sabato 29 ottobre 2016

Marc Riboud: lo sguardo del bambino, il rigore di una tecnica




Questa intervista è stata realizzata da Frank Horvat e fa parte del libro Entre Vues, una serie di conversazioni con alcuni tra i più importanti fotografi del ‘900. La versione italiana è pubblicata per la prima volta su Maledetti Fotografi.

Marc Riboud: La mia prima reazione all’idea stessa di quest’intervista è stato un rifiuto di parlare di fotografia. Perché discutere e commentare un processo che è essenzialmente una reazione spontanea davanti ad una sorpresa? È una cosa che non si analizza. Oppure bisognerebbe discutere lungamente sull’importanza della sensibilità di ciascuno nella sua reazione davanti a questa sorpresa. Ma io non sono uno psicologo e parlare troppo di fotografia mi infastidisce. D’altra parte, e in apparente contraddizione con ciò che ho appena detto, sento sempre più l’interesse di precisare il mio pensiero. Noi non siamo delle macchine, dietro questa macchina di cui ci serviamo: pensiamo prima di scattare una foto, pensiamo – molto poco – mentre la scattiamo, e dobbiamo pensare dopo averla scattata. È importante formulare questo pensiero, affinché non resti una nuvola vaga e cangiante a secondo del nostro umore e quello degli altri. Dunque mi dico che forse è bene forzare un fotografo ad esprimere il suo pensiero. E non mi dispiace trovarmici forzato.

Frank Horvat: Restiamo concreti. Quando dici che hai esaminato le tue foto degli ultimi trentacinque anni e ne hai scelte cento per una mostra, non posso fare a meno di pensare alle venti o trentamila che non hai scelto. Eppure sono foto il cui soggetto ti interessava. Possiamo analizzare i criteri che ti hanno fatto scegliere queste piuttosto che altre?

È chiaro che il soggetto, da solo, non basta. Ho fotografato migliaia di soggetti interessanti, ma che non hanno sempre prodotto buone foto.

D’altra parte, diresti che una foto può essere buona senza che il soggetto sia interessante? Per esempio la foto di copertina del tuo catalogo?

Direi che se non c’è un buon soggetto si cade facilmente nell’estetismo. Questa foto in particolare è stata criticata, alcuni la considerano una nota stonata nella mostra. Io però ci vedo non solo una ricerca formale, ma un misto di intimità e di distanza, che riflette il mio modo di lavorare. Ed anche un certo pudore, benché la foto mostri una donna nuda. Per me, il soggetto esiste: è la casa di Anna Farova, che è una mia cara amica. Le cartoline postali sul caminetto sono segni importanti. Isabelle, la figlia di Anna, tiene in mano il Photo-Poche di Cartier-Bresson, che le avevo appena portato. Si vede pure un libro, Les Résonances de l’Amour, un regalo di Anne Philipe ad Anna Farova, poi una cartolina postale della Sicilia inviata da Martine Franck, su cui si legge Santa Anna, e un’altra cartolina con il logo della mostra organizzata da Anna Farova a Plassy. È tutto il giardino segreto di una donna importante per me, una donna coraggiosa, che lo ha dimostrato del resto in occasione del movimento Charta 77. Certo che, per un verso, questa foto è diversa dalle altre. Ma contiene un denominatore comune a tutte le mie foto: un approccio naturale, senza angolazioni strane, senza effetti tecnici o di luce. Una distanza, ma allo stesso tempo una tenerezza visiva.

Se dovessi scegliere una foto che ti rappresenti, potrebbe benissimo essere questa. Ci vedo effettivamente il ritratto di un’intimità. Ma soprattutto un rapporto visivo fra tre elementi. Se tolgo il gatto, coprendolo con la mano…

… la foto non funziona più.

Ed è lo stesso per il nudo e per la statuetta.

Bisogna che un insieme si organizzi dal punto di vista visivo. Comunque c’è una cosa che mi disturba: il libro, sono stato io a metterlo là, perché è un libro che amo molto. È stato il mio unico intervento – a parte il nudo, naturalmente: mi avevano chiesto un nudo, per una raccolta, e siccome non ne avevo, ho chiesto a Isabelle di posare. Qualcuno ha detto che le mie foto non sono mai centrate su un elemento solo. Non c’è mai un soggetto principale, come un primo piano o un personaggio – ma l’occhio è invitato a vagare per l’immagine. In origine, questo deriva certo dalla mia timidezza, ma un altro lato del mio carattere è il mio debole per la geometria…

Cerchi delle coincidenze.

Non mi piace la parola coincidenze, fa pensare al caso. Come quelli che fotografano tipi strani che passano sotto manifesti altrettanto strani. Io cerco relazioni nello spazio, tra elementi che interagiscono, in modo che l’insieme dica qualcosa. Una sorpresa visiva, con un’organizzazione della forma.

Lo spettatore deve rimanere sorpreso, ma, allo stesso tempo, avere la sensazione che ciò che lo sorprende fa parte di un ordine.

Come per tutti i mezzi espressivi. In Proust, si passa di sorpresa in sorpresa, ed allo stesso tempo la sua prosa è una magnifica creazione stilistica, una vera musica. La fotografia è un mezzo espressivo minore o marginale, ma eccitante – ed è soggetta alle stesse esigenze.

