"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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Fotogazzeggiando: Immagini e Racconti

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domenica 29 aprile 2018

“Sull’importanza inaspettatamente assunta da un bidet mancante”




Sono tante le opportunità offerte dalla realtà quotidiana per raccontare una storia.
Magari romanzando con enfasi e fantasia, abbellendone alcuni spunti, si possono pure narrare accadimenti reali e rendere gradevoli contorni di fatti che gradevoli non lo sono stati per niente.
Difficile nel raccontare è riuscire a confondere un pò il lettore, avvolgendo il vero con il fantasioso; e forse questa è la parte più divertente che c'è nello scrivere storie.
In premessa è utile una citazione. Nel famoso ritornello Mary Poppins sapientemente cantava …… “basta un poco di zucchero e la pillola va giù ............ e ........ tutto brillerà di più”.

Inizio del racconto …….

Da quando era stato investito del nuovo compito Uto cercava nel suo piccolo di portare avanti delle innovazioni che potessero tornare utili alla crescita culturale dell’intera organizzazione in cui si trovava a operare.
Tra le tante iniziative era avvezzo agire nel web per ricercare novità e, forte della sua assoluta autonomia, produrre occasioni utili a valorizzare produzioni proprie e di altri amici accomunati nella passione per la fotografia.
Solo casualmente, avendo visto rimosso senza preavviso un suo ultimo post dalla pagina ufficiale dell’associazione, venne ad apprendere i motivi sottostanti a quell’azione e a conoscere che una specie di “Tribunale interno della Santa Inquisizione”, velocemente convocato, si sarebbe ancora una volta interessando a lui.
In un precedente accadimento Uto si già era “macchiato” per avere informato un “socio assente” del fatto che, durante un’affollata assemblea congressuale, un altro associato denunciante aveva chiesto la parola per screditarlo pubblicamente; il tutto senza che nessuno lo interrompesse o cercasse di smussare in qualche modo l’intervento. Nell’occasione era stata pure proposta l’esclusione dell'associazione culturale allo stesso ascrivibile dalla cerchia dei "circoli eletti".
All’origine del fatto c’era stata la mancanza di un “bidet” nella stanza d’albergo assegnata al denunciante durante un "soggiorno gratuito" offerto dagli organizzatori di un concorso fotografico e connesso al ritiro di un premio vinto.
Nella circostanza, tralasciando particolari e l’ipocrisia che infiorò la vicenda, emblematica fu la telefonata ricevuta da Uto, da parte di un “personaggio a lui vicino”, che ebbe a dirgli senza imbarazzo “ma tu chi c..... sei …. chi ti ha mai autorizzato a riferire a …… quanto era stato detto nel corso dell’assemblea dei soci?”.
Si sorvola sul merito della questione e sulle ovvietà attinenti alla “riservatezza” di opinioni espresse in una pubblica assemblea e, per bontà di patria, sull' "oxfordiano" richiamo telefonico dell'"Onorario emerito", ma ad essere precisi l'omertà non era contemplata in quell'associazione, e men che meno ufficialmente scritta nello statuto. Del resto per concedere l'opportunità di potere chiarire un comportamento, occorre che almeno l'interessato ne sia informato.
Quella vicenda, che ebbe poi un seguito, fu anche gestita in maniera assai maldestra da tutte le parti in causa, con un epilogo infarcito di puerili furberie e di stupidi sotterfugi che, ricorrendo a trame, rivelarono presto varie bugie sottaciute e, con ogni evidenza, le loro “gambe corte”.
Il procedimento di ora, che rivedeva Uto ancora come protagonista, appariva più debole e artatamente forzato, ma forse era necessario creare un'occasione per poter dare un chiaro segnale che potesse costituire anche da monito ad altri non allineati liberi pensatori.
Nasceva forte il sospetto che i fulmini di tempesta potessero derivare essenzialmente dall’idea che qualcuno, anche indirettamente, potesse in qualche modo intaccare vecchi equilibri consolidati.
Come nell’antico modo provinciale di far politica, capita sempre di trovare anche qualcuno utile al gioco, che si presti ad essere strumentalizzato e che, magari a sua insaputa, si ritrovi pure a rivestire la figura del fanatico sacerdote propenso a “scomunica”.
Nell’associazione era noto l'agire nell’ombra di taluni, che davano il meglio di se all’insaputa degli stessi malcapitati.
Per calmare bollenti spiriti e soddisfare manie egocentriche, era d'uso conferire, se necessario, onorificenze e tante stelle di latta, ma nel caso di Uto quella "tecnica" non poteva funzionare.
In assenza di norme certe - che regolamentassero chiaramente fattispecie nelle sue forme scritte - vennero richiesti tanti pareri e interventi non codificati.
Nello specifico si manifestarono anche retromarce di stessi giudici ora chiamati a decidere che, con estrema leggerezza e forse senza neanche rendersene conto, avevano precedentemente assecondato, ufficializzandola, l’iniziativa di Uto. 
Nella pagina ufficiale del web, prima dell'oscuramento, risultava esplicitato peraltro un “mi piace”  postato dallo stesso capo dell'associazione.
Con le premesse anzidette e, a posteriori, contraddicendo quindi quanto avallato dagli organi preposti, l’azione di Uto veniva denunciata ora come "autonoma iniziativa", arbitraria e mai autorizzata da alcuno; pertanto, da attenzionare come "reato" e, nel caso, per un “idoneo castigo”.
Risultava evidente la pochezza dell’intera vicenda ed ancor più la debolezza dell'apparato accusatorio. Ma nonostante tutto, si annunciavano tuoni, fulmini e saette.
Anche questa volta in quel contesto "kafkiano" si prospettavano scenari apocalittici; venivano chiamati in causa organi deliberanti, mentre dei pubblici ministeri avvolti nelle loro toghe rosse si attrezzavano per sostenere le deboli accuse.
Ma l’obiettivo principale era stato forse raggiunto; il polverone sollevato era ormai talmente alto che era riuscito ad oscurare le motivazioni che sottostavano alle vere problematiche circostanziate attenzionate da Uto.
Né ad alcuno venne in mente di saperne di più o di chiedere quale era stata la reale problematica sollevata dalla questione: molti di quelli che gradivano parlarsi addosso del resto non erano propensi ad ascoltare.
E dire che l’occasionale “savonarola”, armato di buoni intendimenti, aveva da sempre confidato nel fatto che assicurare una trasparenza gestionale e facilitare l'emanazioni di regole certe e scritte potesse generare per l'intera compagine opportunità di crescita.
Ma Uto,  non aveva messo in conto l’importanza che qualcuno riservava a questa “associazione”, vissuta magari come “cosa propria”, da tempo curata ed amata come “orticello”; un approccio del genere era lontano anni luce dal pensiero di Uto.
Affascinato dalle discipline orientali, andò a prendere un comodo posto all’ombra per attendere la fine della buriana. Aveva vissuto esperienze simili in altre realtà associative e sapeva che, anche in questo caso, per lui appartenere a questo gruppo non costituiva una questione vitale.
Quella realtà, al netto di ogni incongruenza, era stata occasione per conoscere altra gente, per scoprire aspetti dell’essere umano, per allargare e arricchire ancor più le proprie esperienze. Ancora, anche questa volta, non gli restava quindi che attendere lo svolgimento degli eventi e prendere atto dei risultati.
Riguardo ai rapporti, che in ogni caso avrebbe voluto mantenere con taluni, era certo che quegli strumentali accadimenti non li avrebbero esposti ad alcun rischio.
Per una legge di fisica il gran polverone avrebbe teso a scendere e col tempo si sarebbero sedimentati i tanti granelli di polvere, restituiendo chiarezza all'opacità procurata.
Buona luce a tutti.

