"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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Fotogazzeggiando: Immagini e Racconti

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giovedì 26 luglio 2018

Tifo, più dolori che gioie: il calcio ci rende tutti un po' più tristi



Cosa ci spinge a seguire le gesta della nostra squadra del cuore? Insomma: perché tifiamo? Di certo non è per essere più felici, almeno secondo Peter Dolton e George MacKerron, due economisti dell'Università del Sussex che in un recente report realizzato per il National Institute of Economics and Social Research hanno indagato gli effetti che ha sull'umore la passione per uno dei più diffusi e apprezzati sport del pianeta: il calcio. Al netto di vittorie e sconfitte, dunque, quanta felicità ci regala lo sport? Purtroppo per gli appassionati, guardando i risultati dello studio il saldo sembra essere negativo: prendendo in considerazione i supporter di entrambe le squadre, a fine match una partita di calcio tende a produrre quasi due volte più tristezza che gioia, lasciando il mondo un po' meno felice di quanto non fosse prima del fischio di inizio.
A rendere possibile la ricerca - spiegano i due economisti - è stato un set di dati molto particolare: quasi tre milioni di risposte raccolte negli ultimi anni dall'app "Mappiness", un progetto della London School of Economics pensato per monitorare gli effetti del lavoro e dell'ambiente sull'umore dei cittadini inglesi. Fondamentalmente, si tratta di una app gratuita che a intervalli casuali chiede all'utente di valutare il proprio stato di felicità, e di fornire alcune informazioni sulle circostanze, il luogo e la compagnia in cui si trova. In questo modo, Dolton e MacKerron hanno potuto monitorare l'umore di oltre 32mila persone lungo un arco di diversi anni, mettendo in relazione gioia e tristezza con i risultati della premier league e con la fede calcistica degli utenti.
Stando alla loro analisi, al termine di una partita di calcio i fan della squadra vincitrice guadagnano  3,9 punti di felicità, in una scala che va da 1 a 100. Per fare un paragone, si tratta dello stesso effetto che provocano l'ascolto della musica e simili passatempi rilassanti. I perdenti invece si trovano in una situazione molto più estrema: l'umore dei fan in questo caso peggiora infatti di 7,8 punti, esattamente quanto si registra al termine di una estenuante giornata di lavoro o di studio, o mentre ci si trova nel bel mezzo di una lunga fila. E se gli effetti della vittoria durano circa un'ora, quelli di una sconfitta svaniscono ben più lentamente, visto che l'umore dei perdenti resta pessimo anche a tre ore dal termine della partita.
Per i ricercatori, le conseguenze di questi risultati sono inequivocabili. Prendiamo un match ideale, in cui entrambe le squadre hanno lo stesso numero di supporter: a fine partita la tristezza tra i perdenti sarà quasi due volte superiore alla felicità provata dai vincitori. E aggiustando i risultati tenendo a mente che gli effetti negativi sono ben più lunghi di quelli positivi, un match di calcio produce circa quattro volte più tristezza che felicit.
I tifosi sembrano dunque irrazionali (se non masochisti) nel loro amore per un'attività che, nella maggior parte dei casi, non fa altro che renderli più tristi. Ma sono gli stessi autori della ricerca a proporre alcune possibili spiegazioni alternative. A partire dai limiti intrinseci dei dati utilizzati dal loro studio, che aiutano a monitorare l'umore preponderante al termine di un incontro, ma non dicono nulla sui piccoli rush di emozione e i momenti di gioia che si sperimentano quando la propria squadra segna un gol, quando il proprio portiere para un rigore, o si assiste ad azioni di gioco particolarmente emozionanti. Piccoli momenti di felicità che potrebbero controbilanciare gli effetti di una sconfitta.
In alternativa, è possibile che i tifosi non siano particolarmente affidabili nel valutare le chance del proprio team. E partendo sempre con la convinzione che la propria squadra abbia ottime probabilità di vittoria, non si rendono conto di quanti dispiaceri gli diano in realtà le (magari frequenti) sconfitte subite. O ancora: è possibile che il tifo sia di per sé un'attività che dà dipendenza, o che più della gioia della vittoria i tifosi cerchino altre esperienze, come il cameratismo che si crea sugli spalti, o l'approvazione dei propri amici o del proprio gruppo sociale. Comprendere le ragioni del tifo, insomma, non è un lavoro da poco, e non basterà un unico studio per avere una risposta definitiva. L'unica certezza, almeno per ora, è che una sconfitta brucia molto più di quanto non faccia gioire una vittoria.

Simone Valesini (La Repubblica, 25 luglio 2018

lunedì 23 luglio 2018

Oltre la “regola dei terzi” e la “spirale aurea”





Stabilito che la fotografia è un sistema che riproduce evidenze fisiche percepibili, fino a che punto essa stessa può inglobare il preesistente similare, quando cioè può includere un elemento che è stato già frutto di fotografia o altro? 
Puristi affermano che quanto è stato già prodotto in modo definito non può essere modificato ed ancor meno essere assorbito in analoghe successive produzioni, altri asseriscono invece che tutto quanto rappresentabile può liberamente costituire elemento integrabile in creazioni successive. 
Per quanto evidente si escludono le ovvie operazioni di clonazione o di semplici riproduzioni in copia di un prodotto definito e commercialmente protetto. 
Secondo i sostenitori della seconda scuola di pensiero, quindi, ogni cosa che è parte di un qualsiasi panorama che si presenta alla nostra visione può costituire elemento utile e assemblabile in un successivo “confezionamento” visivo; ancorchè e indipendentemente dal fatto che possa rispondere alle regole canoniche compositive o a semplici sensazioni percepite e interpretate, nel caso, dal fotografo di turno. 
La “regola dei terzi” e la “spirale aurea” sono per i fotografi ortodossi un limite “teologico”, anche se gli stessi non disdegnano mai stupore ed interesse dinanzi a “prodotti del diavolo” che sfuggono alle loro ferree regole religiose. 
In ogni modo l'apprendimento dei linguaggi codificati e la conoscenza delle regole assicureranno padronanza nelle scelte operative che consentiranno di prediligere la strada migliore per raccontare una sensazione attraverso uno scatto personalizzato. 
Questa volta si propone un’immagine particolarmente emblematica, che si basa essenzialmente sulla somma di altre immagini in un’operazione compositiva che include, per l'osservatore, ed in qualche modo, anche un “loop infinito”. 
La foto scelta è un esempio che estremizza quanto fin qui detto circa il riciclo di produzioni altrui, per il fatto che associa due elementi autonomamente preconfezionati che di per sé costituiscono prodotti grafici circoscritti ma che, con la loro collocazione nello spazio del fotogramma rispondono pienamente sia alla regola dei due terzi che alla stessa teoria numerica di Fibonacci (Al riguardo può tornare molto utile la lettura dell'articolo postato nel febbraio 2013 dal fotogiornalista Girolamo Monteleone nel suo sito web "Blissful blog").
Una lettura da sx a dx della fotografia proposta fa risultare come compositivamente l'insieme della stessa risponde alla regola dei terzi, poichè il volto raffigurato nella locandina è posto nel quadrante superiore, mentre il viso della esotica modella del murales corrisponde per grandi linee alla famosa "chiocciola aurea" (immaginiamole sovrapposte alla griglia e alla spirale aurea illustrate nell'articolo pubblicato da "Mora-Foto.it" ed al quale si fa rimando).
La rappresentazione in questione costituisce pertanto un ulteriore metodo creativo che, nel caso, mette in relazione elementi autonomi in un unico insieme, attivando pure una interazione dinamica tra figure statiche, in origine, assolutamente indipendenti. 
L'interazione è data dagli sguardi presenti nei soggetti rappresentati: sia nel ritratto della locandina che in quello esotico della ragazza col fiore all'orecchio del murales. 
Occorre precisare che non si tratta di un fotomontaggio. Entrambi gli elementi erano presenti nella piazza: nello specifico la locandina era affissa ad una palizzata di un cantiere, il murales nella vecchia saracinesca dello stabile di un edificio attiguo fatisciente. 
Si tratta inequivocabilmente di un classico “riciclo” d’immagini prodotte prima da altri soggetti per scopi diversi e che il fotografo rende proprie assemblandole in un unicum che ha intuito e scelto nel momento. 
Qualcuno potrebbe mai obiettare che potremmo essere in presenza di un furto d’immagine perpetrato nei confronti di altri autori? Direi proprio di no, anzi potrebbe essere definito come un’operazione tipica di “working in progress culturale”, secondo la logica che la cultura è e sarà sempre un continuo passaggio di testimone fra generazioni di artisti. 
Ancora una volta, quindi, con un pò di fantasia creativa, chi fotografa può riuscire a comporre sempre nuove storie, cogliendo qualsiasi spunto, rendendole autonome e facendole vivere nell’immaginario con la speranza/ambizione che anche l’osservatore finale riesca a cogliere anch’esso quanto lui ha voluto vedere. 
Buona luce a tutti.