Era considerata minore o marginale quando siamo diventati fotografi. Forse è questo che ci ha preservato da quella malattia tipica del nostro tempo, che è l’ossessione dell’originalità. Non ci chiedevano originalità, eravamo come su delle rotaie, in un sistema che sembrava destinato a durare. Non dovevamo nemmeno interrogarci sulla fotografia, bastava aprire Life, o guardare il lavoro di Henri (Cartier-Bresson), di Robert Capa o di Eugene Smith. Soprattutto nel tuo caso: tu sei diventato fotografo come si diventava pittori nel Rinascimento, eri l’allievo di Henri e il tuo lavoro non mostra nessuna intenzione di distinguerti da lui. Eppure questo non ti ha impedito di produrre un’opera diversa, inconfondibile, interamente tua. Son sicuro che allora tu non ti ponevi grandi domande sulla fotografia, volevi solo essere un testimone di quello che succedeva nel mondo…

No, non ho mai voluto essere un testimone. Direi piuttosto ho girato per il mondo – o meglio attorno al pianeta. Non bisogna lasciarsi trasportare dai grandi discorsi, le cose sono più semplici. È vero che il mio inizio è stato lento. Ero intimidito dall’ambiente della Magnum e particolarmente dalle personalità di Cartier-Bresson, Capa e Chim, che per me erano cariche di significati e di insegnamenti. Mi sembrava che ci fosse una gran distanza tra loro e me: io non sapevo viaggiare come loro, non conoscevo nulla del fotogiornalismo. Ma, allo stesso tempo, avevo un forte istinto d’indipendenza. La mia prima decisione, dopo essere stato accolto nella Magnum, è stata di lasciare Parigi e la Francia per due anni. Ho avuto pochissimi contatti con gli altri fotografi. Conoscevo un po’ il loro stile, che non era solamente un modo di fotografare, ma uno stile di vita. Come dici, l’idea di distinguermi dagli altri, attraverso quella che oggi viene chiamata una personalità fotografica, non mi sarebbe venuta in mente. D’altra parte nessuno utilizzava questo termine. Quando ci capitava di incontrarci, non parlavamo delle belle foto che avevamo fatto, ma dei paesi visti, dei personaggi incontrati. Ci scambiavamo indirizzi, nomi di bar, ci raccontavamo le nostre avventure. È vero che Cartier-Bresson e certi altri avevano tendenze pedagogiche, direi anche moralizzatrici. Inconsciamente esercitavano una pressione morale, non solo sul lavoro fotografico, ma anche sul resto, perfino sul modo di sistemare gli apparecchi nella borsa. E poichè li rispettavo, mi lasciavo influenzare, cosa che oggi non rimpiango. Ma avevo anche un istinto di ribellione, come lo avevo avuto rispetto alla mia famiglia, quando mi ero unito ai partigiani o quando ho lasciato il mio lavoro di ingegnere.

E in seguito? Dopo gli anni Sessanta? Per molti di noi, è stato un periodo di incertezza. I fotografi della Magnum si sono sistemati, ciascuno nel suo circuito e nella sua specializzazione. Riviste come Life sono scomparse. Non c’erano più tribune per testimoniare, e forse anche meno motivazioni.

Non direi. E comunque non mi piace la parola testimoniare. Negli anni Sessanta, volevo andare in Vietnam, non per un qualche ideale di fotografo impegnato o per riportare una qualunque testimonianza, ma semplicemente per la curiosità di vedere da vicino quello che tutti commentavano da lontano. Bisogna aggiungere che, in quell’epoca, era difficile non provare simpatia per i vietnamiti, che tenevano duro sotto le bombe americane. La simpatia, dopo tutto, aiuta a comprendere più dell’indifferenza, o di quella pretesa obiettività che si sbandiera in tutte le occasioni e che di fatto non esiste, né in fotografia né altrove. E man mano che comprendevo meglio questo paese, sentivo più forte, e più spesso, la voglia di tornarci. Per vedere da vicino quello che succedeva, come ora ho voglia di tornare spesso nel nuovo museo di Houston, al quale mi sono appassionato. Mi frulla continuamente per la testa. Certi luoghi sono come degli amici, si ha voglia di rivederli, di sapere come cambiano, quello che diventano. Negli anni ´60 e ´70 sono stato spesso in Cina, in Vietnam, in India, dove avevano luogo avvenimenti importanti. Per me era naturale tornarci, senza chiedermi prima che cosa avrei trovato. Non si possono avere idee preconcette sulle proprie sorprese.