© Essec


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P.S. - Il racconto ha preso spunto dalla lettura di questo commento, poi rimosso, apparso temporaneamente su una pagina web di una associazione nazionale (Per quanto ovvio, la narrazione romanzata è arricchita con elementi di fantasia):
“In effetti, avendo preso visione delle foto” … “in occasione della selezione per la monografia e attraverso le ottime stampe realizzate” …. “per l'approntamento della mostra espositiva del ….., mi è sembrato opportuno mostrare le immagini per quelle che realmente erano ed il Web offre opportunità di ottimizzare visivamente. La stampa del volume purtroppo ha evidenziato, come nel caso dell'annuario, pecche e carenze qualitative che hanno pregiudicato fortemente i propositi di eccellenza prefissati. A mio parere, con le opportunità offerte oggi dalla stampa digitale, risulta controproducente continuare a mirare su scelte tipografiche superate e qualitativamente scadenti, magari con lo scopo di cercare di mirare principalmente ad un risparmio economico che in fotografia non paga. Azzarderei a dire che” ……” , nel caso, piuttosto che mirare al contenimento costi è meglio non procedere a stampa. Forse è più producente precedere come ho fatto io, a costo zero, con uno slide show che appaga il diletto di vedere delle immagini ottimizzate alla vista. Magari la mia opinione sarà per alcuni opinabile ma questo è il mio modo di vedere. Forse sarà opportuno rifletterci un pò sopra per i programmi futuri".


Per non essere schiavi serve il "tempo liberato"