© Essec




Trattavia, le motivazioni della sentenza vanno lette ricordando stragi neofasciste, golpe e P2


Durante il microfono aperto che Radio Popolare ha mandato in onda nella mattinata di giovedì 19 luglio, dedicato all’anniversario della strage di via D’Amelio, un ascoltatore ha chiamato esprimendo una sollecitazione a giornalisti e cittadini: non arroccarsi su singoli eventi o su singoli decenni, trattandoli come se fossero compartimenti stagni, ma ampliare l’ottica, dare una lettura organica al recente passato italiano. 
L’ascoltatore ha ragione e le motivazioni della sentenza a conclusione del processo di primo grado sulla trattativa Stato-mafia vanno proprio in questo senso: non limitarsi a un periodo, ma allargare la lettura, raccogliere elementi in apparenza frutto di disegni criminali differenti – come quelli scaturiti dalla criminalità politica – per cogliere elementi di raccordo realmente esistenti.
In quest’ottica emerge un quadro che non è il risultato di un unico disegno delinquenziale, frutto di un potente burattinaio, ma che è il fronte più evidente di un’alleanza tra realtà eterogenee, come sembrano essere mafie, estremismo neofascista, apparati d’intelligence che, sulla base di interessi convergenti, “deviano” seguendo input politici ancora da inquadrare nel dettaglio, e massoneria che, al pari, dimentica i postulati della fratellanza in nome di qualcosa di diverso. Ecco alcuni aspetti. 
Le basi Nato di Verona, i neofascisti e Gelli 
Si chiamava Ftase ed era il comando delle forze terrestri alleate del Sud Europa con base a Verona. Da qui – hanno accertato le indagini sulla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969), della questura di Milano (17 maggio 1973) e di piazza della Loggia (28 maggio 1974) – erano passati elementi di rilievo di Ordine Nuovo, organizzazione di estrema destra sciolta per ricostituzione del partito fascista a fine 1973 e coinvolta negli attentati più tragici del periodo che va sotto l’espressione di strategia della tensione. Addirittura – secondo quanto disse il generale Vittorio Emanuele Borsi di Parma al giudice istruttore Carlo Mastelloni che indagava sul controverso disastro di Argo 16 (un aereo dei servizi italiani precipitato il 23 novembre 1973 su Marghera forse per una manomissione del Mossad) – la Nato usava gli ordinovisti per “compiti di guerriglia e di informazione in caso di invasione”. 
Borsi di Parma per due anni fu comandante generale della guardia di finanza. Ma dopo l’arresto del boss corleonese Luciano Liggio, avvenuto a Milano il 16 maggio 1974 a valle di un’inchiesta istruita dal giudice Giuliano Turone, dovette lasciare il suo incarico nonostante le rassicurazioni di riconferma del governo e si vide subentrare il generale Raffaele Giudice, più avanti finito nello scandalo dei petroli e risultato iscritto, dopo la perquisizione del 17 marzo 1981, nella loggia P2 di Licio Gelli. 
Quest’ultimo è proprio colui che, dopo che lo affermarono altri procedimenti giudiziari e la Commissione presieduta da Tina Anselmi, è stato anche per la sentenza sulla trattativa il rilevante trait d’union tra l’eversione di destra e la mafia, oltre che colui che, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta – come racconta l’inchiesta Sistemi criminali, poi archiviata - aveva dato vita alla stagione delle leghe meridionali che perseguivano vetuste, ma mai tramontate – velleità separatiste con esponenti del neofascismo, come l’ex vertice avanguardista Stefano Delle Chiaie, della ‘ndrangheta calabrese e di cosa nostra siciliana. Non a caso di ufficiali della P2 si parla molto nelle pagine della sentenza sulla trattativa Stato-mafia. 
I tentativi di golpe tra il 1970 e il 1974 
A quella schiera apparteneva il direttore del Sid Vito Miceli, coinvolto nell’inchiesta sul progetto eversivo della Rosa dei Venti (poi ne uscì), che aveva come fiduciario un colonnello il cui nome, nonostante non fosse nell’elenco degli affiliati di Gelli, sarebbe tornato spesso, Federico Marzollo, comandante del raggruppamento Centri Controspionaggio. Ma al gruppo degli aderenti alla loggia occulta apparteneva anche un altro generale dei servizi segreti, Gianadelio Maletti, condannato per i depistaggi per la strage di piazza Fontana e riparato in Sudafrica, dove vive tuttora. I due, Miceli e Maletti, non stavano dalla stessa parte. Anzi, tra loro e i loro uomini c’era una vera e propria faida, determinata anche da dispute internazionali, divisi – come lo erano i rispettivi riferimenti politici – tra compiacenze verso le istanze della causa palestinese e, per converso, la fedeltà allo Stato di Israele. 
Anche il prefetto Mario Mori, condannato in primo grado a Palermo a 12 anni e allora giovane capitano dei carabinieri che negli anni in cui prestò servizio al Sid usava come nome di copertura l’identità di Giancarlo Amici, finì in mezzo a diatribe di questo genere. Quando giunse al servizio, il 6 agosto 1972, Maletti manoscrisse sulla lettera di trasferimento che recava la data del 3 luglio precedente una frase: “Bene perdinci, quando arriverà?“. Nel corso dei due anni e mezzo che trascorse tra le barbe finte, il futuro prefetto riceve anche un paio di encomi, uno dei quali per aver sventato un attentato contro il premier israeliano. 