A proposito di idee preconcette e di sorprese: tu hai appena fototograto il processo a Klaus Barbie, un avvenimento che ti riguarda da vicino, essendo di Lione e avendo partecipato alla Resistenza. Gli hai fatto un ritratto in cui ha l’aria di un vecchio signore molto gentile

Sì. Un vecchio signore cortese, dolce, riservato. What a gentleman!, esclamò Cornell Capa vedendo le mie foto. Uno lo avrebbe invitato a casa o lo avrebbe assunto come precettore per i propri figli. Quando invece era il peggiore dei sadici e degli aguzzini. È stata davvero una sorpresa vedermelo davanti, a due metri da me. Durante il processo, ho anche fotografato un altro personaggio importante, l’unico testimone sopravvissuto della deportazione dei bambini d’Izieu. Si chiama Julien Favet, è un analfabeta, ex garzone di fattoria. Un tipo orrendo, con un occhio rosso che sembra uscire dall’orbita, la bocca deforme, uno che farebbe paura a chiunque. Ho trascorso due ore a casa sua e ho scoperto un uomo di una straordinaria purezza, in rivolta contro l’ingiustizia, animato da un vero culto per la verità, anche per dettagli come la pietra su cui era seduto quando ha visto Barbie. Ricorda tutto come fosse stato ieri, con quella memoria visiva propria delle persone che hanno la mente poco occupata. In effetti, per me è stata un’esperienza visiva appassionante.

Ma qual è il rapporto tra le tue foto e ciò che consideri la realtà? Non ti preoccupa questo? In fin dei conti c’eri andato per mostrare una realtà.

No di certo! Credersi portatori di una testimonianza è una fesseria. Una foto non è più importante che una frase detta da uno sconosciuto su un autobus. Noi fotografiamo solo dettagli, piccoli frammenti del mondo. Questo non implica un giudizio, anche se l’accumulazione di questi dettagli sembra corrispondere a un punto di vista.

Non ne sono convinto. Mi ricordo di una foto fatta da Elliott Erwitt nel 1960, durante la campagna elettorale tra Kennedy e Nixon. Ci si vede Nixon in visita a Mosca, che alza il pugno sotto il naso di Khrouchtchev, senza dubbio nel calore di una discussione. Tirata fuori dal suo contesto, la foto sembra dire che Nixon sarebbe stato l’uomo capace di tener testa ai sovietici, ed è in questo senso che è stata usato e che ha quasi fatto vincere le elezioni a Nixon. Alla Magnum si mordevano le mani, Elliott per primo. Ma potrei citarti altri esempi, anche tra le tue foto. Tu hai mostrato la Cina della Rivoluzione Culturale…

No, appunto! Non sono nemmeno stato in Cina durante la Rivoluzione Culturale, ci sono stato solo prima e dopo. È vero che alcune foto fatte prima sono state pubblicate durante la Rivoluzione, e tu vuoi probabilmente dire che mostrano la Cina di quell’epoca con simpatia. Ma se le riconsideriamo oggi – Claude Roy, che conosce bene la Cina, lo dice – ci accorgiamo che mostrano la durezza del regime. Ed in ogni caso, un dettaglio fotografato non prova una verità generale. Se ho fotografato una donna nuda in Cina, questo prova solo che, su un miliardo di cinesi, c’è stata una donna che s’è lasciata fotografare nuda, in un’accademia di Belle Arti, a Pechino, nel 1957. Evidentemente l’abuso di un tale dettaglio, da parte della stampa, può alterare il vero volto di un insieme. Spetta a noi fare il possibile per evitarlo.

Torniamo a Barbie. Eri di fronte a lui. Sapevi chi era. Udivi le testimonianze sulle sue atrocità. Nel tuo mirino, vedevi un vecchio signore gentile. Cosa ti sei detto?

Non mi son detto niente. Non mi son neanche reso conto che aveva un’aria gentile. È stato dopo, guardando le foto, che ho visto e scoperto molte cose. Sul momento, il problema principale erano gli spintoni degli altri sette o otto fotografi. Dovevo fare foto in bianco e nero e a colori, primo piano e vista d’insieme. Sapevo che avrei avuto solo dieci minuti, e mi ero detto che per non perdere tempo a ricaricare, avrei avuto bisogno di sei o sette corpi macchina. E siccome ne possiedo solo quattro, me ne sono fatto prestare due supplementari, solo che mi hanno dato gli ultimi modelli, a cui non ero abituato. Così ho agganciato male le pellicole, e mi son reso conto all’improvviso che non avanzavano. Dunque sono andato a riavvolgerle, in un angolo, cercando di restar calmo, mentre vedevo gli altri che mitragliavano. Tutto questo è successo molto rapidamente, non ho avuto il tempo per una riflessione estetica o morale. Solo uscendo dal Palazzo di Giustizia ho realizzato che quell’uomo così dolce, che avevo fotografato così da vicino, era lo stesso che, quarantaquattro anni fa, aveva ammazzato o fatto ammazzare alcuni dei miei amici e parenti più prossimi.

Forse quello che ti ha salvato è proprio il fatto di non avere avuto il tempo di riflettere. Penso ad un esempio opposto, il ritratto di Krupp, fatto da Arnold Newman con un grandangolo molto deformante. Newman spiega che questa deformazione fu intenzionale, per rendere il carattere diabolico del personaggio. A parer mio, l’effetto è mancato, la forzatura toglie ogni credibilità all’immagine.

Io credo che bisogna mostrare semplicemente quello che si scopre, cercare di ritrovare lo sguardo dell’infanzia. Solo i bambini vedono veramente, senza idee preconcette.

Dunque, se hai finito per produrre un’opera coerente, è perché hai registrato semplicemente ciò che scoprivi.