La novità più interessante del pensiero a Cinque Stelle è il privilegiare, nella scala dei valori, il tempo sul lavoro, di cui il prossimo primo maggio si celebra la Festa (“la festa della nostra schiavitù” come l’ho sempre chiamata io). In epoca preindustriale il lavoro, per dirla con San Paolo, é “uno spiacevole sudore della fronte”. Non è un valore. E’ nobile chi non lavora. Con quel grandioso fenomeno (a parer mio non ancora studiato a sufficienza) che prende il nome di Rivoluzione industriale la prospettiva cambia radicalmente. Sia nella versione marxista che liberista dell’Illuminismo, che cerca di razionalizzare le profonde novità introdotte da questa Rivoluzione, il lavoro diventa centrale. Per Marx è “l’essenza del valore” (non a caso Stachanov, in realtà uno ‘schiavo di Stato’, è un eroe dell’Unione Sovietica), per i liberisti è esattamente quel fattore che combinandosi col capitale dà il famoso ‘plusvalore’.
Per me il vero valore della vita è il tempo e l’ho scritto in tutta la mia opera. La novità portata, sia pur in modo saltabeccante, da Grillo, che riprende un’intuizione di Gianroberto Casaleggio, è di aver precisato, con la sua definizione di “tempo liberato”, di quale tempo si stia parlando.
In che cosa si distingue il “tempo liberato” dal più noto tempo libero? Il tempo libero è un tempo sincopato, determinato dai ritmi e dai tempi del lavoro. In realtà non è affatto ‘libero’, ma è destinato al consumo senza il quale tutto il grande castello produttivo che abbiamo costruito, e sul quale si basa l’attuale modello di sviluppo, crollerebbe miseramente. Noi non produciamo più per consumare ma consumiamo per poter produrre, un’aberrante incongruenza che era già stata avvertita da Adam Smith che pur è, insieme a David Ricardo, uno dei padri fondatori di questo sistema. “Dobbiamo consumare per aiutare la produzione”, quante volte ci siamo sentiti ripetere questa frase dagli economisti e dagli uomini politici? Il ‘tempo libero’ quindi non è affatto tale, non solo perché è determinato inesorabilmente dai ritmi e dalle esigenze dei tempi del lavoro e della produzione ma perché deve essere destinato al consumo compulsivo e nevrotico. Milano da questo punto di vista è una buona base di osservazione. Nel weekend i milanesi schizzano via e si catapultano, a seconda delle stagioni, a Cortina, a Saint Moritz, a Gstaad o a Portofino, a Rapallo, al Forte dei Marmi, dove vedono le stesse persone che hanno lasciato in città e si abbandonano agli stessi riti e agli stessi ritmi. Per rientrare la domenica sera più stanchi e sfatti di quando sono partiti. Paradossalmente se la passa meglio chi, per mancanza di denaro, resta in città. E’ “la ricchezza di chi è più povero” per parafrasare un aforisma di Nietzsche capovolgendolo lessicalmente ma mantenendone il senso.
Il “tempo liberato” è invece quello che dedichiamo a noi stessi, alla nostra interiorità e spiritualità, alla riflessione, alla contemplazione, alla creatività disinteressata. E’ un tempo quasi ‘religioso’ (non per nulla sia Wojtyla che Francesco ne hanno fatto a volte cenno) intendendo questa espressione in senso molto lato. E’ quel “pauperismo” che Berlusconi, che sta dalla parte opposta della barricata ma di cui tutto si può dire tranne che manchi di intuito, ha percepito e condannato nel ‘grillismo’ e di cui, probabilmente, nemmeno buona parte dei seguaci dei Cinque Stelle è consapevole.
E’ chiaro che la piena attuazione del “tempo liberato”, a scapito del mito del lavoro, imporrebbe uno scaravoltamento dell’attuale modello di sviluppo, al momento impensabile. Per ora accontentiamoci del possibile: che sia la tecnologia a lavorare, almeno in parte, al nostro posto, senza per questo sbatterci sul lastrico (il “reddito di cittadinanza”, il cui contenuto va naturalmente approfondito e reso economicamente più compatibile, va in questo senso) e non noi a dover lavorare, a velocità sempre più sostenuta, in funzione della tecnologia.


martedì 24 aprile 2018

I bulli a scuola e l'Occidente


Si moltiplicano gli episodi di studenti, in genere delle prime classi, cioè adolescenti o preadolescenti, che offendono, minacciano, picchiano, umiliano i loro professori. Ma anche di genitori che aggrediscono i docenti. Sono solo le manifestazioni più appariscenti di una questione che solo apparentemente riguarda la scuola e i giovani, o in particolare l’Italia, ma si innesta nella profonda decadenza del mondo occidentale, il suo lento e inesorabile marcire. Dove tout se tient.
1. Il crollo del principio di autorità. Da troppi decenni, direi anzi da un paio di secoli, abbiamo privilegiato la libertà sull’autorità. Ma la libertà è la cosa più difficile da gestire. Del resto l’autorità non esisterebbe da millenni se non fosse necessaria alla convivenza sociale. Lo sapevano molti dei nostri maggiori, da Platone a Dostoevskij, pensatori di cui oggi è perfin difficile immaginare l’esistenza, in un mondo che non pensa più se non in termini scientifici, tecnologici, quantitativi.
2. La graduale scomparsa della famiglia come nucleo essenziale di una comunità, scomparsa che si lega ad un individualismo senza più freni e inibizioni.
3. La necessità assoluta dell’apparire per poter essere in una società dove ci sentiamo tutti omologati, tutti dei ‘nessuno’. Non è certamente un caso che i fenomeni di bullismo, scolastico e non scolastico, non abbiano, agli occhi di chi li compie, valore di per sé ma solo se visualizzati nel mondo globale.
4. Lo strapotere della tecnologia che ha preso il posto dell’umano. Dai robot alle macchine che si guidano da sole a tutto l’enorme complesso dell’intelligenza artificiale. Gli adolescenti poiché più fragili ma quindi anche più sensibili, sono solo la spia più evidente di una tragedia che ci coinvolge e ci travolge tutti.
Rimontare la china, a questo punto, è impossibile. Bisogna lasciare che il corpo malato si decomponga ulteriormente fino a diventare cadavere. Solo allora si potrà ricominciare.