Lasciò infine il Sid il 10 gennaio 1975 per una ragione ufficiale: intemperanze caratteriali che lo avrebbero fatto finire a comandare il nucleo radiomobile di Napoli. Ma quando ciò avvenne, fu fatta pressione sull’Arma dei carabinieri – e l’Arma eseguì, nonostante l’irritualità della raccomandazione – perché gli fosse esclusa come sede di nuova assegnazione Roma, dove tornò solo il 16 marzo 1978, giorno della strage di via Fani, che decretò l’inizio del rapimento del presidente Dc Aldo Moro e l’annientamento della sua scorta. In realtà, in base alla documentazione vagliata dalla Corte d’assise di Palermo, l’allontanamento dal Sid e dalla capitale sarebbe legata all’inchiesta sul golpe Borghese. 
La Rosa dei Venti e la radicalizzazione dell’estrema destra 
Non secondarie sciagure per il Sid arrivano poi nel 1974 – l’anno in cui avvennero due stragi, oltre a quella di Brescia c’è anche l’Italicus (4 agosto) -, quando il giudice istruttore di Padova, Giovanni Tamburino, raccolse un’inchiesta iniziata a La Spezia e andò avanti nello scandagliare i progetti destabilizzanti della Rosa dei Venti. Il magistrato, oltre a essere arrivato a Miceli (per la prima volta in Italia veniva arrestato il direttore dei servizi segreti), chiese una fotografia del capitano Mori che tuttavia giunse dopo che l’indagine fu trasferita da Padova a Roma per confluire in quella sul golpe Borghese del dicembre 1970. La foto, trovata ancora spillata decenni più tardi – non sortì alcun effetto. 
Intanto, dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo – conseguenza di una delle due inchieste condotte a Roma dal sostituto procuratore Vittorio Occorsio, poi ucciso nel 1976 dal nero Pierluigi Concutelli mentre indagava (anche) sui rapporti tra P2, sequestri di persona e banda dei marsigliesi – l’estrema destra era in fermento. Lo dimostrano due riunioni. La principale – oggetto di attenzione da parte del Sid e, secondo un riconoscimento, dello stesso Mori – avvenne tra il 27 febbraio e il 1° marzo 1974 sulla riviera adriatica, all’hotel Giada di Cattolica, quando fu deliberato il nuovo “impulso operativo” dell’estrema destra. 
L’attacco fascista ai beni culturali 
Nel periodo successivo alla riunione di Cattolica, Ordine Nuovo Veneto ebbe un’idea, poi ripresa con le stragi di mafia del 1993: colpire i beni culturali. Ne parlò agli inquirenti un ordinovista bolognese, Umberto Zamboni, rappresentante di una delle aree più oltranziste della formazione neofascista. L’idea era quella di puntare sulle opere d’arte e fu ripresa, guarda caso, da esponenti dell’estrema destra e in particolare da uno, il reggiano Paolo Bellini, il militante di Avanguardia Nazionale di Delle Chiaie divenuto successivamente killer della ‘ndrangheta. Condannato inizialmente (ma non solo) per furto di mobili antichi, fu arrestato sotto il falso nome di Roberto Da Silva e conobbe il mafioso Antonino Gioè, morto il 28 luglio 1993 all’apparenza suicida, spiegandogli quanto sarebbe stato importante puntare proprio sui beni culturali, poi in effetti presi di mira. Una coincidenza? 
Ma nella storia di Bellini, ampiamente scandagliata dalle pagine giudiziarie e da quelle di cronaca, c’è un aspetto inedito ai resoconti giornalistici. Per illustrarlo occorre fare una premessa. Il 2 agosto 1980, quando esplose una bomba alla stazione di Bologna lasciando a terra 85 morti e ferendo oltre 200 persone, nello scalo ferroviario del capoluogo emiliano c’era uno strano personaggio che si chiama Sergio Picciafuoco e che restò leggermente ferito nella deflagrazione. Disse di essere stato lì perché a Modena aveva perso il treno per Milano e allora aveva ripiegato su Bologna nel tentativo di raggiungere il capoluogo lombardo. Ma una volta scoppiata la bomba, incurante delle lesioni riportate, aveva dato una mano nei soccorsi, per quanto solo un’ora più tardi circa risultasse tra le persone che ricevettero cure all’ospedale Maggiore. 
Picciafuoco e Bellini 
La versione di Picciafuoco non resse al vaglio degli inquirenti e, complice anche un documento d’identità falso che riconduceva direttamente agli ambienti del neofascismo e nello specifico del neofascismo siciliano in odor di servizi segreti e di logge compromesse negli anni Settanta con la destabilizzazione della Repubblica parlamentare, finì a processo per la strage di Bologna venendo condannato in primo grado. Poi la sua posizione fu stralciata e, giudicato di nuovo a Firenze, finì assolto con il successivo avallo della Cassazione. 
Picciafuoco – che al giornalista Riccardo Bocca disse di essere stato malmenato nei pressi di Firenze da individui che poi avrebbe ricollegato a elementi della banda della Uno Bianca (6 componenti, di cui 5 poliziotti, che nei 7 anni e mezzo in cui agirono indisturbati fecero 24 morti in rapine che, per una buona parte, non fruttarono una lira o quasi) – a sorpresa lo ritroviamo nella sentenza di Palermo. Accade perché l’11 ottobre 1990 l'”estremista” Sergio Picciafuoco – che sarà sentito il prossimo autunno nel processo in corso a Bologna all’ex Nar Gilberto Cavallini, accusato di concorso nella strage alla stazione – arrivò, da informazioni della Digos, a Reggio Emilia salendo su un’auto intestata alla sorella di Paolo Bellini e con lui trascorse la mattinata del 12 ottobre. 
Bellini, in quei giorni, aveva subito l’incendio dell’auto e – si legge nella sentenza – “non risulta che indagini condotte in proposito abbiano portato a chiarire esaurientemente l’episodio, né ad individuare il nesso che, date le circostanze, (porta a) coincidenze temporali (…) decisamente singolari“. Dunque una domanda, l’ennesima, resta: perché Bellini e Picciafuoco si incontrarono alla vigilia dell’ideazione della campagna stragista d’inizio anni Novanta? 