Ho passato tutta un’estate a riunire le mie foto degli ultimi trentacinque anni e a selezionarle per la mia mostra. È stata un’esperienza molto interessante. Non ho cercato nessun legame tra quelle che sceglievo, né relativamente al soggetto né per lo stile. Mi chiedevo solo: Questa regge? e ponevo la stessa domanda a persone assai diverse, come mio figlio David, Josef Koudelka, mia moglie Catherine e qualche altro. A poco a poco è emerso un tono, e questo si può spiegare molto semplicemente: certi pittori disponevano solo di certi pigmenti, o di un certo supporto. Questo li ha orientati in una determinata direzione, che ha finito per precisarsi e per diventare uno stile. La mia direzione è venuta dalla timidezza. Da ragazzo, io non osavo nemmeno parlare a mio padre e ancora oggi mi sento intimidito da persone che non conosco. Questo fa parte della mia natura. Ma d’altra parte ci capita anche di sentirci spinti verso il contrario della nostra natura. Il mestiere di fotografo mi ha fatto incontrare personaggi come Churchill, Bertrand Russell, Ho Chi Minh, Castro. Forse lo stile delle mie foto è stato determinato proprio dal contrasto tra la mia naturale timidezza e la volontà di superarla.

Hai mai provato paura fisica, nelle situazioni pericolose in cui ti sei trovato?

Sì, certo. Ma il pericolo ci attrae, come ci attraggono le belle donne. Forse è un fenomeno fisiologico. Nel 1968 mi trovavo a Hong Kong, ero sposato e avevo due bambini piccoli, quando i Vietnamiti hanno lanciato l’offensiva del Tet. Senza esitare ho preso l’aereo per Saigon e mi sono ritrovato a Hué. Un giorno, all’aeroporto militaire di Da Nang, c’è stata una chiamata per Khe San che, come ricorderai, era assediata. Che tentazione di saltare nell’aereo per Khe San! Avevo le mie macchine fotografiche, ero in piena forma, perché non andare a Khe San? Ma alla fine non ho potuto…

E adesso tutte queste cose viste e vissute, il Vietnam, la liberazione dell’Algeria, i paesaggi cinesi, il processo Barbie, la stanza di Anna Farova, fanno, in qualche modo, parte di te. Come se la fotografia fosse un modo di appropriarti il mondo, di sentirti a casa dappertutto, a Saigon come a Houston o a Lione.

Ah no! Non mi sono mai sentito a casa a Saigon! Se mai direi che a Lione non mi sento più a casa che a Saigon! Ma io sono curioso di ciò che mi è estraneo, proprio perché estraneo. La gente che fotografo mi sembra molto diversa da me. C’è stata una moda, in una certa epoca, di diventare minatore per fotografare i minatori, musulmano per fotografare i musulmani, ecc. Io non ci credo, se si diventa l’altro non c’è più la sorpresa dell’altro. Bisogna restare se stessi e lasciarsi sorprendere.

Vorrei tornare al tema della testimonianza: se un visitatore venuto da Marte, o dall’anno Tremila, mi chiedesse cosa succedeva sulla Terra, verso la metà del ventesimo secolo, gli mostrerei le foto di Cartier-Bresson. Ma se mi chiedesse: E cos’è successo dopo?, gli mostrerei le tue. Proprio come Henri, tu ti sei sentito in dovere di essere presente dove e quando qualcosa succedeva. In questo tu, più di chiunque altro, sei il suo discepolo. Ed è di questo che parlo quando dico testimonianza.

Non bisogna parlarne troppo. Soprattutto non bisogna andare in giro con una macchina fotografica e pretendere di testimoniare, bisogna scartare quest’idea. Fotografare è un piccolo compito quotidiano. Bisogna mantenere la propria curiosità, viverla come una passione, nutrirla scindendo certi legami con il luogo in cui si vive, perché questi legami sono spesso fonte di preoccupazione, e quando si è preoccupati si vede meno bene – è per questo che i bambini vedono meglio, che gli analfabeti ricordano meglio quello che hanno visto. Io personalmente preferisco fotografare le persone, ma mi interessano anche le montagne nella bruma o le nature morte – purché il soggetto offra una possibilità visiva. Se ho una preferenza per ciò che si muove, è perché la fotografia è essenzialmente il fatto di cogliere un attimo piuttosto che un altro, di azzeccarlo, di fermare il movimento all’istante giusto. Come la nota giusta in musica, l’equilibrio in architettura. La soddisfazione è tanto più grande quanto l’esercizio è più difficile, e gli elementi da riunire più diversi, più mobili e meno prevedibili. È questo quello che cerco, e se mi piace di più fotografare in Cina che in Australia, è semplicemente perché mi sembra che in Cina le cose si muovono un po’ di più.

Dunque azzeccare giusto più che testimoniare? Ma per azzeccare giusto, bisogna sapere cos’è giusto.
Effettivamente. Dobbiamo crearci dei criteri. Come una cornice, che costituiremmo poco a poco. Ma, d’altra parte, dobbiamo anche saperci liberare dalla cornice: se ci fosse solo quella, cadremmo nell’estetismo. Fortunatamente, la vita scompone le cornici, la vita è un caos visivo, una molteplicità di forme che si sovrappongono e si mescolano, un enorme guazzabuglio, che a noi tocca sfrondare, per trovarci un ordine leggibile e per isolare quest’ordine dal resto. La scelta dell’attimo e dell’inquadratura è il nostro modo di prendere posizione rispetto al caos. Noi non abbiamo, come i pittori o i disegnatori, la possibilità di creare delle forme, ma il nostro proposito è lo stesso: semplificare per rendere più comprensibile.

