuate o individuabili. Ogni idea ha diritto di essere espressa purché non si faccia valere con la violenza. Sono abrogati tutti i reati liberticidi, sia quelli derivanti dal Codice Rocco sia quelli introdotti dopo la Costituzione del 1948, compreso il divieto di ricostituzione del partito fascista contenuto nelle Disposizioni transitorie e finali (XII) che come tali sono destinate a cadere.
TITOLO IV- Società
Art. 18.- La Repubblica promuove il nucleo familiare comunque si sia formato. Per le coppie con più di due figli è previsto un bonus per ogni figlio che superi il numero di due, bonus da determinare attraverso decreti attuativi che terranno conto, per ogni biennio, delle disponibilità di cassa. E’ previsto un tributo capitario per i single, uomini e donne, senza figli in età compresa fra i 30 e i 60 anni. Sono provvedimenti già presi in passato, a partire dall’Impero romano, in periodi di grave crisi demografica qual è quello in cui viviamo.
Art. 19.- Informazione. Le Tv, le Radio, i media su carta stampata o su web sono esentati dal limite previsto dall’art. 11 del Titolo II della nuova Costituzione.
E’ prevista una Rete pubblica televisiva e radiofonica, che dipende dal Ministero della Cultura. I soggetti privati non possono possedere più di una Rete. In tutte le Televisioni e Radio, sia pubbliche che private, sono proibiti i programmi di intrattenimento.
Art. 20.- Sono aboliti tutti i social network ad esclusione di Twitter. I trasgressori verranno puniti con una pena dai 2 ai 5 anni.
TITOLO V- Giustizia
Art.21.- Il processo si divide in tre fasi: indagini istruttorie, un giudizio di merito, uno di legittimità (Cassazione).
L’istruttoria è segreta, il dibattimento pubblico. L’Editore, il Direttore e i singoli giornalisti sono chiamati a rispondere in solido delle violazioni del segreto istruttorio qualora ne sia derivato un grave danno all’onorabilità di uno o più cittadini.
Art. 22.- Il Codice Penale viene depurato di tutte le norme che allungano il procedimento, visto l’interesse della società e dei singoli a che il cittadino sia giudicato nel più breve tempo possibile, cui si aggiunge il diritto a non subire una carcerazione preventiva dai tempi inaccettabili. Quali norme siano da abolire per snellire il processo è questione demandata al Governo e in particolare al Ministro della Giustizia.
Sono aboliti gli arresti domiciliari perché discriminano fra cittadini con diversa caratura sociale. Lo Sato si adopera per la costruzione di nuove carceri e il riordino, in senso favorevole al cittadino detenuto, di quelle già esistenti.
TITOLO VI- Esteri
Art.23.- L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Art.24.- L’Italia ritira tutti i propri contingenti stanziati all’estero.
Art.25.- L’Italia resta nell’Unione Europea cercando di indirizzarla, nei limiti delle proprie possibilità, verso una giusta equidistanza fra le Potenze attualmente egemoni.
Art.26.- L’Italia denuncia il Patto Atlantico (NATO). Le Basi straniere attualmente presenti sul suolo italiano dovranno smobilitare entro un ragionevole preavviso. Il terreno così recuperato sarà adibito ad agricoltura.
Art. 27.- Il Sommo Pontefice dovrà lasciare il suolo italiano. Il Vaticano, con i suoi beni immobili e mobili, ridiventa proprietà dello Stato italiano. Sono abolite le immunità fiscali concesse a Enti religiosi.
Art. 28.- Il Concordato viene abrogato.
TITOLO VII- Ricerca scientifica
Art.29.- E’ proibita qualsiasi ricerca che intenda andare a intaccare o modificare il dna umano o animale. I trasgressori sono puniti con la pena dell’ergastolo.
Norma di chiusura
Restano in vigore tutti gli articoli della Costituzione promulgata nel 1948 e le leggi conseguenti che non contrastino con le suesposte disposizioni.


 