domenica 22 luglio 2018

Le fotografie ci stanno sempre intorno




Questa foto ha avuto un riconoscimento a una estemporanea collegata ad un meeting fotografico.
Tema assegnato era quello della sicilianità, da raccontare con una immagine che non ricorresse a stereotipi usuali. 
In questi casi fantasia e occasionalità, anche il breve tempo assegnato per la presentazione del file da produrre, la fanno da padrone.
Ovviamente tempo e spazio attuativo imponevano che non ci si potesse allontanare di molto dal luogo dell'evento.
Può quindi capitare di leggere già nello stesso spazio ospitante lo spunto per una possibile interpretazione e soluzione al tema.
Nello specifico, osservando distrattamente le foto esposte si è avuta occasione di vedere ripetuto sullo sfondo l'immagine catturata e proposta con la sua fotografia dal fotografo, scena che stigmatizzava una specificità caratteristica della sicilianità, quale, appunto: "la gestualità". 
La foto premiata che si propone costituisce quindi un esempio e una dimostrazione pratica che evidenzia come di regola le fotografie ci stanno sempre intorno, vivono di luce propria e sta solo a noi allenare gli occhi della mente al riconoscerle e al saperle nel caso catturare.
Buona luce a tutti.

© Essec

giovedì 19 luglio 2018

Quando basta una sola immagine.



Per esporre un racconto si ricorre a una voce narrante ma per renderlo stabile e far sì che ognuno lo legga e lo immagini nel tempo e nello spazio a propria dimensione, genericamente si ricorre alla scrittura.
In verità esistono altre metodologie adatte allo scopo ed una di queste è certamente la filmografia.
La fotografia poi, in particolare, consente di comporre più facilmente con elementi che consentono formulazioni di messaggi completi.
Ci sono diverse tecniche al riguardo e fra queste si segnalano gli slide show e i portfolio.
Entrambe si compongono di una serie d’immagini, talvolta associate anche ad una colonna sonora, realizzate con softweare dedicati nel primo caso, con la semplice stampa di un numero limitato di fotografie da sottoporre a visione nel secondo.
In ogni modo, la sequenza presuppone un’introduzione al tema, uno svolgimento del racconto e una chiusura finale.
Costante è al riguardo cercare di mantenere l'attenzione dell'osservatore, magari inserendo immagini migliori nell'introduzione, per invogliare al prosieguo, e nel finale per fissare meglio l'efficacia del messaggio voluto.
Tutto quanto premesso costituisce di certo una evoluzione della fotografia e la filmografia diffusa è oggi una prova evidente della efficacia evocativa di sequenze più o meno elaborate.
Direttori di fotografia e tantissimi altri esperti, giocano su luci, tempi e con colonne sonore, per suscitare sensazioni, evocare ricordi, trasportare l'osservatore nell’orbita del racconto.
Ma potremo mai mettere in discussione la narrazione che si riesce a dare con una singola fotografia?
Quanti di noi continuano a perdersi e a fantasticare dinanzi a una foto di Henry Cartier Bresson o di altri importanti fotografi di livello similare?
E' certo molto più complicato comunicare messaggi attraverso una sintesi concettuale, una poesia, una frase, un solo fotogramma ma fortunatamente esistono ancora soggetti in grado di fare ciò.
A scopo esemplificativo voglio in qualche modo cercare di illustrare questo con l'immagine che ho messo in copertina.
Possiamo dire che di regola le finestre incorniciano panorami e più in generale vedute esterne, aprendo verso la luce, ma se ribaltiamo il punto di osservazione siamo sicuri di non potere raccontare anche così un mondo altrettanto ampio?
Come detto, le finestre presuppongono fonti luminose, allargano amplificando orizzonti, ma se dal di fuori volgiamo lo sguardo ad un interno che può succedere?
Nell'esempio scelto si ha una visione profonda della solitudine; si osserva un’anziana signora, seduta davanti a un tavolo, intenta forse a consumare un pasto, comunque sola o se vogliamo con la compagnia virtuale di un personaggio che appare nello schermo della sua tv accesa. Il tutto induce a soffermarsi e a riflettere.
Non è un racconto complesso, efficace e completo anche questo?
Con l’ossimoro nella poesia che recita “m’illumino d’immenso” Ungaretti riuscì a sintetizzare e fondere i due elementi contrapposti, l’umano e l’infinito, il singolo e l’immenso.
Buona luce a tutti.

 © Essec

lunedì 16 luglio 2018

“Star-Party” madonita



In tutte quelle cose con le quali ci rapportiamo in modo palesemente squilibrato l'approccio con un atteggiamento umile facilita l'osservazione, consente di maturare considerazioni e, in molti casi, di comprendere la reale portata dei fenomeni.
Questo fine settimana mi sono ritrovato fra appassionati di astronomia che, con entusiasmo e curiosità, imperterriti continuano a scrutare la volta celeste nei vari momenti e con la piena consapevolezza della nostra dimensione umana.
Armati di cannocchiali astronomici e sofisticati softweare dedicati, come ogni anno, hanno riempito un pianoro delle Madonie che, nel buio apparente della notte, pulsava di voglia di avventura dei tanti marinai d'infinito.
Tutti si approcciavano a sviluppare programmi studiati in privato o in seno alle loro associazioni, ma trovavano il tempo e gli spazi per l'istinto divulgativo che anima gli adepti di questa antica disciplina.
Antico e, più in generale, dimensione tempo e spazio in astronomia rappresentano concetti molto relativi, ma il nostro lessico impone certe terminologie per rendere comprensibili i fenomeni ed avvicinarli alla nostra dimensione.
I binocoli puntavano verso gli angoli più remoti dell'emisfero scientibile, non disdegnando però le rituali puntate ai pianeti ed alle costellazioni vicine, che costituivano anche occasioni di curiosità per noi non adepti interessati a vedere gli spettacolari "anellli" di Saturno, i suoi satelliti, il rossastro marziano, ovvero ad avere un approccio con galassie inimmaginabili ed a noi lontane centinaia, migliaia o milioni di anni luce.
Torce laser aiutavano a leggere in quella scura lavagna dove brillavano milioni di piccole luci, descrivendo punti e le linee che congiungevano idealmente i diversi segni dello zodiaco e non soltanto.
Dopo una certa ora, il ludico passava in secondo piano, nessuno sporcava più l'ambiente con luci estranee e i soli addetti ai lavori si apprestarono a trascorrere la notte per svolgere i compiti programmati.
Quasi tutti montavano sui loro cannocchiali macchine fotografiche che accompagnavano il migrare degli astri; molte delle loro foto sarebbero andate a incrementare le immagini dei tanti appassionati, rese a accessibili attraverso portali web dedicati.
Domani sarebbe stato per tutti un altro giorno, per ritornare alle nostre dimensioni, alle nostre quotidiane problematiche, ai nostri hobbies più terreni. Pur consapevoli che quello stesso universo della notte è lì che ci accompagna anche quando per noi tutto è in piena luce ....... Con la relatività intrinseca di ogni cosa.
Avere avuto poi spiegato all’indomani che quel bagliore che attorniava le montagne che circoscrivevano l’ampio pianoro di Pomieri in cui stavamo noi (cd "crepuscolo astronomico") non erano luci della città ma la sfilacciatura dei raggi solari provenienti dal lato illuminato della terra, che sfioravano l’orizzonte buio e circolare della nostra notte e che, quindi, avevi inconsciamente vissuto dal di dentro un eclissi solare di dimensione “umana” ti regalava la sensazione e percezione del “fantastico”. Il tutto, gratuitamente, al di là di ogni credenza o religione.
Buona luce a tutti.