Massimo Fini

venerdì 20 aprile 2018

Da una scolaresca in treno ho capito che l’Italia non è la razza bianca



A Milano Centrale il treno spalanca le porte e nella carrozza irrompe la tanto temuta scolaresca. Decine di ragazzi che travolgono ogni cosa. Riempiono ogni silenzio. Scaricano vita e ormoni e secchiate. Spandono profumi e aromi più o meno gradevoli.
È la scolaresca tanto temuta dal viaggiatore pieno di spirito poetico perché il suo spazio vitale si riduce. Temuta anche perché di fronte alla scolaresca deve dire, con Mario Luzi, “quanta vita!”. Insomma, i ragazzi ti fanno sentire vecchio.
In mezzo alla marea diretta con te a Venezia un anziano professore che riesce a mantenere la calma contro ogni aspettativa. Che controlla flemmatico la situazione. Poi una giovane prof che viene dal sud con pantaloni attillati e occhi freschi come gli alunni.
Due contro sessanta. Ce la faranno a domare la classe?
Ma non è soltanto la vita a colpirti. Dei ragazzi di questa scuola milanese, gli “italiani” saranno la metà. Quattro continenti in una classe. Quanti colori della pelle: bianco – caro al governatore lombardo Fontana – mulatto, nero. E si fa presto poi a dire asiatici guardando le mille curve degli occhi, le virgole dei sorrisi a volte malinconiche altre piene di ironia. E i capelli! Neri opachi, lucidi, a ricci, crespi.
Li guardi – ragazzi e ragazze – e non puoi fare a meno di immaginarti il loro destino, i lineamenti mischiati tra una, due generazioni. Magari con un tuo figlio: “Indovina chi viene a cena”, a casa tua. Per un attimo te lo chiedi anche tu: l’Italia rischia davvero di sparire, come i colori e i lineamenti sui volti dei ragazzi di domani?
Eppure c’è qualcosa di molto italiano in questa classe così mista. C’è la briscola che il professore propone di giocare; “prof, è roba vecchia”, ma poi tutti mettono via gli smartphone e partecipano. Ci sono le canzoni di Tiziano Ferro che sfuggono dagli auricolari. C’è il paesaggio della Pianura oltre il finestrino che diventerà per tutti misura dello spazio, della ricerca di un orizzonte.
C’è soprattutto la lingua, il nostro italiano. La ragazza cantonese e quella albanese con uguale accento lombardo. Ma le parole sono molto di più: aiutano a mettere insieme i pensieri, ne condizionano la forma. A volte addirittura il contenuto. “Ti voglio bene”, che forse qualche ragazzo si sta dicendo nella carrozza si può dire solo in italiano. Se lo ripeti lentamente ne ritrovi il significato: voglio il tuo bene.
Non esiste in altre lingue.
Anche le battute, gli scherzi, l’ironia dipendono dalla lingua. Perfino gli stati d’animo, in fondo.
Ed è italiano lo spirito del professore – giacca, pullover e cravatta di una volta – mentre raccoglie le confidenze del ragazzo ecuadoriano accanto a lui. Sorride, il prof, anche un po’ di se stesso. Non prendersi troppo sul serio per essere rispettati. Forse anche questo tratto è un po’ italiano. Come le battute del capotreno che passa e dopo aver controllato i primi biglietti finge di svenire in braccio a una ragazzina.
Strana sensazione: si vedono pochi “italiani”, ma ritrovi lo stesso l’Italia. E vedi il Paese di domani.
Caro Fontana, vorresti dirgli, per salvare se stessi non serve preservare la RAZZA BIANCA. Bisogna sapere chi siamo. Su questa carrozza di treno si vede l’Italia di domani. Ed è bella.




Buffon, Merkel, il rigore tedesco e la solita Italia


Forse gli arbitri internazionali di oggi sono tecnicamente più bravi di quelli di una ventina di anni fa. Ma mancano di psicologia. Non si dà un rigore dubbio all’ultimo minuto di una partita esaltante. Detto questo la reazione di Gigi Buffon in campo e soprattutto dopo è inaccettabile. Andrés Iniesta, detto “don Andrés” per la sua signorilità in campo e fuori, non avrebbe avuto una reazione così scomposta. E qui sta la differenza. Iniesta, che con il Barca e con la Spagna ha vinto tutto, non solo è un grandissimo campione, certamente superiore a Buffon, ma è anche un grande uomo, Gigi un po’ meno, sia sul campo sia fuori.
La Juventus ha poco da lamentarsi. Io tengo a una piccola, modesta, tragica squadra, il Toro, e quante volte, come tante altre piccole squadre, abbiamo visto gli arbitri favorire, con rigori fasulli o rigori negati, le cosiddette ‘grandi’, Juventus, Milan, Inter? Ciò che la Juventus ha subìto a Madrid è esattamente la stessa cosa che le piccole squadre subiscono nel Campionato italiano.
Esiste indubbiamente una questione Real, perennemente favorito in campo internazionale. Tant’è che la stessa sorte della Juve, e anche peggio, era toccata l’anno scorso al Bayern di Monaco che non è proprio l’ultimo della pista. Ma i tedeschi non ne hanno fatto un caso. Perché son tedeschi. E qui sta un’altra differenza: quella fra la Germania e tutti gli altri Paesi europei. Non solo nel calcio. Ma qui il discorso ci porta a una questione che parrebbe molto lontana dal calcio, ma non lo è. Ci porta in Siria dove i francesi, questo popolo di codardi, hanno voluto fare, per l’ennesima volta, i fenomeni sulla pelle altrui. Sul moralismo ipocrita del cosiddetto Occidente abbiamo scritto tante volte. Adesso c’è la questione delle ‘armi chimiche’ che il dittatore siriano Assad avrebbe usato a Douma. Ma chi fornì a suo tempo a Saddam Hussein le ‘armi chimiche’ perché le usasse contro i curdi e i soldati iraniani? Gli americani e i francesi (oltre ai sovietici, via Germania Est). Compito che il raìs di Baghdad eseguì diligentemente ‘gasando’ in un sol colpo 5.000 civili curdi nella cittadina di Halabja e usando quelle armi contro l’esercito iraniano. In realtà sono stati proprio gli occidentali a violare le poche norme di diritto internazionale che ancora esistono o dovrebbero esistere.
1. A Helsinki nel 1975 quasi tutti gli Stati del mondo firmarono un accordo che sanciva il principio dell’”autodeterminazione dei popoli”. Cioè ogni popolo ha diritto di farsi da sé la propria storia senza pelose intromissioni altrui. Se questo principio fosse stato rispettato nel 2011 la questione siriana sarebbe risolta da tempo: o con la vittoria dei ribelli o con quella di Assad. Adesso al posto di una guerra ne abbiamo sei combattute, si fa per dire, per interposta persona che vede al centro inquietanti Potenze e medio-potenze: Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Turchia, Iran e il sempre, e da sempre, intoccabile Israele.
2. L’Ayattolah Khomeini, in base al Corano, impedì l’uso di armi chimiche al proprio esercito che proprio con armi chimiche veniva attaccato. Il Mullah Omar, sempre in nome del Corano, impedì ai suoi l’uso delle ‘mine antiuomo’. Però Khomeini e Omar sono stati inseriti nella galleria dei ‘mostri’, mentre le ‘anime belle’ siamo noi. Se le cose stanno così io sto con i ‘mostri’.
La guerra siriana mette in luce tutte le contraddizioni dell’Occidente che hanno al centro la Nato. Così vediamo che la Turchia, membro Nato, sta con i russi per poter meglio massacrare i curdi, ingenuo nemico di sempre, sempre utilizzato, all’occorrenza, e sempre, alla fine, gabbato.
La Nato ha avuto un senso fino al 1989, cioè finché è esistita l’Urss, perché gli americani (la Nato è cosa loro) erano gli unici ad avere il deterrente atomico necessario per scoraggiare ‘l’orso russo’ dal tentare avventure in Europa Ovest. Ma oggi la situazione è radicalmente cambiata e i russi più che dei nemici dovrebbero essere considerati, per ragioni energetiche, per vicinanza geografica e anche culturale, dei possibili amici, se non proprio degli alleati, come mi pare abbia detto chiaramente Matteo Salvini.
Se l’Europa vuole mantenere un ruolo nel mondo dovrebbe denunciare il Patto Atlantico e uscirne. Dovrebbe anche riarmarsi autonomamente e non seguire lo sciagurato avventurismo yankee che ci ha provocato solo drammatiche conseguenze, migrazioni incluse. E’ la politica che, con la necessaria cautela, sta seguendo da anni la Germania, in particolare sotto la guida di Angela Merkel. I tedeschi non hanno partecipato all’invasione dell’Iraq né a quella della Libia e, a differenza dell’Italia, non hanno prestato le loro basi, neppur per un utilizzo logistico, all’avventura anglo-franco-americana in Siria.
Il divieto alla Germania, imposto dai vincitori della Seconda guerra mondiale, di possedere l’Atomica è diventato del tutto anacronistico. Non si vede perché la Bomba possa averla Israele e non il più importante Paese europeo e guida inevitabile dell’Europa unita.