martedì 27 marzo 2018

Dodici cose che (forse) non sai sulla stupidità



Antica e moderna, ma soprattutto, infinita «Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo all’universo ho ancora dei dubbi». La frase, attribuita ad Albert Einstein, esprime un’idea antica. Già nel 250 a. C. il libro biblico dell’Ecclesiaste avvertiva: “Infinito è il numero degli stolti”, rivelando che il problema era già stato colto in tutta la sua gravità. Del resto, il primo stupido della storia fu già... Adamo: per gustare un frutto perse il Paradiso.
Ma che cosa si intende per stupidità? Il concetto, istintivamente noto a tutti, sembra però sfuggire a qualsiasi definizione teorica. Non è il contrario di intelligenza: ci sono infatti persone intelligenti che, a volte, si comportano da stupide.
Come definire la stupidità? L’economista Carlo Cipolla ha elaborato un sistema efficace per identificarla senza ambiguità: un grafico cartesiano. L’asse orizzontale misura il guadagno che si ottiene dalle proprie azioni, l’asse verticale indica il guadagno che ottiene un’altra persona o un gruppo di altre persone. Il guadagno può essere positivo, nullo o negativo (cioè una perdita). I due assi determinano 4 quadranti che identificano 4 “tipologie umane”:
gli sprovveduti, persone che con il loro agire danneggiano se stesse mentre producono un vantaggio per qualcun altro;
gli intelligenti, persone le cui azioni avvantaggiano loro e anche gli altri;
i banditi, persone che agiscono in modo da trarne vantaggio ma danneggiare gli altri;
e gli stupidi: persone che causano un danno agli altri senza realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo un danno. Il peggior risultato possibile.
Le cause della stupidità Secondo un esperimento condotto dallo psicologo Balazs Aczel, dell’Eötvös Loránd University di Budapest, ci sono tre situazioni che ci spingono a comportamenti stupidi.
Il primo contesto, considerato dai ricercatori il più grave, è quello della “fiduciosa ignoranza”. Tutti ci sopravvalutiamo: un esempio classico è quando ci mettiamo al volante dopo un bicchiere di troppo, sicuri che gli incidenti capitino solo agli altri.
Il secondo è legato alla “mancanza di controllo”: caso classico, arriviamo in ritardo a un appuntamento importante per giocare all’ultimo videogame o per vedere la fine di un telefilm.
Il terzo tipo di stupidità viene definito “assenza mentale” (veniale, ma letale in certe circostanze) ed è quando non prestiamo attenzione a ciò che stiamo facendo. Per esempio, quando attraversiamo la strada leggendo un messaggio sul cellulare.
Lo stupido è come il diamante: è per sempre.
La stupidità è inconsapevole e recidiva. Il pericolo della stupidità deriva anche dal fatto che lo stupido non sa di essere stupido. Ciò contribuisce a dare maggiore forza ed efficacia alla sua azione devastatrice. Lo stupido infatti non riconosce i propri limiti, resta fossilizzato nelle proprie convinzioni, non sa cambiare. Come Fantozzi che ripete all’infinito gli stessi errori. In ambito clinico la stupidità è la malattia peggiore, perché è inguaribile. Lo stupido è portato a ripetere sempre gli stessi comportamenti perché non è in grado di capire il danno che fa e quindi non può autocorreggersi.
Le cinque leggi della stupidità. La stupidità ha alcune costanti e secondo gli esperti risponde a 5 leggi:
1) Ognuno di noi sottovaluta sempre il numero di stupidi in circolazione.
2) La probabilità che una persona sia stupida è indipendente da qualsiasi sua altra caratteristica (educazione, ambiente ecc).
3) Stupido è chi causa un danno ad altri senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita.
4) Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. In particolare i non stupidi dimenticano sempre che in qualsiasi momento e luogo, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore.
5) Lo stupido è la persona più pericolosa che esista.
Idiozia al comando. Uno dei fattori che spesso amplificano la stupidità, secondo gli studiosi, è il trovarsi in una posizione di comando. Le persone al potere tendono a pensare che, visto che si trovano lì, è perché sono migliori, più capaci, più intelligenti, più sagge del resto dell’umanità. Inoltre, di solito sono circondate da cortigiani, ovvero seguaci e profittatori che rinforzano continuamente questa convinzione del leader. Così, i personaggi al governo possono arrivare a commettere grosse sciocchezze in mezzo all’accondiscendenza generale. Spezzare questo circolo vizioso non è facile, occorre che qualche altra persona (meglio se autorevole) smascheri il potente vanesio di turno, denunciandone le azioni più stupide.
I maschi sono più stupidi? Osservazioni sporadiche dalla vita quotidiana fanno propendere per la teoria che gli uomini siano assai più inclini delle donne a fare cose davvero stupide. A sostegno di questa tesi c’è anche un’analisi (scientifica) condotta sui vincitori dei Darwin Awards: quasi il 90% dei premiati (88,7% per la precisione) risulta di sesso maschile, il che porta a concludere che c’è una evidente differenza di comportamento stupido tra i sessi. A onor del vero (e a difesa dei maschi) c’è da sottolineare che il campione utilizzato non è rappresentativo né del genere umano, né degli stupidi.
La stupidità è anche contagiosa. Le folle, cioè, sono molto più stupide delle singole persone che le compongono. Questo spiega anche come interi popoli (come avvenne per la Germania nazista o l’Italia mussoliniana) possono essere facilmente condizionati a perseguire obiettivi folli. Un fenomeno ben noto in psicologia. Il contagio emotivo proprio del gruppo diminuisce le capacità critiche. Si verifica la “polarizzazione della presa di decisione”: si sceglie la soluzione più semplice, che spesso è anche la meno intelligente. Come dicevano i Romani, Senatores boni viri, Senatus mala bestia: anche se i singoli senatori sono brave persone, il Senato è una brutta bestia.
Stupido è meglio? La chiave dell’efficienza di un’organizzazione può essere... la stupidità. O meglio la “stupidità funzionale”, come l’ha definita l’economista svedese Mats Alvesson. Lo studioso la descrive come basata «sull’assenza di riflessione critica. Uno stato di unità, che fa sì che gli impiegati non mettano in discussione decisioni e strutture». Insomma, una schiera di dipendenti che svolgono i compiti assegnati senza obiezioni è il segreto di un’azienda armoniosa e produttiva. Qui avevamo raccontato la tesi di Alvesson ed espresso le nostre perplessità.
Stiamo diventando tutti più stupidi? La stupidità? Sul piano evolutivo è il nostro inevitabile destino. A sostenerlo è un genetista della Stanford University, Gerald Crabtree, che in una recente ricerca ha ricostruito le possibili mutazioni del nostro corredo genetico attraverso varie epoche.
Dobbiamo preoccuparci? No, perché molti studiosi non sono d’accordo con le conclusioni di Crabtree.
Stupidi e innovazione Secondo alcuni però la stupidità ha perfino una funzione evolutiva: serve a farci compiere atti avventati, che in molti casi possono essere più utili che il non fare nulla. La stupidità, in quanto atteggiamento irrazionale, consente all’uomo di accettare sfide che normalmente non accetterebbe. E la deviazione dalla stupidità porta alla genialità e all’invenzione di soluzioni innovative. Grandi gesti eroici, per esempio, nascono spesso da un’idea irragionevole. Basta pensare a tutti quelli che affogano per salvare chi chiede aiuto in mare: la stupidità porta spesso con sé qualcosa di poetico ed epico.
La stupidità nel mito: Epimèteo Già il suo nome (che in greco significa “colui che riflette dopo”) non promette nulla di buono.
Epimèteo, infatti, era sciocco e imprudente, al contrario di suo fratello Promèteo, ingegnoso e saggio. Secondo il mito, Promèteo ebbe in dono da Vulcano la bellissima Pandora (nella foto), recante con sé un misterioso vaso: fiutando la fregatura, rifiutò il regalo. Epimèteo invece non ci pensò due volte: sposò Pandora e ne aprì il vaso, liberando così tutti i mali del mondo che vi erano rinchiusi. Un’altra sciocchezza la fece quando distribuì le qualità a tutti gli esseri viventi. Epimèteo li distribuì a caso e solo quando arrivò all’uomo si rese conto che non gli restava più nulla. Per riparare al danno, Promèteo rubò il fuoco agli dèi e lo regalò agli uomini insieme a sapere tecnico, intelligenza e cultura. La pagò cara: venne legato a una roccia e tormentato quotidianamente da un’aquila che gli divorava il fegato.



domenica 25 marzo 2018

“Tante belle cose”.