© Essec


Libertà, ma senza pollo


Adesso abbiamo una nuova categoria di fatatici: gli ‘specisti’. Sono un ulteriore e più oltranzista specificazione, pardon corrente, dei vegani. L’ideologo, anzi l’ideologa, degli ‘specisti’ è la psicologa americana Melanie Joy che nel suo Manifesto per gli animali sostiene che “tutte le forme di vita diventano tutte di nuovo importanti allo stesso modo”. Chi non si adegua, e mangia poniamo una bistecca, è bollato come un “carnista” da eliminare nel più breve tempo possibile.
L’animalismo è la malattia infantile dell’ecologismo. Nello ‘specismo’ prende le forme di un moralismo grottesco e contronatura. Il leone si meraviglierebbe molto che qualcuno andasse a dirgli che non può sbranare l’antilope e, già che c’è, sbranerebbe anche il coglione. Tutta la storia del mondo animale, di cui noi facciamo parte, è una struggle for life e per la sopravvivenza fra specie diverse e, nel caso degli esseri umani, anche intraspecifica, cioè all’interno della stessa specie. In origine quando le popolazioni erano ancora nomadi se lo spazio vitale era diventato insufficiente, o per mancanza di cibo o per sovrappopolazione, l’alternativa era: aggredire o perire. Il falco zompa su volatili più deboli, il passerotto si nutre anche di zanzare, ogni volta che respiriamo uccidiamo milioni di batteri che sono vita anch’essi. Tutte le volte che ci caliamo uno Zimox, o qualsiasi altro antibiotico, uccidiamo dei microbi che appartengono pur essi al ciclo della vita. Dovremmo rinunciare a curarci in nome dello ‘specismo’ secondo il quale tutte le forme di vita sono ugualmente importanti? Con tutta evidenza non è così. Chi di fronte alla scelta se salvare un bambino o un gatto privilegerebbe il gatto? L’uomo ha diritto di essere antropocentrico come il leone è leonecentrico, il gatto gattocentrico e non si farebbe certo molti scrupoli nell’azzannare un topo. La Natura non è né morale né immorale, è semplicemente amorale.
Ma lo ‘specismo’ al di là dei suoi aspetti grotteschi denuncia un vizio assai più grave e ben più esteso dell’era contemporanea: il totalitarismo ideologico. Non c’è quasi corrente di pensiero che, sia in campo laico che religioso, non si creda e non si proclami come l’unica possibile. Questo totalitarismo è particolarmente presente, in modo quasi sempre inconsapevole, cosa che lo rende ancor più grave e pericoloso, nell’Occidente moderno e modernissimo (è quello che ho chiamato, in un libro che ha avuto parecchia fortuna, Il vizio oscuro dell’Occidente). Solo negli ultimi vent’anni abbiamo inanellato, in nome della “cultura superiore”, una serie di guerre contro popoli che avevano, e cercano di conservare, idee e stili di vita diversi dai nostri. Insomma non sono “democratici”.
Come siamo andati lontani dalla sapienza greca e latina. Erodoto descrive i Persiani come barbari, feroci, crudeli, ma non si azzarderebbe mai ad appioppar loro i costumi greci. I Greci sono greci, i Persiani persiani. I Romani hanno conquistato tutto il mondo a noi allora conosciuto ma hanno sempre lasciato che i popoli da loro sottomessi conservassero le proprie culture e i propri costumi.
Ma torniamo alla più modesta questione degli ‘specisti’. In una lettera aperta al ministro dell’Interno francese i macellai, molti dei quali sono stati vittime di violenze da parte degli ‘specisti’ o vegani che dir si voglia, hanno scritto fra l’altro: “Siamo profondamente scioccati che una parte della popolazione voglia imporre all’immensa maggioranza il suo stile di vita, per non dire la sua ideologia”.
Nell’Occidente viviamo nell’epoca della massima libertà individuale. Ma è solo apparenza perché questa libertà è continuamente insidiata o compressa da miriadi di minoranze, ma anche da maggioranze, di fanatici per cui non dovremmo più fumare, non dovremmo più bere, non dovremmo più corteggiare senza permesso scritto, non dovremmo fare atti contrari a quella che altri considerano la nostra salute (il terrorismo diagnostico). E adesso non dovremmo nemmeno più addentare una sacrosanta coscia di pollo.