sabato 14 aprile 2018

Voce del verbo delinquere



Tutto immaginavamo nella vita, fuorché di dover spiegare proprio a Niccolò Ghedini il nostro titolo di ieri: “Il Delinquente umilia Salvini, insulta i 5Stelle e spera nel Pd”. Nessuno meglio dell’onorevole avvocato di Silvio Berlusconi dovrebbe sapere che il suo cliente è un delinquente. Sia perché, se non lo fosse, non avrebbe così spesso bisogno di lui: come legale e come legislatore. Sia perché almeno Ghedini le sentenze sull’illustre assistito dovrebbe averle lette e capite. È dunque con sommo stupore che leggiamo il suo annuncio di querela perché “i toni e i contenuti della critica politica possono essere più aspri e severi che non nella normale dialettica, ma il titolo e l’articolo della prima pagina del Fatto Quotidiano travalicano qualsiasi limite giuridico e deontologico, sconfinando nella più evidente contumelia e appaiono davvero inaccettabili. Ovviamente saranno esperite immediatamente tutte le azioni giudiziarie del caso”. Mentre lui esperisce, io faccio ammenda: il titolo di ieri era gravemente lacunoso, per motivi di spazio. La giusta definizione di B. è infatti delinquente naturale, o meglio: dotato di una “naturale capacità a delinquere”. Non è una “critica politica”: è un passaggio della sentenza emessa il 26.10.2012 dal Tribunale di Milano nel processo sulle frodi fiscali per 368 milioni di dollari perpetrate per anni da B. facendo acquistare da Mediaset diritti cinematografici dalle major Usa a prezzi gonfiati tramite sue società offshore. 
Sentenza che condannò il Caimano a 4 anni di reclusione per le frodi (7,3 milioni di euro) sopravvissute alla prescrizione, da lui stesso dimezzata – a processo in corso – con la legge ex Cirielli. Sentenza confermata identica dalla Corte d’appello nel 2013 e dalla Cassazione nel 2014, con conseguente espulsione dal Senato in base alla legge Severino e affidamento ai servizi sociali per scontare la pena extra-indulto in una casa di riposo per (incolpevoli) anziani. I giudici di primo grado definiscono B. “dominus di un preciso progetto di evasione esplicato in un arco temporale ampio e con modalità sofisticate” e aggiungono che “non si può ignorare la produzione di un’immensa disponibilità economica all’estero ai danni dello Stato e di Mediaset che ha consentito la concorrenza sleale ai danni delle altre società del settore”. La Corte d’appello ribadisce “la prova, orale e documentale, che Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale per così dire del gruppo B (sistema di società offshore) e quindi dell’enorme evasione fiscale realizzata”.
E continuò a delinquere anche dopo l’ingresso in politica nel ’94 e dopo il generoso via libera della Consob (centrosinistra) nel ’96 alla quotazione in Borsa di una società infognata nei fondi neri e nei bilanci falsi: “Almeno fino al 1998 vi erano state le riunioni per decidere le strategie del gruppo, riunioni con il proprietario Silvio Berlusconi”, “nonostante i ruoli pubblici assunti” dal leader di Forza Italia. Dunque “era riferibile a Berlusconi l’ideazione, la creazione e lo sviluppo del sistema che consentiva la disponibilità di denaro separato da Fininvest ed occulto, al fine di mantenere ed alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere presso conti correnti intestati a società che erano a loro volta amministrate da fiduciari di Berlusconi”. Il delinquente naturale aveva creato quella gigantesca truffa allo Stato e alla stessa Mediaset “per il duplice fine di realizzare un’imponente evasione fiscale e di consentire la fuoriuscita di denaro dal patrimonio di Fininvest e Mediaset a beneficio di Berlusconi”. La Cassazione spiega come Berlusconi, “ideatore e beneficiario del meccanismo del giro dei diritti… continuava a produrre effetti (illeciti) di riduzione fiscale per le aziende a lui facenti capo in vario modo”, “la perdurante lievitazione dei costi di Mediaset ai fini di evasione fiscale” e l’arricchimento illecito di B. che “continuava a godere della ricaduta economica del sistema praticato” con enormi “disponibilità patrimoniali estere”.
Tralasciamo, per carità di patria, le decine di altre sentenze che definiscono il Delinquente anche corruttore prescritto di senatori della Repubblica e di testimoni, finanziatore occulto e prescritto di leader politici, capo di aziende corruttrici della Guardia di Finanza, “privato corruttore” prescritto di magistrati romani, finanziatore per almeno 18 anni di Cosa Nostra con cui aveva stretto un patto d’acciaio fin dal 1974, falso testimone amnistiato e falsificatore di bilanci prescritto o impunito grazie a “riforme” fatte da lui stesso. Quelle sentenze almeno Ghedini dovrebbe conoscerle bene: un po’ perché molte sono frutto di leggi ad personam votate e/o volute anche da lui; un po’ perché l’onorevole avvocato le ha impugnate in appello e in Cassazione per ottenere assoluzioni nel merito, ed è stato quasi sempre respinto con perdite. Però almeno una parola della dichiarazione ghediniana di ieri coglie nel segno: là dove usa l’aggettivo “inaccettabili”. Per lui sono inaccettabili il titolo del Fatto e il mio articolo. Per noi, e per molti italiani (a giudicare dalle ultime elezioni, direi la stragrande maggioranza), è inaccettabile che un Delinquente Naturale conclamato venga ricevuto al Quirinale, rimanga leader di un partito, sia consultato da quasi tutti i partiti politici per il nuovo governo e si permetta (anche perché gli vengono permesse) sceneggiate come quella dell’altroieri nel luogo più solenne della democrazia italiana: la Presidenza della Repubblica. Nei Paesi che – per usare un’espressione a lui cara – “conoscono l’Abc della democrazia”, i delinquenti naturali non vanno al Quirinale. Vanno in galera.