Ci sono personaggi che nel nostro vivere hanno la proprietà di caratterizzarsi per un gesto, per un’espressione o per anche una tipica frase che rimane impressa nei ricordi. 
"Tante belle cose" era il saluto di commiato che concludeva ogni suo incontro. Un saluto che in poche parole riassumeva efficacemente un modo di essere positivo, augurale e generoso. 
Nel nostro quotidiano ci sono e ci saranno sempre soggetti che hanno delle ricchezze dentro e che emanano positività; soggetti che indipendentemente dalla loro reale condizione intima hanno la capacità, in ogni caso, di rassicurare chi li circonda e che, forti di un’onestà intellettuale non comune, riescono a regalare, comunque e sempre a tutti, un sorriso.
Onestà a tutto tondo e ben solida che consente loro di saper leggere la vita per quella che è, con lucidità, e che sapientemente sanno scomporre per narrarla agli altri positivamente, scartando argutamente le tante scorie che inevitabilmente incontrano, come tutti noi, durante il percorso.
Di regola sono soggetti dotati d’intelligenza fuori dal comune, che gli consente di dialogare con tutti, di rapportarsi con chiunque, adattandosi naturalmente e a prescindere della profondità delle "acque".
Sono tante le persone belle che la vita regala, se si avrà la fortuna di riconoscerle nell'incontrarle, e sono le "cose belle" che alimenteranno costantemente l'edificazione dei nostri punti di forza che, con mattoncini che restano perennemente vivi e riconoscibili, ci accompagneranno per il tempo che rimane.
In questo caso "tante belle cose", associato a un sereno e pieno sorriso, è il ricordo che costituisce estrema sintesi e che resta fisso e fervido nella memoria che mi accompagna. 
Ciao Ciccio.




giovedì 22 marzo 2018

Celebrare la Felicità rende l'uomo infelice


La Giornata della Memoria, la Giornata del Ricordo, la Giornata della Donna, la Giornata della Famiglia, la Giornata dell’Amicizia, la Giornata dei Single, la Giornata dei Poveri, la Giornata del Malato, la Giornata dei Disturbi alimentari, la Giornata del Sonno, la Festa della Mamma, la Festa del Papà, la Festa dei Nonni, la Giornata dell’Orecchio. Questi sono inesausti. Ma è mai possibile che non ci sia un solo giorno dell’anno in cui si possa stare tranquilli, senza ricordare o festeggiare qualcosa o qualcuno? Se non fosse una contraddizione in termini, e ammesso che rimanga un qualche interstizio, istituirei una ‘Giornata del Nulla’ (in fondo anche Dio il settimo giorno si riposò) in cui non pensare a nulla o magari riflettere su chi siamo o, come singoli e società, dove stiamo andando.
Oggi, 20 marzo, ci tocca la Giornata internazionale della Felicità. Se c’è una celebrazione idiota è questa. Felicità è una parola proibita che non dovrebbe essere mai pronunciata. Sono stati gli americani, col loro consueto e ottuso ottimismo, ad avere l’ardire di inserire nella Dichiarazione di Indipendenza del 1776 “il diritto alla ricerca della felicità”, che però è stato quasi subito tradotto dall’edonismo straccione contemporaneo in un vero e proprio ‘diritto alla felicità’. Diritti di questo genere non esistono. “Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità. Non un suo diritto” (Cyrano, se vi pare…). Come, forse, esiste l’amore (che, a parer mio, è un disturbo psicosomatico che la Natura si è intelligentemente inventato per favorire ciò che più le interessa: l’accoppiamento fra due esseri di sesso diverso e quindi la filiazione, ma lasciamo perdere questa tasto oggi particolarmente dolente). Ma certamente non esiste un ‘diritto all’amore’. Sono sentimenti e, come tali, non possono appartenere al giuridico. Del resto nonostante generazioni di filosofi si siano estenuati nel cercare di definire quale sia l’essenza della felicità o dell’amore o anche del denaro non ne hanno cavato un ragno dal buco (l’accostamento al denaro non paia azzardato perché si tratta in tutti e tre i casi di astrazioni, anche se possono avere, e hanno, ricadute molto concrete).
Postulare un ‘diritto alla felicità’ significa rendere l’uomo, per ciò stesso, infelice. “Felice in tutto nessuno è mai” dice Orazio nelle Odi (ma leggetevi, esimi colleghi, un po’ di classici, invece di ricavare improbabili citazioni da internet fingendo di avere una cultura che non possedete). E poiché quel che ci manca non ha limiti non si può essere “felici mai”. Solo la Superintelligenza illuminista, dei Kant, degli Hegel and company, poteva attingere a simili livelli di cretineria.
Naturalmente i think tank del World Happiness Report 2018 per valutare l’invalutabile, la felicità, ricorrono a criteri quantitativi e sociologici. Davanti a tutti c’è l’onnipresente Pil, seguito da speranza di vita, libertà, sostegno sociale, assenza di corruzione. Al primo posto di queste classifiche ci sono i Paesi nordici, Finlandia, Norvegia, Danimarca. Bisognerebbe che i think tank del World Happiness Report ci spiegassero come mai questi stessi Paesi, ben ordinati, regolati ‘dalla culla alla tomba’, hanno il più alto tasso di suicidi, maggiore di Paesi sgarrupati come il Venezuela, le Filippine, l’Honduras. Di questa apparente aporia mi ero già accorto quando scrivevo La Ragione aveva Torto? (1985) notando che in Italia i tassi di suicidio più alti appartenevano alle regioni del Nord, benestanti e industrializzate. Dati confermati da statistiche più recenti: Lombardia 5,0% di suicidi (per 100 mila abitanti), Piemonte 5,3%, Veneto 6,5%, Emilia-Romagna 6,3%, Campania 2,4%, Puglia 2,9%, Calabria 4,5%. Se si vuole il dato più sconcertante è quello dell’Emilia-Romagna che al tempo in cui scrivevo La Ragione, ottimamente governata dai comunisti, esprimeva il maggior benessere riscontrabile nel nostro Paese.
Naturalmente il suicidio non è che la punta dell’iceberg di un malessere molto più generale perché, per fortuna o purtroppo (dipende dai punti di vista, l’elogio del suicidio lo faremo in altra occasione), solo una minima parte di coloro che si sentono a disagio in una società si toglie la vita. Che il benessere crei il malessere è confermato dai classici studi di Durkheim (Il suicidio) il quale osserva che durante una guerra crollano quasi a zero le depressioni, le nevrosi e quindi anche i suicidi. Quando si lotta per la vita e per la morte non si ha il tempo per sentirsi infelici. Si ha ben altro cui pensare (parlo naturalmente delle guerre d’antan, non di quelle moderne, occidentali, in cui predomina la tecnologia togliendo così alla guerra, oltre alla sua epica, anche quei valori positivi, umani, che pur aveva).
Quando ci si annoia in una vita cullata dal benessere è allora che si aprono gli abissi degli enigmi esistenziali, irrisolvibili. E’ quindi il disordine e non l’ordine a dare vitalità a quel personaggio complicato e ambiguo che è l’essere umano.