Al posto di azzeccare giusto potremmo forse dire riconoscere?

Sì. Rispetto ad una gamma prestabilita, che adattiamo alle nostre esigenze e che finisce per diventare una disciplina.

Io avrei detto: rispetto ad un’accumulazione di esperienze visive che corrisponde a Marc Riboud. Penso ancora alla tua foto in casa di Anna Farova. Mi avevi detto che, per la copertina del tuo catalogo, avevi esitato tra questa e quella del pittore della Torre Eiffel. La foto del pittore è giusta anche lei, ma giusta rispetto ad un’idea di Parigi che era diffusa allora: è una foto in cui ritrovo più Prévert che Marc Riboud. Mentre la foto di Isabelle Farova è giusta relativamente a ciò che s’è distillato in te nel corso degli anni. Mi fa pensare ad una tua frase: I frutti dell’autunno sono i migliori. Questa frase corrisponde alla mia idea di te, oggi.

Ti dirò che non mi sento per niente nel mio autunno, anzi ho l’impressione di essere più in forma che vent’anni fa. I due momenti più importanti della mia vita di fotografo sono stati il giorno in cui sono entrato alla Magnum e il giorno in cui ne sono uscito. Da quando sono indipendente, ho più tempo per la fotografia, pur restando aperto ad altre influenze. Non so se la mia personalità sia cambiata, ma credo che si esprima meglio. Vivo più spesso quei momenti di grazia, in cui ci sembra di vedere con una intensità decuplicata, in cui scopriamo cose che in altri momenti non avremmo percepito, cose che altri, forse, non percepiscono, in cui la bellezza dei volti ci fa vibrare con più emozione. Anche questo fa parte della fotografia: saper riconoscere questi momenti, ritrovare quella linea di mira di cui Henri Cartier-Bresson ha parlato così bene.

Dunque la linea di mira sarebbe qualcosa che portiamo dentro di noi e che proiettiamo, in un certo senso, sul reale. E l‘istante decisivo sarebbe la collimazione tra questa linea e la realtà.

La linea di mira, in fondo, è il sogno. Dovremmo ricominciare a vedere come i bambini, con la stessa gioia di scoprire, la stessa costante sorpresa di fronte a ciò che ci circonda. Ma la linea di mira richiede anche rigore. Sogno e rigore non sono in contraddizione, sono aspetti diversi di un’unica cosa. È come la musica: nessun altro mezzo d’espressione implica altrettanta precisione matematica, eppure la musica ci invade i sensi e ci trascina con sè. Tecnica e sensibilità vanno insieme, l’una non può esistere senza l’altra.

O piuttosto: quando l’una esiste senza l’altra, non si può parlare di arte. Henri ha detto: Mettere l’occhio, la mente e il cuore sulla stessa linea di mira. Tu dici: Vedere la realtà con lo sguardo del bambino, attraverso il rigore di una tecnica. È la stessa metafora?

Restiamo terra terra. Cosa facevo ieri, davanti alla piramide in costruzione nella corte del Louvre, quando portavo la mia Leica all’occhio? Cercavo un punto di vista, una buona composizione nel rettangolo del mirino, un ordine in quelle migliaia di elementi metallici obliqui, che si dipartivano in tutte le direzioni, modificati continuamente dagli spostamenti e dai gesti degli operai. Questa ricerca mi dava una gioia visiva, sensuale. In determinati momenti, la forma corrispondeva a dei parametri miei interiori, consci od inconsci, come una risonanza tra il soggetto e me. In fondo alla linea di mira c’è la realtà, la realtà che l’inquadratura può trasformare in sogno.

Ma la tua metafora è proprio equivalente a quella di Henri? O vuoi dire una cosa un po’ diversa?

Henri ha avuto formule eccellenti e definitive. Ma non parla mai della sua motivazione fondamentale, passionale. La sua opera non può essere paragonata a quella di nessun altro fotografo, non è come se avesse fatto un po’ più foto di chi viene dopo di lui: ne ha fatte dieci, venti volte di più. Dall’età di vent’anni è stato spinto da questa determinazione a uscire tutte le mattine, a Parigi, a Calcutta o non importa dove, di essere presente dove succedeva qualcosa, di non lasciar passare una mezza giornata senza andare ad una manifestazione di studenti, ad uno sciopero di agricoltori, ad una inaugurazione, ad una riunione sindacale, o semplicemente da un amico pittore, per parlare di pittura mentre gli faceva un ritratto. Quando parla di fotografia, Henri descrive la disciplina che si impone, quella geometria che ha anche menzionato nel titolo di un testo: Nul n’a le droit d’entrer ici s’il n’est géomètre. Ma se ci fosse solo quest’aspetto formale, le foto di Henri Cartier-Bresson sarebbero aride. È il suo interesse appassionato per il mondo che ne fa la ricchezza e l’ampiezza – e di questa passione lui non parla. Henri è il solo che si possa considerare un testimone della nostra epoca, forse appunto perché non ha preteso di essere un testimone.