venerdì 13 luglio 2018

Noi e loro: la politica della paura


«La paura è la via per il Lato Oscuro. La paura conduce all’ira, l’ira all’odio; l’odio conduce alla sofferenza» Maestro Yoda
Nel discorso politico di oggi, sempre più assimilabile al tifo da stadio o alla propaganda militare, difficilmente riusciamo a mettere a fuoco le dichiarazioni dei capi politici per comprendere gli obiettivi e le reazioni che tendono a suscitare. Questo campo è stato studiato dalla psicologia politica che ha scoperto perché la cosiddetta “politica della paura” riesce a guadagnare sempre più sostenitori, svelando quali siano gli interessi elettorali, e i valori in gioco posti dietro il conflitto politico attuale.
Per “politica della paura” si intende la politica che mira ad agitare volutamente dei fenomeni, narrati come problemi, che minerebbero la sicurezza e il benessere della popolazione su base nazionale. Che si tratti di sostituzione etnica, concorrenza di manodopera straniera, pericolo di infiltrazione terrorismo, migrazioni di continenti interi, la retorica contro il presunto “diverso” agita talvolta spettri infondati.
Vi starete chiedendo come mai siamo ancora capaci di mettere in secondo piano diritti umani e libertà, lasciando che l’egoismo e l’odio siano le direttrici della politica mondiale odierna. In un mondo in cui siamo sempre connessi agli altri, mai come oggi, paradossalmente sentiamo un crescente bisogno di innalzare barriere, come mostrato dalla cartina. In un mondo sempre più veloce che ci costringe a sradicarci dalla propria casa per spostarci alla ricerca di lavoro, la nostra identità viene messa in discussione, e nella babele di informazioni che ci colpiscono continuamente, diviene sempre più difficile essere empatici con il prossimo. Questi ultimi due elementi determinati dalla globalizzazione si rivelano fondamentali nel creare il terreno su cui può attecchire la politica della paura.
Vedremo quindi perché, da un punto di vista clinico-scientifico, la politica della paura vince sulla razionalità facendo leva sui nostri istinti, in seguito cercheremo di capire perché la politica della paura, legata alla crisi di identità, attecchisce in periodo di crisi facendo leva sul bisogno di appartenenza.
L’efficacia della politica della paura ha origini antropologiche: tocca le corde della nostra specie e della nostra evoluzione sfruttando meccanismi primordiali che trascendono luoghi e periodi storici.
La politica della paura fa infatti perno su un riflesso che non coinvolge la razionalità, bensì l’amigdala. “I nostri organi di senso (vista, udito, olfatto..) ricevono dall’ambiente informazioni che segnalano la presenza o la possibilità di un pericolo: ad esempio un serpente o qualcosa che gli assomiglia. Tali informazioni raggiungono l’amigdala attraverso percorsi diretti[…] (1) innescando così una risposta meramente emotiva. Questo percorso consente di rispondere a stimoli potenzialmente pericolosi, prima di sapere esattamente cosa siano”. “Meglio trattare un bastone come un serpente, che accorgersi troppo tardi che il bastone in realtà è un serpente” J. LeDoux.
La riflessione è successiva. La paura è un’emozione primitiva essenziale per la sopravvivenza, che per salvarci da un presunto pericolo ci spinge a reagire prima ancora di pensare.
Secondo l’articolo di Giovanni Sabato nella rivista Mind “c’è chi vede questi meccanismi inscritti nell’architettura stessa del cervello, il “centro della paura”, che invia una profusione di connessioni alla neocorteccia, sede dei pensieri più ponderati, mentre i collegamenti in senso inverso sono molti meno. Perciò la paura si impone così facilmente sulla ragione, mentre controllarla razionalmente è così faticoso e funziona solo in parte”.
Nonostante vi sia chi sostiene che in politica i meccanismi non siano legati alla paura ma all’ansia, che sfrutterebbe l’incertezza dettata da immigrazione, disoccupazione, terrorismo, crisi, il principio fondamentale di questa politica resterebbe immutato: scatenare un’emozione indotta proponendo immagini negative, per presentarsi come i risolutori.
Secondo gli studi portati avanti dalle ricerche di psicologia politica questa strategia funzionerebbe con maggior efficacia lì dove vi sono bassi livelli di istruzione.
Riuscire a smontare e de-costruire la paura indotta, è un’operazione che richiede investimenti in educazione e che richiede il tempo dell’educazione di nuove generazioni.
“No! Non diverso! Solo diverso in tua mente. Devi disimparare ciò che hai imparato!” disse il maestro Yoda a Luke. Intanto la psicosi collettiva infragilisce le menti e trasforma la società, le sue pulsioni e i suoi bisogni.
Per capire come si è arrivati a tutto questo, intanto occorre ricercare gli elementi che collegano globalizzazione e crisi d’identità.
La globalizzazione ha ridotto la percezione dello spazio, e nella velocità dei flussi si perdono riflessione e ponderazione.
Da un punto di vista umano essa ha aumentato la quantità e il ritmo dei flussi umani ed ha provocato una crisi di identità che Paul Mason (2), prendendo come esempio una piccola cittadina inglese, descrive così: “Il neoliberismo ha sostituito i vecchi principi di collaborazione e coesione con un racconto i cui protagonisti sono gli individui. Persone astratte con diritti astratti: il cartellino sull’uniforme era solo a beneficio del cliente o del capo, non serviva a esprimere un’identità. I lavoratori delle comunità sconfitte e abbandonate si sono aggrappati a ciò che rimaneva della loro identità collettiva. Ma dal momento che la loro utopia trainante, il socialismo, era stata dichiarata impossibile da chiunque tranne che dai partiti socialisti, essi hanno iniziato a fondare la propria identità su ciò che restava loro: l’accento, il luogo, la famiglia e l’etnia.”
E da siciliano, vale la pena ricordare quanto la “famiglia” abbia rappresentato l’àncora di salvataggio dei meridionali in cerca di giustizia e lavoro, in mancanza di uno stato. Ai siciliani avendo tolto tutto, non è rimasto altro che fondare la propria identità, la loro società, sulle uniche cose che si pretende che non possano essere tolte: onore e famiglia.
La politica della paura soffia costantemente su questo ardente bisogno di appartenenza, riproponendo i vecchi richiami mitologici del sangue, del territorio nazionale, del maschio bianco, avendo chiaro un progetto identitario e raccogliendo i delusi e gli emarginati dal benessere, che la sinistra non è riuscita a realizzare minimamente.
D’altro canto la sinistra liberale ha narrato il mito dell’universalismo che alimenta e non risolve questa crisi d’identità. Baumeister e Leary (1995) hanno studiato il bisogno di appartenenza come bisogno universale, dotato di aspetti affettivi da non disprezzare e capace di procurare sofferenza quando non soddisfatto.
Nell’idea di uniti nella diversità, l’universalismo della pseudo-sinistra ha raccontato agli individui che le proprie peculiarità, la propria identità sono uguali a quelle degli altri, senza spiegare sufficientemente che, per uguale, non si intende senza differenze, ma di ugual diritto. Questa ambiguità, mal raccontata cozza con l’atavico bisogno di appartenenza dell’individuo che si identifica nei valori, simboli e rituali di una comunità. Così adesso c’è chi, nel discorso fondativo di un nuovo corso, si presenta come il “padre” di una famiglia di figli disorientati in cerca di identità(3).
Ora, sicuramente la crisi economica è un fattore decisivo per l’efficacia della strategia della paura, come lo dimostrano gli studi sulla proporzionalità tra voti dati ai partiti di estrema sinistra e destra durante gli anni’30 in Germania, alternata a periodi di diminuzione degli stessi nel periodo di ripresa che precede il crollo del’29, pur se posteriore alle rivendicazioni internazionali dei Trattati di Versailles.
Ma, come mai, l’identità si sente minacciata in periodo di crisi, e non durante un periodo di benessere economico? Perché cerchiamo di ridefinire i criteri della nostra società soltanto allo scatenarsi della crisi economica, pur avendo un numero totale di immigrati più o meno costante nel periodo antecedente e posteriore alla stessa? I soldi e il benessere corrompono la nostra identità oppure scopriamo quanto essa sia importante soltanto quando ci stiamo impoverendo?