domenica 18 marzo 2018

Quando l’amore conta più del colesterolo



Non chiedetemi come hanno fatto, certo è che ci sono riusciti. L’idea dei ricercatori di Boston era assolutamente lungimirante e l’obiettivo davvero ambizioso: capire cos’è che ci consente di vivere bene e a lungo. Così gli studiosi dell’Università di Harvard hanno preso nota di tutto quello che succedeva ai quasi 300 studenti ammessi al College tra il 1938 e il 1944: stato di salute — fisica e mentale — lavoro, famiglia, amici e tanto d’altro (lo studio va avanti da 80 anni e non si fermerà, pare, tanto presto).
E cosa hanno scoperto? Quello che avevano già capito i Beatles: «Love, love, love», insomma, è l’amore a farti vivere bene. Non solo ma l’educazione è più importante dei soldi e dello stato sociale, mentre la solitudine uccide, proprio come l’alcol e il fumo. «Non basta essere brillanti per invecchiare bene — ha scritto George Vaillant, uno di coloro che si sono avvicendati a capo di questa avventura — devi essere innamorato, o comunque avere relazioni affettive forti, in famiglia (padre e madre naturalmente, ma anche fratelli, sorelle, zii, cugini e tutti quelli che ci vengono in mente) e fuori, e poi tanti amici». «Ma non dovevano essere i livelli di colesterolo e la pressione alta a far male?» direte voi. Sì certo, ma l’uno e l’altra a detta degli studiosi di Harvard contano meno della famiglia o dell’avere un legame affettivo stabile per esempio. Insomma è come se a tutti i consigli, comunque preziosissimi, di tanti bravi medici per invecchiare bene «non fumate, bevete poco alcol, e poi frutta, verdura e pesce, e attività fisica» ne mancasse uno che è forse il più importante: «Dedicate tempo ed energie ai vostri rapporti con gli altri». Sul lavoro? Certo, ma anche fuori se volete, non importa.
Imparare a farlo avvantaggia specialmente il cervello e gli scienziati l’hanno documentato con test di performance intellettuale e con tanti altri esami incluso l’elettroencefalogramma (che hanno ripetuto periodicamente per 80 anni!). Anche i rapporti sociali dei più piccoli sono importanti — con gli altri bambini o con gli adulti non importa, l’importante è che ne abbiano — più fanno esperienze diverse e più giocano, meglio è. Nessuno studio è perfetto e non lo è nemmeno lo studio «Grant» non fosse altro perché quanto abbiamo scritto finora potrebbe valere solo per i maschi in quanto al College a quei tempi ci andavano solo gli uomini — tutti fra l’altro bianchi — gente altolocata di solito (uno dei primi a prendere parte allo studio fu un certo John Fitzgerald Kennedy, sì, proprio lui, il futuro Presidente degli Stati Uniti e poi Ben Bradlee per moltissimi anni direttore del Washington Post). E gli altri? Ci sono stati grandi imprenditori, avvocati di grido e medici famosi, ma c’era anche gente normale e persino certi che poi ebbero una vita miserevole: alcolizzati per esempio o drogati o schizofrenici.
Col passare degli anni lo studio si è arricchito di molte altre persone, anche donne e di un’attività parallela «Glueck» cui hanno preso parte soprattutto ragazzi, questi però vivevano nei sobborghi di Boston e, come potete immaginare, il confronto fra loro e quelli del College ha fornito indicazioni preziose. Vi chiederete dove gli studiosi abbiano trovato i fondi per fare tutto questo e per poter andare avanti per così tanti anni. Dal governo federale in parte e poi dai National Institutes of Health e dalle tasse dei cittadini; anche se adesso c’è chi comincia a criticare questa scelta a cominciare dal presidente Trump: «Cosa continuiamo a spendere soldi per questo studio quando dovremmo invece preoccuparci di trovare nuove terapie per il cancro o per l’Alzheimer?». Se lo chiedete a Robert Waldinger, che ha seguito «Grant» per più di 30 anni, vi dirà che proprio grazie ai dati che sono stati raccolti in tutto questo tempo è stato possibile stabilire che chi è omosessuale non ha scelto di esserlo per esempio o che l’alcolismo non è una colpa ma una malattia e tante altre cose ancora.
Non solo ma se oggi siamo capaci di interpretare almeno un po’ certe scelte di vita della gente dipende proprio dal fatto che qualcuno si è preso la briga di seguire queste persone dalla giovinezza alla vecchiaia. Il bello è che Waldinger non ha alcuna intenzione di fermarsi, adesso sta studiando i figli degli studenti del College del ’38 e persino i figli dei figli: «È entusiasmante — dice — presto avremo tantissime informazioni e sapremo rispondere a domande a cui nessuno ha mai saputo rispondere fino ad ora». E chissà che un giorno questi dati non possano persino portare un contributo allo sforzo che si sta facendo un po’ dappertutto per prevenire certe malattie — cardiovascolari e diabete per esempio — ma anche i disturbi del sistema nervoso, o per rallentare l’invecchiamento. Se fosse così avremmo un mondo migliore e i sistemi sanitari di tutto il mondo risparmierebbero tantissimi soldi.