giovedì 12 aprile 2018

Non ci provate: il caso Lula non c'entra niente con B.



Quello di Luiz Inacio Lula, il popolarissimo ex Presidente socialista del Brasile ora in carcere per un’accusa di corruzione tutta da provare e probabilmente, con ciò, impedito a partecipare alle prossime elezioni presidenziali brasiliane, non è un caso giudiziario, è un caso politico (come non è un caso giudiziario ma politico quello del Presidente indipendentista catalano Puigdemont costretto a riparare all’estero per cercare di sfuggire a un mandato di arresto del governo di Madrid). E’ l’ennesimo tentativo, di ispirazione americana, già riuscito con Dilma Rousseff, di spazzar via una volta per tutte la rivoluzione ‘chavista’ dal Sudamerica. Di quella rivoluzione sopravvivono Evo Morales in Bolivia e, per ora, Nicolàs Maduro in Venezuela. Diciamo per ora perché col Venezuela è in atto il consueto giochetto: prima si stringe il paese in una morsa economica, poi si fomentano rivolte popolari e si enfatizzano le repressioni del governo dando loro grande risalto sulla stampa internazionale anche se sono lontanissime da quelle del nostro alleato Nato, la Turchia, o da quelle di un nostro altro alleato, anche se non sta nella Nato, il generale tagliagole egiziano Abd al-Fattah al-Sisi. Con la Serbia di Slobodan Milosevic che era rimasto l’ultimo Paese socialista in Europa, il giochetto fu solo un poco diverso: prima si armò l’indipendentismo albanese-kosovaro e poi si decise che fra le ragioni di questo indipendentismo e quelle della Serbia a mantenere l’integrità del proprio territorio esistevano solo le prime. E ci furono i 72 giorni di bombardamenti su una grande e colta Capitale europea come Belgrado. Il socialismo non ha diritto di esistere nel mondo globalizzato. E non parliamo del comunismo, vedi Corea del Nord. Solo le Democrazie hanno diritto di esistere e se gli avversari sono di natura diversa da quella socialista si va ancor più per le spicce: li si elimina ‘manu militari’ come è avvenuto in Afghanistan (2001), in Somalia (2006/2007), in Libia (2011). Il prossimo sarà il Venezuela di Maduro.
Ma torniamo a Lula. La sinistra italiana, svegliatasi per un attimo dal suo decennale torpore, si è schierata a favore di Lula con un documento firmato da alcuni dei suoi più importanti esponenti, da Prodi a D’Alema alla Camusso a Bersani, a Epifani. Nello stesso senso si era espresso pochi giorni fa, proprio sul Fatto, un ritrovato Fausto Bertinotti. Fa piacere che la sinistra italiana, come chiedeva Nanni Moretti, ricominci a dire, se non a fare, cose di sinistra.
Naturalmente non poteva mancare, in Italia, il tentativo di equiparare il caso Lula con quello di Silvio Berlusconi: l’eliminazione dell’avversario politico per via giudiziaria. Ci ha pensato per primo Paolo Mieli con un lungo editoriale sul Corriere della Sera (10.4). A parer mio i due casi, quello di Lula e quello di Berlusconi, non sono paragonabili. Berlusconi non è un sospettato, è stato condannato in via definitiva da un tribunale della Repubblica e definito “delinquente naturale”. Si è salvato da accuse molto più gravi di una pur grave evasione fiscale (corruzione di magistrati, di testimoni, compravendita , con denaro, di parlamentari) grazie a nove prescrizioni e a leggi ad personam emanate quando era presidente del Consiglio. E’ stato degradato da quel Parlamento di cui tutti, a cominciare da Paolo Mieli, ci enfatizzano la centralità in una democrazia. Ma nell’articolo di Mieli c’è pure un sottotesto: quello di delegittimare definitivamente anche le inchieste di Mani Pulite che sono state l’ultimo tentativo di richiamare anche la classe dirigente del nostro Paese a rispondere a quelle leggi che noi tutti siamo tenuti a rispettare. Tentativo fallito. Ora ci riprovano i Cinque Stelle. Ma tutti noi abbiamo assistito e assistiamo al fuoco di portata contro questo Movimento che ha come suo valore fondante il ripristino della legalità.
Secondo Mieli i princìpi sono princìpi e non possono essere scalfiti. Anche per noi e lo abbiamo scritto mille volte. Peccato che questi princìpi non solo non sono stati semplicemente scalfiti ma sfondati, in Italia, per altrettali mille volte. Basta pensare a tutte le leggi liberticide, antidemocratiche, totalitarie di cui è zeppo il nostro Codice penale. E se guardiamo allo scenario internazionale vediamo che nel 1992 tutte le democrazie occidentali, compresa la nostra, hanno appoggiato il colpo di Stato contro il Fis che aveva vinto le prime elezioni libere in Algeria e più recentemente hanno appoggiato, anzi esaltato, l’ancor più grave colpo di Stato di Al Sisi contro i Fratelli Musulmani che avevano vinto le prime elezioni libere in Egitto. La democrazia vale quindi solo quando vinciamo noi o i nostri ‘amici’. E anche l’inviolabilità dei princìpi. E’ anche per questo che Paolo Mieli e tutti i Mieli che popolano il nostro Paese non hanno, ai nostri occhi, alcuna credibilità. Sia quando parlano di Lula, sia quando parlano dell’eterna vittima Silvio Berlusconi.