Intanto si potrebbe affermare che, come detto sopra, l’identità, l’onore e il bisogno di appartenenza siano tutto ciò che resta ad una persona a cui è stato tolto qualcosa. Ma non basta. Di fronte ad un’espropriazione, ad un fallimento, alla negazione di futuro possiamo reagire in due modi.
Il primo modo di reagire è infatti il più semplice. Possiamo mettere la testa sotto la sabbia e individuare in coloro che sono già ultimi, l’alibi dei nostri fallimenti, la causa dei nostri mali. La nostra identità diventa così l’elemento più rilevante, perché é l’unica cosa che ci rimane nel momento in cui rischiamo di perdere la nostra posizione sociale, o la libertà di vivere dignitosamente.
La politica della paura scatena quel bisogno di appartenenza frustrato dalla globalizzazione, evidenziando l’ importanza di ciò che ci distingue da coloro che consideriamo gli ultimi e che rischiamo di raggiungere in basso alla “piramide sociale”: l’identità di essere italiani, bianchi, non troppo poveri, quindi ricchi, educati, buoni e lavoratori.
Così ci definiamo, dando importanza a come ci vediamo idealmente rispetto alla realtà, non ci resta che sentirci più forti puntando il dito contro il debole, per issarci un attimo sopra qualcuno e sentirci un po’ meglio.
Questo meccanismo non è altro che la teoria del “capro espiatorio”, studiata ed elaborata da René Girard, secondo la quale, gli individui e le società scaricano la responsabilità e le colpe su degli outsider, dei capri espiatori, la cui eliminazione riconcilia gli antagonisti riportando l’unità. La redenzione dalle colpe di una cattiva gestione personale e collettiva della politica viene fatta attraverso il sacrificio redentore degli ultimi. Su scala diversa è un po’ quello che accade nel caso del bullismo. Proiettando nei difetti del più debole, le proprie debolezze il bullo rafforza la propria immagine all’interno del gruppo e l’immagine del gruppo stesso. Ognuno si sentirà più al sicuro di far parte di un gruppo che incarna le proprie caratteristiche ed elimina gli elementi di differenza.
Il terrore di ogni membro di subire la stessa fine dell’escluso, pur somigliandovi, lo porterà a “farsi amico” il bullo e a simularne imitandone i comportamenti. Egli ne diventa inconsapevolmente complice.
Lasciando stare in questa sede gli argomenti che spiegano che la nazione non è altro che un mito, una costruzione sociale e politica dell’Ottocento (4), a questo punto, se proprio non riuscissimo davvero ad uscire dall’idea che ci sia un gruppo, un “noi” e un “loro”, allora potremmo scegliere un criterio diverso che definisca il “noi”.
Potremmo definire “noi” come i belli, e “loro” i brutti, oppure noi gli intelligenti e loro gli stupidi. Prendercela con i brutti e con gli stupidi ci farà sentire meglio e sarebbe facile, ma alla lunga dubito che risolverebbe i nostri problemi.
Ma intanto è quello che stiamo facendo, giustificando il tutto con teorie darwiniste della legge del più forte, raccontando che la società umana sia retta dagli stessi principi del mondo animale. Peccato che queste teorie, oltre usate a sproposito in quanto strumentali, siano anche scientificamente false, dato che l’uomo, in quanto mammifero, è l’essere con il più alto tasso di inclusione del malato e del diverso attraverso le cosiddette cure parentali.
In effetti scegliere come criterio di “diverso” colui che è ricco, vigliacco, corrotto e che evade, potrebbe anche significare puntare il dito contro uno specchio; scegliamo quindi volutamente di mettere nel contenitore di “diverso” ciò che non vogliamo essere e ciò che temiamo di più essere: poveri, ultimi, senza nulla da perdere, emigrati, ma in fondo è tutto ciò che siamo e non abbiamo il coraggio di raccontarcelo.
Quale sarebbe quel gruppo che esalta come caratteristiche proprie, persino dell’italianità, la povertà, la disperazione che ti porta in molti casi ad andare via? La memoria delle nostre emigrazioni è fin troppo corta, e quando rievocata, viene fatta con toni agiografici di chi descrive i nostri avi come gente seria che si è dovuta sudare tutto, di fronte ai migranti di oggi, scansafatiche a cui tutto è dovuto.
Se scegliamo invece come criterio di definizione del “loro”, non quello del “povero”, del “non italiano” ma quello di scoprire chi siano i responsabili della crisi e del peggioramento della nostra situazione, il quadro si fa inquietante.
Il secondo modo di reagire infatti consiste nel cercare di riprenderci quel che ci è stato tolto da chi ne è il responsabile; ci vuole una buona dose di coraggio nel dire e dirsi la verità, nel guardarsi bene allo specchio e chiedersi cosa ho fatto per evitare questo, oppure cosa posso fare oggi per riprendermi quanto ci è stato tolto. E ci vuole ancora più coraggio nel riconoscere i veri responsabili della situazione. Mettere in discussione se stessi e quello che è stato il nostro modo di essere, persino le responsabilità di chi ci ha preceduto, della nostra famiglia, chiedendosi se i nostri hanno fatto il loro dovere, se hanno pagato le tasse, se si sono opposti quando dovevano farlo, se hanno scelto il proprio tornaconto quando questo cozzava con l’interessa generale.
Chi ha abbastanza coraggio nell’identificare i responsabili dell’attuale situazione nella politica di favore alle banche, nella corruzione e nell’illegalità diffusa a tutti i livelli, negli imprenditori che sfruttano il lavoratore precario o stagista?
Chi ha abbastanza lucidità da definire come responsabili coloro che hanno fatto sentire la nostra generazione come inadatti al mondo, di non essere all’altezza di lavorare, e quindi di dovere necessariamente vivere uno status di apprendista perpetuo fino ai 40 anni e oltre, fino a quando non si potranno ereditare i benefici di una fantomatica “gavetta”?
Chi si sente abbastanza onesto nell’individuare nei responsabili coloro che, compreso la generazione dei nostri genitori, ci ha raccontato che non eravamo all’altezza di avere una responsabilità, al punto che a loro abbiamo affidato quella politica, insieme alla nostra indipendenza economica?
E chi ha abbastanza senso della verità per affermare che responsabili di uno stato spendaccione, oltre alla politica, vi sono milioni di evasori che ci hanno, con il loro egoismo, tolto servizi, opportunità e investimenti?
Basterebbe un briciolo di quel facile coraggio usato quotidianamente dietro le nostre tastiere per affermare che il criterio che stabilisce il “noi” e il “loro” dovrebbe essere quello dello sfruttamento, sotto ogni sua forma: il rider di Foodora, l’impiegato controllato di Amazon, lo stagista in nero o pagato in voucher presso il libero professionista, l’operaio della fabbrica Whirpool che delocalizza per colpa di una fantomatica crisi che si racconta per coprire i miliardi di dividendi guadagnati dai consiglieri d’amministrazione della stessa azienda.
Il dito andrebbe quindi puntato contro il datore di lavoro che ti tiene in continuo ricatto, contro il politico corrotto che ha preferito qualcun altro a te, o a cui hai chiesto un favore per preferire te a qualcun altro, contro il padre tuo o del tuo amico che ha evaso il fisco, pretendendo dal politico che vota un comportamento più virtuoso del proprio.
Insomma significherebbe in molti casi mettersi contro i propri padri, i propri amici, o noi stessi che, oberati dal peso del dovere di riuscire a tutti i costi, e sfruttati da qualcuno, abbiamo invece scatenato volentieri le nostre frustrazioni contro chi sta sotto di noi, evadendo, corrompendo o umiliandolo.
Un’esame di coscienza è quindi l’ostacolo posto davanti ad un futuro migliore. Una presa d’atto sulle nostre responsabilità sarebbe la ruspa che sfonda le mura della complicità su cui abbiamo costruito la nostra pseudo-sicurezza minacciata dalla concorrenza migrante e più in generale dell’Altro.
Invece di procedere a questa analisi, intanto scegliamo la prima reazione, la via più comoda e facile, quella che consiste nel serrare i ranghi e attaccare colui che è stato definito diverso da chi ha paura di diventare povero, con criteri identitari, comunitari, di gruppo. Accettiamo la guerra tra poveri perché in quella contro i ricchi non ci crediamo. Ecco perché la politica della paura attecchisce in periodi di crisi: come una vera scorciatoia mentale collettiva, essa permette di auto-assolverci dalle nostre responsabilità, di evitare il confronto con noi stessi, rendendo impossibile il confronto con l’Altro.