Giuseppe Remuzzi (Corriere della Sera - 17 marzo 2018)


Astori. Un atleta che muore nel suo letto: come un vecchio



Perché la morte di Davide Astori, il centrale della Fiorentina, ha colpito così profondamente l’immaginario collettivo? Tanto che si è sospeso per una giornata il Campionato di calcio –cosa accaduta soltanto nell’ultima guerra mondiale- e in quella successiva si è osservato un minuto di silenzio su tutti i campi, non solo italiani ma anche di altri paesi, come la Spagna e l’Inghilterra, e a Tiago Motta a tre giorni dalla morte di quello che era stato per breve tempo un suo compagno di squadra si è chiesto di onorarlo invece di fargli qualche domanda sulla disastrosa prestazione del Paris Saint Germain contro il Madrid in Champions.
Perché era un giocatore noto? Astori noto lo era solo ai tifosi della Fiorentina e a chi segue compulsivamente il Campionato su Sky, non era Rivera o Baggio o Totti. Se fosse morto sul campo, mentre giocava, in trance agonistica, l’impressione non sarebbe stata la stessa. E’ già capitato. A Renato Curi, giocatore del Perugia, 24 anni, che nel 1977 si accasciò sul campo. E più recentemente al calciatore ungherese Miklos Feher, 23 anni, la cui caduta sul terreno di gioco, mentre allarga lentamente le braccia in segno di resa, fu ripresa da tutte le televisioni del mondo. Eppure la drammatica morte di Feher non ci ha colpito come quella di Astori. Proprio perché Astori è morto d’infarto, nel suo letto, come un vecchio.
E’ stato un ‘memento mori’ collettivo. Che dovrebbe mettere qualche pulce nelle orecchie dei terroristi della medicina preventiva, nel settore delle patologie cardiologiche ma non solo. Che senso ha auscultarsi, palpeggiarsi continuamente, mettersi in allarme per un’extrasistole, misurare ogni giorno la pressione, sottoporsi a una mezza dozzina di esami clinici l’anno, se poi un atleta di 31anni, controllato periodicamente e minuziosamente come solo un atleta può esserlo, muore d’improvviso senza che ci sia stato alcun segno premonitore?
La morte per malattia di un giovane suona come un campanello d’allarme per tutti i suoi più o meno coetanei, ma paradossalmente è un motivo di rassicurazione per i vecchi. I vecchi, si sa, non fanno che guardar necrologi, è la loro lettura preferita. Se muore un coetaneo si preoccupano, sono presi dall’angoscia. Ma se muore un giovane alzano i calici, brindano, improvvisano fescennini, nascondono con lacrime di coccodrillo la loro intima soddisfazione. “Guarda quel ragazzo, credeva di farmela in barba, mi guardava dall’alto in basso come un morituro, invece lui è stecchito e io, vedi un po’, sono ancora qua, a rompere le balle”. I vecchi sono crudeli, sono cattivi. Senza contare che, qualsiasi età si abbia, “la sofferenza degli altri ci fa star bene, questa è la dura sentenza” come scrive Nietzsche con la consueta, cruda, spietata lucidità.
Dovremmo anche cambiare la percezione della vecchiaia che abbiamo noi moderni. Siamo bombardati dal mantra “vecchio è bello”. Sì, “è bello” se se la dà da giovane, se si veste come un giovane, se sgambetta impudicamente nelle discoteche, se scopa, con Viagra, anche quando non ne ha più voglia oppure, pur essendo ancora sessualmente integro, ”il bel gioco” come lo chiama Epicuro, a furia di ripeterlo, gli è venuto a noia. Insomma il vecchio è tollerato se accetta, anche lui, di essere degradato a consumatore, pur se in modica quantità. Altrimenti subentra il sottaciuto sottomantra: e adesso vai a curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo.
Oggi si può essere vecchi già da giovani, superati dalla supersonica velocità delle variazioni tecnologiche. Negli antichi costumi non era così. Il vecchio era il saggio, colui che, in una società a tradizione prevalentemente orale, era il detentore del sapere e lo trasmetteva gradualmente ai membri più giovani del gruppo. Conservava un ruolo e la sua vita un senso. Ma nei costumi antichi non si negava nemmeno, a differenza di oggi, che un vecchio potesse essere all’altezza anche fisicamente. Molti imperatori romani, soprattutto nel III secolo, secolo di decadenza per la verità, sono stati elevati al trono sulla settantina e, sottoponendosi a viaggi faticosissimi, hanno guidato le truppe nelle più lontane province dell’Impero. Nessuno è morto di malattia. Sono stati tutti assassinati (l’elogio dell’assassinio lo faremo in altra occasione). Il fatto è che per i romani antichi, a differenza di quelli moderni, degli italiani moderni direi, disposti a tutto pur di sopravvivere (vedi, per tutti, le incresciose lettere di Aldo Moro) due sole erano le morti degne: quella che ci si dava per mano propria, il suicidio, e la morte in battaglia, che davano il significato e il suggello definitivo a una vita, giovane o vecchia che fosse. La morte di Cicerone che a 64 anni, pur sapendo di non aver scampo, fugge come un coniglio e alla fine, raggiunto, “sporge tremante ai sicari di Antonio un volto canuto e disfatto” (Plutarco), lo infama per l’eternità, al contrario del suo grande avversario, Lucio Sergio Catilina, che a 45 anni offre in battaglia una performance atletica formidabile e poi cade, sconfitto nel presente, vincitore nel futuro.
A noi che siamo uomini comuni basti sapere, come ci ricordano la morte di Astori e i versi di Ungaretti, che “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”.