mercoledì 11 aprile 2018

Le fake news in un mondo visto alla rovescia e il ‘68



Alcune volte la politica innovativa si nutre di fantasie, altre volte appare soltanto bizzarra.
Per un momento, in un’azione coordinata, l’ex “Presidentessa” della Camera e l’allora “Ministra” della Pubblica Istruzione italiana ebbero l’idea di avviare una campagna contro le fake news incentrata principalmente sui giovani.
L’operazione si prefiggeva di educare genitori e nonni dal basso; ovvero attraverso “azioni verità” i ragazzi in età scolastica avrebbero dovuto inventare strumenti per svelare, a parenti conviventi più maturi, insidie e falsità artatamente promosse nell’informazione e in particolare nel web.
L’idea invertiva sostanzialmente la cultura da sempre consolidata, incentrata sulla saggezza degli anziani che, con le esperienze di vita vissuta hanno, da che è nato il mondo, cercato di trasmettere alle nuove generazioni gli insegnamenti di vita.
Nel caso nessuna delle due promotrici ebbe a riflettere però sul fatto che, allo scopo di limitare e ridurre l’efficacia delle notizie “fake”, magari sarebbe stato meglio o convenuto di più concentrarsi sui programmi educativi volto a preservare intanto i giovani, con una riforma dell’ordinamento scolastico vigente; se del caso recuperando anche aspetti dismessi della vecchia “Riforma Gentile”.
Più che fornire decaloghi a studenti “in formazione” sarebbe potuto tornare più utile magari stimolare e  incentivare intanto le classi docenti. Riformando anche programmi non più in linea con i tempi ovvero informatizzando al meglio possibili metodi d’insegnamento. Chissà?
In verità il progetto delle due “strateghe” non ebbe ad avere fortuna, non ultimo per i seri dubbi sul fatto che giovani potessero realmente riuscire ad “educare” genitori e nonni; vuoi per la poca duttilità dei vecchi e anche per il sempre più crescente  livello di incomunicabilità generazionale.
Magari era stato di certo buono l’intento originario volto alla “trasparenza” ma a ben pensarci chi di loro due aveva fino ad allora affrontato politicamente  le “fake vere” attuate da “fake women” e “fake man” che abbondavano nella società reale e che ci amministrano nell’ombra in una politica intrisa di tanti privilegi per loro, negati ai più?
L’operazione, in effetti, appariva più come una estrema resa nei confronti degli “utilizzatori finali” di un “web democratico” - divenuto ormai, senza regole, anarchico e incontrollabile - più che una efficace e lucida iniziativa volta a rimuovere a monte i molestatori e i tanti faccendieri.
Del resto il compito sarebbe stato pure improbo se si considera che anche l’acclamato Francesco oggi resta limitato nei viaggi "apostolici", a proclamare condivisibili sermoni di propaganda che non intaccano però minimamente nè la società contemporanea nè la sua casa, abbandonando ogni velleità di riforma di una “chiesa” traballante e corrotta.
La verità è sempre una, la stessa e sempre si ripete.
I giovani osservano e se a noi sembrano distratti è perché non curiamo un dialogo, è perché loro non si riconoscono nel mondo che noi ci siamo costruiti, è perché non vi trovano spazi, anche per la pochezza/carenza di quegli stessi ideali che la nostra generazione ha maldestramente pure tradito.