Link utili e approfondimenti:
(1)http://www.stateofmind.it/2017/06/amigdala-percezione-paura
(2) https://www.linkiesta.it/it/article/2017/06/20/paul-mason-questa-globalizzazione-crollera-loccidente-sta-vivendo-la-s/34645/
(3) https://www.internazionale.it/bloc-notes/christian-raimo/2018/07/03/salvini-pontida
(4) https://www.internazionale.it/video/2018/03/07/identita-nazionale-invenzione

sabato 7 luglio 2018

Bcc, a tifare per la riforma sono soprattutto le banche a rischio. Un caso?



Segnali contrastanti sono lanciati dagli attori di quel grande palcoscenico che è il mondo del credito cooperativo.

Ci siamo già chiesti: ma chi vuole davvero la riforma del credito cooperativo stabilita con la legge n°49 del 8 aprile 2016? Ricordiamo che la riforma del credito cooperativo ha praticamente prodotto una balcanizzazione degli assetti riunendo le circa 300 Bcc del nostro Paese in tre galassie: due grandi gruppi facenti capo all’area romana di Iccrea (160 circa) e ai “trentini” della Cassa Centrale Banca di Trento (100) e uno più piccolo (50 circa) facente capo alle realtà della provincia di Bolzano che segue una strada propria.

Tante le voci che hanno chiesto di congelare l’entrata in vigore della legge per una revisione sostanziale. Le numerose istanze, soprattutto di presidenti e direttori generali delle Bcc, sono state addirittura prese in considerazione dal nuovo governo che ha annunciato che sarà necessario apportare modifiche alla riforma. Poi in settimana sfogliando i quotidiani (tra cui anche il Fatto), mi imbatto in una pagina pubblicitaria acquistata dal Gruppo Cooperativo della Cassa Centrale Banca in cui la maggior parte delle banche aderenti manifestano il sostegno alla riforma auspicando che l’avvio della operatività dei nuovi Gruppi Bancari Cooperativi sia assicurato in tempi brevi e senza alcun segno di indecisione, al più tardi per il 1° gennaio 2019.

Rimango perplesso di fronte a questo repentino cambio di umore dei rappresentanti delle banche di territorio. Da una analisi più approfondita rilevo che ben 86 banche del Gruppo hanno aderito alla iniziativa promozionale e solo 14 non si sono dichiarate d’accordo.

Ma quale è lo stato di salute di queste banche?

A tal proposito mi sono servito di una interessanteindagine, pubblicata circa un anno fa da L’Espresso edelaborata da R&S, la società di ricerche e studi di Mediobanca, suibilanci del 2015 di un campione di 377 piccole banche. Il campione è ordinato in base a un punteggio, a un ordine di gravità, cui corrisponde un colore. Sono indicate in rosso le banche a più alto rischio fallimento, in giallo quelle a medio rischio e in verde quelle a basso rischio. Alla formazione del punteggio concorrono quattro indicatori:

1. l’incidenza dei crediti deteriorati netti sul patrimonio netto tangibile della banca;

2. l’incidenza delle sofferenze sullo stesso patrimonio netto;

3. la svalutazione dei crediti deteriorati sui ricavi;

4. il cosiddetto cost/income, cioè il rapporto tra costi operativi e ricavi, il principale indicatore di efficienza.

Negli ultimi due anni qualcosa è cambiato, certo. Alcuni istituti hanno deliberato, proprio a causa dei cattivi risultati del 2015, “programmi autonomi di irrobustimento patrimoniale”; altri sono stati assorbiti da banche meno gracili con “percorsi di messa in sicurezza” che ne evitassero il fallimento. E quindi oggi quei dati sono parzialmente superati. E leggermente migliorati. Ma solo moderatamente, appunto.

Pertanto, pur volendo fare la tara, si scopre che delle 14 banche che non hanno voluto sottoscrivere l’annuncio pubblicitario solo una presenta un rischio elevato mentre tra le 86 banche “favorevoli” alla riforma – ben il 63% – è considerato a rischio: un quarto abbondante a rischio elevato e oltre un terzo mediamente rischioso. Non è che forse le banche virtuose non si lasciano facilmente tirare per la giacca e chiedono alla riforma di meglio chiarire il concetto di risk based e i vantaggi derivanti appunto per gli istituti più efficienti?

Con il contratto di coesione, la singola banca sottoscrive infatti le regole della propria integrazione modulate in ragione della propria meritevolezza: il grado di autonomia verrebbe modulato in funzione di un approccio basato sul rischio (risk based approach), sulla base di parametri oggettivamente individuati. Quali appunto?

E poi non è che forse alcuni esponenti delle Bcc virtuose hanno intravisto nella sostanziale unificazione del sistema delle Bcc un’opportunità di accrescimento del personale potere dei rappresentanti delle federazioni e vogliono essere coinvolti nei processi di scelta della nuova governance?

Piuttosto che spendere soldi in pubblicità per sostenere una iniziativa che ha i prodromi di un nuovo ed interessante “poltronificio”, non sarebbe il caso di impiegare quelle disponibilità per commissionare una indagine di custromer satisfaction per verificare se i soci delle Bcc, nate intorno ad un coerente insieme di principi etici e solidaristici, sono d’accordo alla riforma?

Vincenzo Imperatore (Il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2018


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