Gli opposti cretinismi


L’ha scritto ieri Curzio Maltese sul Fatto: siccome la soluzione più ragionevole sarebbe un appoggio di quel che resta del centrosinistra a un governo 5Stelle, è molto probabile che il Pd farà di tutto per evitarla. Ma va detto che anche Luigi Di Maio sta facendo sforzi sovrumani per complicarla o impedirla. Infatti continua a ripetere che sul programma non si tratta perché l’hanno scelto gli elettori; sui ministri non si tratta perché li hanno scelti gli elettori; e ovviamente non si tratta neppure sul premier (lui), perché l’hanno scelto gli elettori. Dimentica sempre di precisare: i suoi elettori. Che sono tanti. Ma non tutti. Arrivare primi (come lista) con il 32,7% significa partire favoriti per l’incarico di formare un governo (anche se Mattarella potrebbe iniziare col centrodestra, cioè con la prima coalizione, sempre che non si sfasci nel frattempo). Ma non conferisce il diritto divino di fare un governo con i voti altrui, per giunta gratis. È vero che l’ammucchiata centrodestra-Pd la vogliono solo i due trombati del 4 marzo, cioè B. e Renzi, terrorizzati dalle rispettive ininfluenze e soprattutto da nuove elezioni. E un governo Lega-M5S non conviene né a Salvini né a Di Maio, ormai concorrenti e alternativi. Ma è pure vero che una maggioranza del 50% più uno non nasce da sola per mancanza d’altro.
Bisogna costruirla: non aspettando che si facciano vivi gli altri e poi meravigliandosi perché “finora non s’è visto nessuno” (e ti credo!). Ma facendo ai partner una proposta che non possano rifiutare. Se Di Maio vuole i voti del Pd derenzizzato e di LeU, glieli chieda. Poi vada a parlare con Martina e Grasso su un’offerta chiara, realistica, generosa e rispettosa della democrazia parlamentare (che non si regge su maggioranze relative, ma assolute). Proprio quello che non fece il Pd nel 2013, quando pareggiò col M5S: si pappò le presidenze delle due Camere, designò Bersani come premier, stese un programma e una lista di ministri, poi pretese che i 5Stelle sostenessero al Senato il suo governo di minoranza. Risultato: il famoso e disastroso incontro in streaming. Quella di Bersani e Letta era una proposta che Crimi e Lombardi non solo potevano, ma dovevano rifiutare. Quando poi Grillo, venti giorni dopo, ne avanzò una non solo accettabile, ma auspicabile per il M5S, per il Pd e soprattutto per l’Italia – “eleggiamo Rodotà al Quirinale e poi governiamo insieme” – fu il Pd napolitanizzato e lettizzato, cioè berlusconizzato a rifiutarla. E condannò il Paese a cinque anni di vergogne. Ora Di Maio crede che avere quasi doppiato il Pd lo autorizzi a fare altrettanto.
Ma sbaglia di grosso. Nessuno regala voti a chi nemmeno si abbassa a chiederglieli. Se il Pd pretendesse poltrone, i 5Stelle farebbero bene a rifiutare. Ma se chiedesse alcuni punti programmatici condivisibili, perché no? La cosa sarebbe meno difficile se Di Maio aprisse la sua squadra di esterni ad altri indipendenti di centrosinistra, per un governo senza ministri parlamentari. E bilanciasse la sua premiership lasciando la presidenza di una Camera alla Lega. Dopodiché, è ovvio, è sul programma che dovrebbe garantire il cambiamento che gli elettori hanno appena chiesto. La palla tornerebbe al Pd, che dovrebbe scegliere: accettare una soluzione equilibrata o suicidarsi con nuove elezioni. Intendiamoci: il Pd sarebbe capace di optare per la seconda ipotesi. Ma almeno sarebbe chiaro di chi è la colpa.
Purtroppo, mentre personalità autorevoli della sinistra come Zagrebelsky, Settis, Spinelli e Cacciari indicano la strada, c’è chi lavora per bruciare i ponti. Su Repubblica si leggono commenti che fanno ridere per non piangere. Stefano Cappellini rimuove dalla scena del 2013 Napolitano e le Presidenziali che lo rielessero impallinando Prodi e Rodotà, per spacciare la sua favoletta – “Se i dem hanno governato col centrodestra è perché Grillo e Casaleggio mandarono Crimi e Lombardi a umiliare in streaming Bersani” – e spingere il Pd sull’Aventino in nome della “centralità del Parlamento” (chissà dov’era Cappellini nell’ultimo quinquennio, mentre il Parlamento veniva calpestato da 107 fiducie, due leggi elettorali incostituzionali e due governi di minoranza dopati dal Porcellum illegittimo). Corrado Augias, siccome gli elettori non ascoltano i consigli di Repubblica, cita il politologo Jason Brennan, teorico dell’“epistocrazia” cioè “una democrazia degli informati”, e invoca “nuovi strumenti che limitino le scelte sciagurate fatte sull’onda di risentimenti alimentati dalle reti sociali”. Ideona: si potrebbe tornare al voto per censo, onde evitare che il popolo bue continui a votare e poi scelga chi non vuole Augias; oppure, visto che anche il voto censitario presenta dei rischi, riservare l’elettorato attivo e passivo ai lettori di Repubblica, o meglio ancora ai suoi giornalisti ed editori. Sebastiano Messina fa esercizi matematici per dimostrare che: a) i 5Stelle hanno perso perché li ha votati solo un terzo degli elettori e gli altri due terzi no; b) nel 2013 il M5S (25,5%) doveva dire di sì al Pd (25,5%), ora invece il Pd (18.7%) deve dire di no al M5S (32,7) perché Bersani aveva “344 deputati e 119 senatori mentre oggi nessuno ha raggiunto queste cifre”. Il nuovo Pitagora s’è scordato che nel 2013 c’era il premio incostituzionale del Porcellum, senza cui Renzi e Gentiloni non avrebbero governato un giorno.
La comica finale è di Alessandra Longo, che sbeffeggia Pif, la Spinelli, Muccino, Zagrebelsky e Flores d’Arcais perché osano dare “consigli non richiesti” al Pd. Come si permettono? Non sanno che funziona come a scuola? Si parla solo se interrogati, oppure si alza la mano e si chiede l’autorizzazione. A Repubblica o al Pd, tanto è lo stesso.