E tu ti senti sul prolungamento di questa linea?

Trovo la tua domanda priva di interesse. Cartier-Bresson mi ha influenzato, come ha influenzato centinaia di persone, e non solo fotografi. Le circostanze della vita mi hanno avvicinato a lui, ma non metterei il mio lavoro accanto al suo, né per la qualità, né per la quantità, né per la direzione. Mi sento diverso, spesso mi sono ribellato contro di lui, ma non ho alcun motivo di sottolineare differenze o somiglianze.

Non ti senti un po’ il primogenito?

Dipende. Adesso il rapporto tra noi è un dialogo, più che un’influenza a senso unico. Henri può mostrarsi moralista, pedagogo, esigente, voler lasciare la sua impronta sulle persone, non tollerare che chi lo circonda segua altre regole che quelle che a lui sembrano immutabili. Se mi sento diverso – e non solo rispetto a lui – è forse perché per me l’esercizio della fotografia deve corrispondere a un piacere. L’uso di obiettivi diversi, per esempio, mi dà non solo delle possibilità, ma anche dei piaceri addizionali – pur continuando a rispettare la stessa disciplina. Dunque perché privarmene?

Usi la parola piacere, hai usato sensualità. Questo ci porta a una delle tue contraddizioni caratteristiche – perché quello che ci caratterizza sono le nostre contraddizioni, più che le qualità o i difetti. Da una parte sei timido, certamente pudico, magari anche un po’ inibito…

Pudico, sì. Ma inibito, che vuol dire?

Qualcuno che nella sua educazione ha subito delle oppressioni…

Forse è vero. Ma non mi definirei inibito. Direi piuttosto che per reazione…

Appunto. Ed è forse questa sensualità repressa a determinare quella che tu chiami la tua tenerezza visiva, questa opposizione, che si percepisce nelle tue foto, tra il desiderio di toccare e quello di mantenere una distanza.

Senza dubbio noi tutti vogliamo andare oltre quello che siamo, diventare il contrario di ciò che crediamo di essere.

Mi chiedo se proprio la tua attuale maturità – I frutti dell’autunno sono i migliori – non ti permetterà di esprimere questa sensualità più di quanto tu l’abbia espressa in passato.

Mi è sembrato di vivere un nuovo inizio quando ho incontrato Catherine, la donna che amo e con cui ho due bambini. Mi ha dato una pace, mi ha liberato da tante inquietudini. Adesso posso uscire al mattino senza portarmi dietro una nuvola di problemi. D’altra parte, anche il fatto di allontanarmi dalla Magnum mi ha dato più libertà.

Ma io parlavo di sensualità.

La sensualità va di pari passo con il liberarsi dalle costrizioni. Effettivamente mi sono liberato, in una certa misura, da influenze che avevano condizionato la mia vita di fotografo…

Ti porrò la domanda in modo più diretto: da quando esiste, la fotografia è stata un pretesto, buono o no, ipocrita o no, per l’espressione dei fantasmi erotici dei fotografi, da Lewis Carrol a Helmut Newton. Tu non ti sei mai avventurato su questa strada – come non ci si è avventurato Henri, e probabilmente per le stesse ragioni…

Non so. A me non dispiace guardare le belle ragazze, i bei corpi, sono attratto da ciò che è sensuale. Ma raramente ho fotografato persone che provocano in me forti reazioni emotive – come evito di fotografare ciò che è deforme o morboso. È vero che questi soggetti attirano i fotografi: se prendi una qualsiasi pagina di rivista, di quelle in cui la pescivendola avvolge il suo pesce, puoi essere certo di trovarci foto di sesso o di violenza. È vero: ho evitato l’uno e l’altra.

Eppure, se questi soggetti vengono fotografati spesso, non è solo perché i media speculano sulle emozioni del pubblico. Ma anche perché il sesso e la violenza esistono, ci riguardano, sono delle componenti del mondo, non meno importanti che le montagne della Cina.

Ci sono modi diversi di mostrare le cose importanti. La tua foto pubblicitaria per uno champagne, in cui si vede solo una spalla scoperta, mi sembra più sensuale di una foto che mostri delle gambe aperte. Allo stesso modo, si può far percepire la violenza mostrando i rapporti quotidiani tra le persone, senza andare a fotografare cadaveri.

È proprio quello che voglio dire. Per quanto riguarda la violenza, ne hai vista molta, ma hai trovato la maniera di mostrarla senza eccesso, col tuo modo discreto, pudico e distante. Perché non hai fatto la stessa cosa per l’erotismo?

È facile da spiegare! Per fotografare una donna nuda, bisogna o pagarne una che si spogli, o fotografare quella che si ama. Io mi sentirei a disagio nell’una e nell’altra situazione. Ma sognerei di passeggiare in una foresta in cui si trovino donne belle, giovani e nude. Se mi indichi un posto così, ci vado subito. Ma del resto, cosa intendi per erotismo? L’atto sessuale non si compie sotto lo sguardo degli altri. Per fotografarlo bisogna metterlo in scena e io non so far recitare attori. Se, passeggiando, mi succedesse di vedere qualcosa di erotico, penso che magari… Ma è vero che sono pudico, come lo sono davanti alla sofferenza. Davanti a qualcuno che soffre in un letto d’ospedale, non tiro fuori la macchina fotografica. Ed ancora meno se si tratta di qualcuno che m’è vicino. Ora tutte le situazioni erotiche che potrei fotografare sarebbero o tra persone che non si credono osservate, o tra persone che mi son vicine. In un caso come nell’altro, c’è un limite che non oltrepassarei, sarebbe come commettere una violenza. Le fotografie erotiche che conosco, e che mi comunicano un’emozione, sono messe in scena. E mettere in scena, trasmettendo un’emozione senza rivelare l’artificio, è tutta un’arte.