© Essec


Prendere a pugni un professore è meno faticoso che educare i propri figli



Palermo, Istituto Abba-Alighieri, un professore viene aggredito dal padre di un’alunna perché colpevole (secondo il racconto della ragazzina) di aver “alzato le mani” contro di lei. Il professore finisce al pronto soccorso e la ragazzina ritratta tutto, sostenendo di aver subito solo dei rimproveri.
Torino, Istituto Russel-Moro,un insegnante punisce un alunno per un ritardo mandandolo in biblioteca e il genitore organizza una “spedizione punitiva” e con altri due parenti si presenta a scuola e picchia il professore colpendolo con un pugno alla mandibola.
Avola, Istituto Comprensivo Elio Vittorini, stavolta gli aggressori dell’insegnante sono entrambi i genitori che decidono di “punire” il professore con calci e pugni davanti a una classe di dodicenni per aver rimproverato, a loro dire, in maniera troppo “aggressiva” il loro figlio.
Credetemi, potrei continuare per un bel pezzo con questo vergognoso elenco, perché i casi di aggressione da parte di genitori “contrariati” nei confronti degli insegnanti sono veramente tanti.
Puntualmente mi torna alla mente la mia adolescenza, i colloqui coi genitori e il terrore che avevo di mio padre quando tornava a casa dopo aver parlato coi professori. Mi bastava guardarlo un secondo per capire com’era andata la chiacchierata e per quanto pregassi tutti i santi del paradiso (allora pregavo, sì), mai una volta mio padre si schierava dalla mia parte. Mai.
Forse il suo era un modo un po’ estremo di trattare la questione Francesca-scuola, ma vi assicuro che nel 99% dei casi, la colpa era davvero mia. Ero abbastanza scaltra e mi bastava poco per apprendere, solo che studiavo poco e qualche volta (più di qualche) preferivo una bella gita al mare con le amiche piuttosto che cinque ore di lezione. Ma il punto è che per mio padre l’insegnante era depositario della verità assoluta, una figura di fondamentale importanza nella società e perciò degna del massimo rispetto.
Ora, va da sé che non sempre i professori sono depositari della verità assoluta e che quelli che fanno ancora con passione il loro lavoro sono pochi, ma per mio padre – come per tutti i genitori della sua generazione – la figura dell’insegnante (insieme a quella del prete e del medico) era sacra. Pensare che, dopo un colloquio col professore di matematica che raccontava a mio padre l’ennesima mia figuraccia alla lavagna, lui decidesse di difendere la mia totale incompetenza in fatto di numeri sferrandogli un bel destro sul naso, era qualcosa che non apparteneva nemmeno ai miei pensieri più reconditi. E se solo mi azzardavo a parlar male di un professore, a insultarlo davanti a lui, le botte le prendevo io! Esagerato? Forse, ma quando ci penso non posso fare a meno di chiedermi dove sia finito quel rispetto.
Poi mi viene in mente il parco giochi e il papà che sghignazza se il figlio fa il bulletto con gli altri bambini o la mamma che suggerisce alla bimba di occupare in fretta l’altalena prima che lo facciano altri bambini e di non scendere sennò “ti rubano il posto”. Mi viene in mente una bella tavolata di un ristorante in cui gli adulti ridono e scherzano tra loro, mentre i figli scorrazzano come invasati per il locale disturbando gli altri tavoli e se qualcuno prova a rimproverarli la mamma lascia la sua allegra compagnia per puntualizzare stizzita che i figli “sono bambini e che i bambini devono giocare”. Mi viene in mente un video assurdo trovato on line, in cui qualcuno filma un viaggio di otto ore dalla Germania a New York, durante il quale un bimbo di tre anni urla ininterrottamente, rendendo il volo insopportabile a tutti i passeggeri.
Ecco dov’è finito quel rispetto. Nel cesso. Nella folle convinzione che giustificare i figli significhi comprenderli, si è passati da un estremo all’altro. Oggi si preferisce parteggiare per i figli a prescindere da tutto, senza nemmeno tentare di chiarire le cose e di capire realmente ciò che è accaduto e perché. Questo dà al genitore l’illusione di essere vicino al proprio figlio, di comprenderne i reali bisogni, scagionandolo anche quando meriterebbe una bella ed esemplare punizione.
La famosa frase “se cadi e ti sporchi ti dó il resto!” è ormai obsoleta, perché oggi “se cadi e ti sporchi è colpa di quel cretino che ha asfaltato male la strada. Chissà a che pensava mentre lavorava!”. Eccesso di protezione? Affatto. Semmai il contrario. Sono vittime di un’epoca frenetica, individualistica e competitiva nella quale ai genitori costa meno fatica assecondarli, piuttosto che occuparsi attivamente di loro. Capita poi che qualcuno, magari un professore, cerchi di rimediare a questa mala educazione assumendosi la responsabilità di correggere e rieducare i ragazzi al rispetto delle regole, evidenziando così il fallimento della figura genitoriale. Fallimento che ovviamente il genitore non può ammettere, a se stesso ma soprattutto agli altri, perciò reagisce, nei casi più estremi, ricorrendo alla violenza.
Che tipo di insegnamento potranno trarre degli adolescenti che vedono il proprio genitore picchiare selvaggiamente il loro professore? Sicuramente che tutto è concesso, che il rispetto per gli altri è un’opzione che si può anche non prendere in considerazione, se questo danneggia i propri interessi, che se ti dicono che sei un asino in geometria e che sei maleducato è colpa del professore stronzo che ti odia e quindi una bella lezione la merita lui. Papà dice che è giusto così.

Francesca Petretto (Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2018

 

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La fotografia è in genere un documento, la testimonianza di un ricordo che raffigura spesso persone e luoghi, ma talvolta può anche costituire lo spunto per fantasticare un viaggio ovvero per inventare un racconto e leggere con la fantasia l’apparenza visiva. (cliccando sopra la foto è possibile visionare il volume)

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Monte Pellegrino visto da casa natia di Acqua dei Corsari

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