lunedì 12 marzo 2018

Populismo: una parola pericolosa


Puntualmente alla vittoria di Trump, di Le Pen, del Brexit, della Lega o Cinquestelle, opinionisti e giornali analizzano il voto con valutazione quasi infantile. I popoli sceglierebbero i “partiti della paura”, della sicurezza, spesso sottintendendo che il popolo, votando per nuove formazioni politiche, sia irrazionale, voti con la pancia e non sia capace di intendere e di volere, accecato dalla crisi. Probabilmente, senza nemmeno essercene accorti, da qualche anno c’è una parola che è tornata di moda e attorno alla quale si è creata un’ambiguità pericolosa: il “populismo”. Un’analisi di questa parola permette di capire molto del mondo politico attuale nell’era post-ideologica del superamento della logica “destra-sinistra”.

Populismo è un concetto che ha varie accezioni a seconda del periodo storico e che occorre riprendere per potere comprendere a fondo la logica dell’utilizzo attuale.

I primi ad essere definiti “populisti” furono nei primi del Novecento i membri di un movimento contadino e popolare russo che esaltava il carattere tradizionale delle campagne russe e promuoveva tendenze socialiste contro il mondo occidentale industriale, ben lontano quindi dal significato attuale. Poi fu il momento di un’accezione più vaga di populista, che dagli anni’30 indicava ciò che era destinato in favore del popolo: il “premio populista” in Francia era un premio destinato a scrittori che, stanchi di rappresentare un mondo borghese di élites cittadine, davano spazio a personaggi e a vicende popolari.
Infine da qualche decennio l’uso del termine si riferisce ad un atteggiamento politico volto a soddisfare e ad ammaliare il popolo tradito da una “casta” o “classe dirigente” a lui ostile. La confusione con il termine demagogia è lampante.

L’uso di questo termine comporta una serie di conseguenze solitamente ignorate.

In primo luogo viene utilizzato come un’ “insulto gentile” nei confronti di qualsiasi movimento politico che non faccia parte dello schieramento tradizionale: i primi furono i leghisti ad essere additati di questo “crimine”, poi i Cinquestelle che vennero definiti come “l’anti-politica”.
In pratica secondo il sottotesto di questa etichetta il mondo sarebbe diviso, da un lato da un gruppo di “politici ragionevoli” (liberali di centro sinistra e di centro destra) contro, dall’altro, i populisti che sarebbero agli estremi ovvero gli incompetenti che parlano alla pancia del paese, all’irrazionalità o che, peggio ancora, creano paure per sfruttare l’odio in veste elettorale.
Nel caso specifico italiano se è vero che la Lega appartiene ad un populismo di destra, i Cinquestelle si mantengono in maniera ambigua in un contesto post-ideologico che rassicura la popolazione educata dai tempi del dopoguerra alla paura degli estremi e del totalitarismo.
Insomma, secondo questa logica, l’elettore è ragionevole se accetta l’economia di mercato, oppure è demente e si fa abbindolare dai populisti.

Se la conseguenza dell’uso di questo termine fosse soltanto quella di rappresentare i lamenti di una vecchia classe dirigente che si sente insidiata da quella nuova e che la sottovaluta, questa analisi sarebbe piuttosto velleitaria. Le conseguenze, senza voler essere catastrofista, si possono spingere fino alla legittimazione di comportamenti estremisti.

Se è vero che l’Italia è un paese di analfabeti funzionali, l’argomento di un popolo stupido incapace di votare non permetterebbe di far luce su alcune dinamiche importanti, e questo atteggiamento paternalistico nei confronti del popolo non fa altro che allontanare non solo la politica dalla gente, ma certa sinistra sempre più radical-chic dalla realtà e dalle masse.

L’abuso di questo termine, per screditare il nemico politico, ha ed avrà delle conseguenze pericolose.

La più importante, come scrive Guillaume Roubaud Quashie, membro della direzione del PCF (Partito Comunista Francese) e autore della rivista “Cause Commune“, è che si rinuncia a definire l’estrema destra come tale e gli si fa un regalo enorme poiché non sarà più qualificata come “estrema” e spesso non sarà nemmeno qualificata di “destra”. Spogliarla di questi due termini significa non solo legittimarla costituzionalmente, ma anche vestirla di un aggettivo, quello “populista” sul quale la gente, seppur rappresenti qualcosa di negativo agli occhi dei media espressione di una classe liberale, sente vicino e in un certo senso capito dal politico “populista”.

L’abuso di “populista” viene poi allargato come accusa anche ad istanze politiche di sinistra: Syriza, Podemos e Mélenchon, che in Francia ha provocatoriamente affermato “Se populista significa denunciare le collusioni, allora chiamatemi pure populista”.

Ora, si parla tanto della perdita di identità della sinistra, a seguito delle sue sconfitte in moltissimi paesi, ma non si è fatto altro che alimentare questa perdita di identità, dimenticando o non riadattando un vocabolario vetusto come quello di “lotta di classe” e si è invece adottato un vocabolario che era creato ad arte per cancellare le differenze tra sinistra e destra, perché tendenzialmente estreme e quindi negative.