La messa in scena sarebbe dunque un altro limite che non vuoi oltrepassare?

Ti dirò semplicemente che non ne son capace. A parte questo, tendo a credere che il ruolo della fotografia è di registrare quello che avviene, non di mettere in scena.

Eppure, quando fai un ritratto, ti capita di dire al tuo modello: Si metta vicino alla finestra; si giri da questa parte, perché la luce è migliore. Non è messa in scena questa?

Non gli faccio recitare altro che il suo proprio personaggio, nel suo proprio ambiente.

Dunque quando si ha un’idea di una persona, le si può chiedere di mettersi in una posizione o in un luogo che corrispondono a quest’idea. Ma dove fermarsi? Prendiamo il caso del miliziano colpito a morte, nella foto di Capa. Certi hanno sostenuto che fu una messa in scena.

È falso. Robert Capa non avrebbe imbrogliato.

Lo credo anch’io. Ma lasciami fare l’ipotesi: se questa foto fosse stata messa in scena, mostrerebbe una realtà della guerra che corrisponde, effettivamente, alle osservazioni di Capa. Che ci sarebbe di male?

Io non la chiamerei una messa in scena, ma una truffa.

Prendiamo un altro esempio: la Veglia funebre, nel Villaggio spagnolo di Eugène Smith. Per ottenere quella luce, Smith ha dovuto disporre con molta cura i suoi flash, cosa che non poteva fare senza dirigere le persone presenti.

È vero che Eugene Smith aveva una grande maestria della luce. Ma interveniva solo per trasmettere la sua emozione. Non ha mai imbrogliato.

E se Robert Capa avesse effettivamente visto qualcuno cadere colpito da una pallottola, e avesse voluto ricostruire l’emozione che aveva provato?

No, no e poi no. Innanzitutto non ha fotografato questo miliziano perché l’ha visto cadere. Lui voleva fotografare un tipo che saltava, ed è stato in quell’attimo che l’uomo ha ricevuto una pallottola. Se avesse davvero voluto ricostruire l’avvenimento, non avrebbe mai potuto farlo cadere in quel modo.

Mi chiedo se non stiamo confondendo un problema etico – È una truffa? – con un problema estetico – La foto funziona?

Per quanto mi riguarda, trovo la realtà talmente ricca di emozioni di ogni genere, che non vedo perché dovrei darmi la pena di dire a qualcuno: Mostrami un’emozione. Tanto più che la foto sarebbe per forza meno buona, e l’emozione meno… emozionante.

Effettivamente, se tu avessi voluto mettere in scena la foto dell’americana che mette il fiore nel fucile, non avresti mai trovato quel volto e quell’espressione. Ma hai pur chiesto a Isabelle Farova di spogliarsi, e questo non ha mica prodotto una brutta foto.

È il gatto che fa la foto, e io non ho detto al gatto di mettersi in quella posizione. La seduta è durata circa un’ora e c’è stato un momento in cui è successo qualcosa. Non la chiamerei messa in scena. Non ho imbrogliato.

Continuo a pensare che tu confondi morale ed estetica, ma credo che, dal punto di vista della tua propria efficacia, non hai torto. A me capita spesso di organizzare una situazione, poi d’indietreggiare ed d’aspettare che all’interno di questa messa in scena abbia luogo un avvenimento reale – come è successo in questo caso col gatto. Ma in generale tu eviti questo approccio, perché senti che l’abitudine della messa in scena rischierebbe di farti perdere quella famosa distanza, che per te è fondamentale.

Tranne che non ho la possibilità di scegliere tra i due approcci. Io lavoro come lavoro, perché sono come sono.

È certamente vero. Ho trovato sul tuo tavolo questa foto che non conoscevo, e che trovo straordinaria. Il soggetto è del tutto banale: alcuni calciatori con il loro pubblico. Eppure, se incontrassi quel marziano che vuol conoscere la terra, questa sarebbe una delle prime foto che gli mostrerei. Tu hai saputo vedere oltre la banalità del soggetto, mostrando con semplicità duemila teste su una metà del rettangolo e quattro giocatori sull’altra metà – e questo dice moltissimo sul nostro mondo.

Ero rimasto colpito da questo mare di volti, così ben ordinati – i tifosi inglesi erano disciplinati, allora: tutti portavano la cravatta e il berretto e nessuno avrebbe alzato un braccio. È stata una delle mie prime foto a Londra, nel 1953 o 1954, Robert Capa mi ci aveva mandato per imparare l’inglese. Cornell, il fratello di Robert, fotografava quella stessa partita, per Life. Si era piazzato vicino ad una rete e io ammiravo i suoi teleobiettivi e i suoi badges e mi dicevo che non avrei mai saputo sbrigarmela come lui. Io avevo semplicemente comprato un biglietto come tutti gli altri e mi trovavo nelle tribune, con un 135mm. Non per calcolo, ma perché ero troppo timido per andare a mettermi più vicino.