Il populismo attuale non solo nasconde in sé la vecchia “lotta di classe”, ma ne è diventato l’erede mascherato e depotenziato perché privo di una “coscienza di classe”. Parlare poi di una classe risulta antistorico poiché occorrerebbe parlare di una serie di classi sociali subalterne alla ragione economica, con grande sdegno della sinistra che oltre ad aver tradito i contenuti politici di uguaglianza e lavoro, ha anche abbandonato la retorica e il vocabolario degli “esclusi” e degli “ultimi” che non si sentono così più rappresentati. Vocabolario che è stato ripreso dai partiti anti-casta ed anti-sistema. Se è scomparsa quindi la differenza tra destra e sinistra, non è scomparsa quella tra chi è escluso dalla mondializzazione e chi invece ne trae benefici.

Un esempio analogo a quello dell’abuso della parola “populista” vale per parole come “complottista” o “totalitarismo”.

Complottista è diventato un insulto nei confronti di qualsiasi persona si opponga ad una verità costituita, quali che siano gli elementi di prova portati. Se ci sono elementi di denuncia all’interno delle informazioni che talvolta circolano, queste sono facilmente qualificate come “fake news“, permettendo così ai media tradizionali di tenersi stretto un posto sempre più precario, ma con il rischio per l’opinione pubblica di gettare il bambino con l’acqua sporca.

La nozione, imparata o meno a scuola, di totalitarismo invece è stata una nozione coniata per equiparare gli elementi comuni di fenomeni storici completamente diversi come comunismo, fascismo e nazismo. Così facendo, la nostra tradizione del dopo guerra filo-americana e democristiana ci allontanava dalle tentazioni sovietiche ricordando quanti morti avesse fatto il comunismo in pieno clima di guerra fredda. E quante volte recentemente abbiamo letto commenti sui social di gente che, a proposito delle marce antifasciste e del ritorno di atti violenti e di clima da “anni di piombo”, voleva l’equiparazione del divieto di costituzione del partito fascista a quello comunista o più in generale un atteggiamento politico di odio degli estremismi.

Tutte queste parole hanno una carica politica latente che condiziona il modo in cui vediamo il mondo politico stesso.
Gli italiani, stufi delle ideologie del XX secolo, prima ancora che della politica, hanno abbracciato la neutralità ideologica del populismo pentastellato. Questi potrà prendere la strada delle correnti in stile DC o, molto più probabilmente, la strada delle correnti in stile fascista, data la portata rivoluzionaria iniziale del movimento, senza per forza diventare un partito unico o una dittatura.

Ma, quello che appare evidente, nonostante sia sempre scientificamente scorretto fare paragoni storici decontestualizzando i fenomeni, è che ad un’ideologia nazionalista nel caso dei 5S si è sostituita una ideologia anti-casta digitale, in cui la ricerca del consenso non si manifesta attraverso la mobilitazione continua delle masse nelle piazze (come sostiene De Felice nel caso del fascismo) ma come mobilitazione continua della “rete” attraverso la piattaforma Rousseau, che mira a legittimare la nuova “democrazia liquida”. De Felice sosteneva che la caratteristica peculiare del fascismo italiano rispetto ad altri totalitarismi fosse proprio questa necessaria mobilitazione continua della base per la creazione del consenso.

Alla piccola e media borghesia postbellica che aveva fatto l’esperienza della violenza, che quindi imparava ad incidere nella realtà con i muscoli, e che intendeva proiettarsi come nuova classe dirigente che soppiantava quella post-unitaria, si sostituisce ora una massa di haters che hanno fatto l’esperienza del commento sul social, fiera di avere contribuito ad una decisione del movimento. Il fascismo si proponeva di applicare una “terza via” tra capitalismo e socialismo, i Cinquestelle vogliono lasciare intendere che la loro post-ideologia, oltre a permettere di acchiappare consensi qua e là, permette di riproporre una visione pragmatica della politica che piace agli italiani, poiché permette di unirli attorno ad un progetto, una visione, indipendentemente dal contenuto ideologico che spesso fuggono. O meglio, il contenuto ideologico è lo strale lanciato alla vecchia classe dirigente, privo della difesa di un valore specifico se non quello della legalità, che è pur sempre qualcosa, anche se insufficiente e che difficilmente resisterà di fronte ad un popolo corrotto per definizione e natura dalla sua storia.
Chiaramente nel passaggio da “movimento”, come espressione dei ceti medi emergenti e portatore di forti istanze di rinnovamento, a “regime”, in quanto prodotto dei compromessi con i poteri tradizionali, si vedrà poi la vera natura del populismo pentastellato che ha già strizzato l’occhio all’Europa e a Confindustria.

Infine il confine tra demagogia (attuale accezione della parola populismo) e democrazia è sottilissimo e passa attraverso la realizzazione concreta di punti programmatici con un contenuto politico preciso. Dubito che un progetto politico possa essere vuoto di contenuti ideologici: essi possono essere nascosti, taciuti o smussati ma devono necessariamente essere presenti, perché la politica è scelta, non solo raccolta del consenso, altrimenti, come dice Emilio Gentile, diventa “democrazia recitativa”.

Il problema è che oggi il tecnico si è spesso sostituito al politico, che dovrebbe indicare obiettivi e scelte. Il tecnico invece dovrebbe indicare il come si arriva all’obiettivo stabilito dal politico. Il centro di sinistra e destra, non compiendo più scelte politiche, si è limitato al “governo tecnico” e la sinistra raggiungendo la destra nella politica economica e soprattutto nei diritti sociali e del lavoro, ai quali ha sostituito quelli civili (trattasi di “populismo culturale”), ha perso completamente la sua identità. Ed insieme alla sinistra, l’autorità statuale appare vanificarsi rispetto a quello europea.

Da anni ormai, si fa sentire la voce di coloro che rimangono esclusi dalla mondializzazione e non vedendo effetti benefici nell’immigrazione e nella Unione europea hanno deciso di inseguire nuove forme politiche, nuovi rappresentanti che effettuino scelte in loro nome.

Essere demagogici non è un male, purché si è in tanti: in fondo, secondo la Teoria della scelta pubblica i politici non sarebbero altro che dei mercanti di idee.

La democrazia non è altro che la “concorrenza delle demagogie” (Marcel Gauchet), l’importante è non farla diventare un monopolio, poiché in quel caso saremmo di fronte ad un totalitarismo.



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