Traduzione italiana di Giancarlo Biscardi.

martedì 25 ottobre 2016

I giovani, una generazione di passaggio




Secondo un recente rapporto dell'Eurostat, 7 giovani su 10, tra 18 e 34 anni, in Italia, vivono ancora in casa con i genitori. E la quota si abbassa, ma non di molto, dopo i 25 anni: 50%. Uno su due. Il dato più elevato in Europa. Da ciò l'immagine dei giovani mammoni, che ormai appartiene all'iconografia nazionale. Associata al profilo del lavoro, meglio, del non-lavoro, che emerge, in modo sempre più marcato. Visto che i tassi di disoccupazione giovanile, in Italia, sono altissimi, 50%. Superiori, anche in questo caso, al resto d'Europa. E restano elevati (intorno al 30%) anche se "depurati" da coloro che non sono in condizione lavorativa, perché ancora impegnati nell'attività scolastica.

Insomma, se ne potrebbe ricavare l'immagine di una generazione "dipendente" e un po' sciattona. Incapace di affrancarsi dal vincolo familiare. O, forse, poco interessata a farlo. Per interesse e per comodità.

In effetti, questa rappresentazione appare parziale e distorta.

Parziale, perché non racconta per intero la storia del rapporto con il lavoro dei giovani italiani. Disoccupati e, in grande numero, neet. Cioè: fuori dalla scuola e dal lavoro. Ma anche, e ancor più, precari e intermittenti. Il lavoro a tempo indeterminato, per loro, è, ormai da tempo, una prospettiva irrealistica. Semmai, l'insistenza sulla dipendenza dalla famiglia e dal "nido domestico" si dovrebbe associare a un altro carattere "nazionale" dei giovani. Il nomadismo. 

Si tratta, infatti, della componente più ampia fra coloro che, ogni anno migrano dall'Italia. Oltre 100 mila. Diretti, prevalentemente, in Germania, in Gran Bretagna. E in Francia. Per motivi di studio. E di lavoro. Perché i giovani italiani pensano, in larga maggioranza (70%), che, per trovare opportunità di lavoro coerenti con le loro attese e i loro requisiti, occorra partire. Andarsene dall'Italia. Come, effettivamente, avviene, in misura ampia e crescente. Questi aspetti contribuiscono meglio a precisare - e a smentire - il ritratto dei "mammoni". Replica di altre caricature proposte nel corso degli anni: dai "fannulloni" ai "bamboccioni". Giovani ritenuti colpevoli della propria condizione di inattività.

Naturalmente, le responsabilità dei giovani esistono, ci mancherebbe. Ma sarebbe inutile, comunque, poco utile e auto-assolutorio, per noi, trasferire su di loro le responsabilità della marginalità giovanile sul mercato del lavoro e, più in generale, nelle gerarchie sociali ed economiche. Quando sono note le deviazioni "protezioniste" della società italiana, certamente, poco meritocratica. In primo luogo, nel lavoro. Anche per il ruolo della famiglia. Istituzione molto più influente da noi, rispetto agli altri Paesi europei - e non solo. Riflesso della tradizione nazionale, ma, forse ancor più, dei limiti del nostro sistema di welfare. E, più in generale, della scarsa efficienza delle istituzioni e dei servizi pubblici.

Tuttavia, è errato sostenere che i giovani "vivano" oppure "restino" in casa con i genitori. Meglio e più corretto sarebbe dire "risiedono". Perché, in effetti, in casa con i genitori "ci restano" poco. Vanno e vengono. Si spostano. Da una casa all'altra. Da una città all'altra. Dipende, dai periodi. Se studiano all'Università, in Italia o all'estero. Oppure se lavorano, da precari. Di nuovo: in Italia o all'estero. Perché molti Neet, in effetti, sono semplicemente giovani perduti, meglio, dissimulati, fra le pieghe del lavoro sommerso.

La famiglia, la casa: sono sponde utili, in tempi instabili, mentre sperimentano i loro percorsi mobili e intermittenti. Perché permettono ai giovani di perseguire le loro scelte, i loro obiettivi, riducendo i rischi personali. Mentre la presenza, per quanto rara e ipotetica, dei figli rassicura anche i genitori. Che soffrono, sempre più, di solitudine. Perché l'Italia è il Paese dei figli unici. Come avviene in circa metà dei nuclei familiari. Così, anche se il loro figlio unico è lontano, i genitori se lo tengono stretto. Ben legato al loro domicilio domestico. Per sentirsi meno soli.

E se lo vedono poco tengono contatti costanti, con gli smartphone, i social media. I giovani. Lontani e vicini, al tempo stesso. Mentre loro vanno e vengono. La casa: è un porto. Dove si arriva e si riparte. Dopo aver cambiato valigia ed essersi cambiati. Un saluto, un po' di riposo, e via di nuovo. A casa: si passa - e si ripassa - fra un viaggio e l'altro. Perché i giovani, oggi, sono una "generazione di passaggio".