giovedì 30 marzo 2017

Il famoso e spesso disconosciuto “Fattore C”

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In fotografia il “Fattore C” è solitamente indicato per descrivere un’immagine sostanzialmente creata con l’aiuto del caso. L’accadimento è molto più frequente di quanto si possa immaginare e, nella fattispecie, il “fattore” non è mai dequalificante, tutto al più può aver costituito un importante componente.

La pura casualità in uno scatto può ripetersi, ma non sempre è così immediatamente riconoscibile e poi difficilmente è ammessa dal fotografo.

Nella pratica sono molte le possibilità che una foto derivi o possa essere stata fortemente influenzata da accadimenti imponderabili; quantunque siano frutto di combinazione di elementi e di letture inconsce presenti e radicate nell’intimo di chi la scatta.

Di norma nel reportage il fotografo fa una lettura di scene si oggettive, ma che spesso si associano ad occasionalità legate al mutevole: trovarsi in un dato momento in un certo posto, con la giusta carica, mentre succede o non succede qualcosa.

Anche osservare o prevedere un avvenimento o una semplice azione ripetuta, scegliendo tempi, punto di ripresa, ottica e diaframma, vedono irrompere con prepotenza una componente casuale.

Per non parlare dei casi inebrianti, di quelli che generano quella certa ipnosi creativa che porta ad abbandonare ogni regola. Confessi chi non si è ubriacato fotograficamente almeno una volta.

Nello “street” capita che il riconoscimento immediato di una scena lungamente sperata, magari già vista in riproduzioni di affermati autori, possa consentire di realizzare foto idealizzate, cercate lungamente nel tempo. Quasi mai però il risultato è scontato e ripetibile, perché difficilmente si andrà a creare una copia identica di uno scatto famoso. Nel nostro scatto ci sarà sempre qualcosa di casuale, diverso, personale.

L’immagine non banale e comunque degna di attenzione può nascere anche in foto di studio se fortemente influenzate dallo stato d’animo temporaneo di chi fotografa e/o della modella; la condizione psicofisica di chi è in campo talvolta induce occasionalmente a originalità sperimentali e imprevedibili che illuminano e aprono nuovi orizzonti creativi.

Nel reportage o nelle foto d’azione, poi, talvolta l’intuizione di un’idea, è costituita da un insieme di elementi leggibili che inducono a immaginare ciò che corrisponderà di lì a poco al vero. Altre volte dei piccoli e voluti artifizi aiutano a creare qualcosa che si allontana dal reale, ma difficilmente potrà dirsi che una foto è stata completamente costruita, perché vi saranno sempre elementi fortuiti imponderabili, combinati o collegati, non ultimo l’intuizione legata allo stesso momento di scatto.

Con le attrezzature moderne, spesso si punta su scelte tecniche e possibili opzioni non sempre governabili, in parte anche casuali se legate al settaggio semiautomatico della macchina fotografica in uso, all’angolo di ripresa, al valore di ISO selezionato a monte e quant’altro. Concentrarsi nel cercare di catturare un’azione impone peraltro e sempre più alla rinuncia di operare in “manuale”, puntando molto, con ciò, nella fortuna. Accade anche nelle foto di paesaggio, quando eventi atmosferici molto mutabili innovano continuamente particolari e temperature del colore, squarci nel nuvolo generano ombre improvvise e imprevedibili o fugaci coni di luce.

Quante volte ci si trova anche in balia delle bizzarrie del vento che spinge le vele all’estremo, variegandole; e magari d’improvviso si creano forme stranissime che restano fissate in una foto unica. E’ vero che il “mestiere” aiuta, ma molto spesso è il caso che domina. Anche se esperienze affinano l’intuito e talvolta aiutano a prevedere, lo scatto di una fotografia rimane il congelamento di un momento che non consente riprova.

In vena di creatività a volte nel reportage si scelgono settaggi orientati a scatti estremi, con abbinamenti che comunque non assicurano certezze sul risultato, bensì possibilità che possa accadere un qualcosa che solo s’immagina o si spera.

In altre occasioni, magari nel paesaggio urbano, l’apparizione di un’automobile, un bus o un ciclomotore di marca o i colori di dettaglio nei particolari associati all’ambiente, arricchiscono e creano un piacevole insieme imprevedibile che attira l’attenzione dell’osservatore.

Come pure la tinta in un caseggiato, in panni stesi, in una bandiera che sventola, in una scritta sul muro, o la presenza di un vetro sporco che imprevedibilmente appanna una visuale, o la riflessione di una immagine in un semplice specchio (fatto da una casuale chiazza d’acqua di una pioggia passata).

Spesso ci muoviamo con occhi che vorrebbero possedere le molteplici visuali di una mosca, ma le nostre visioni restano parziali e negli scatti finali molto va al caso che si manifesta spesso anche in postproduzione.

Confessiamo, quante volte ci è capitato di leggere a posteriori dettagli non visti in fase di ripresa? Con elementi che potevano apparire di disturbo ma che si rivelano importanti nell’arricchimento dell’insieme.

Possiamo dire che la fotografia di regola, come tutte le forme d’arte, consente di fissare con raziocinio e metodo l’attimo fuggente; ciò che registriamo attraverso il mezzo che abbiamo in uso sarà sempre anche frutto della nostra mente, filtrato attraverso la cultura e la sensibilità che c’è differente in ciascuno di noi, ma sarà anche un pò frutto dell’alea che accompagna ogni cosa.

E poi, dulcis in fundo, c’è anche il fotografo “baciato”, quello vero, colui che ha quel quid in più che gli consente una creatività/reattività naturalmente superiore: l’eletto, costituisce l’eccezione che rimane fuori da qualunque schema, grazie agli elementi “speciali” connaturati nel suo fortunato DNA.

Per concludere, se osserviamo bene scopriremo che sono tanti  i “Fattori C” presenti in fotografia; in piccolo anche nelle nostre e, nel caso dei più avvezzi e fortunati, non resta quindi che procedere a un confronto e misurare il diametro in ciascuna, per trovare così quello che, nel tempo, si è casualmente maggiormente palesato!


© ESSEC


lunedì 27 marzo 2017

Madri surrogate: le donne che lo fanno per scelta. Né schiave, né sfruttate, né vittime




Il tema della gestazione per altri (Gpa) farà discutere, e molto, nel nostro Paese. Le scelte riproduttive dei singoli individui e il superamento dei limiti biologici configurano nuovi terreni di scontro. Contro questa pratica si è creata un’inedita alleanza tra le solite forze oscurantiste – destre (anche estreme), movimenti clericali e omofobi – e il cosiddetto femminismo “della differenza”. Secondo costoro, le donne verrebbero schiavizzate per permettere a gente ricca di “comprarsi” un figlio. Ma è davvero così? 

Per far chiarezza – una volta per tutte – ne ho parlato con Serena Marchi, che dopo un viaggio di 33.613 km per il mondo, ha dato voce alle madri gestanti nella sua ultima fatica, Mio tuo suo loro (Ed. Fandango), che verrà presentato alla libreria Tuba, a Roma, il prossimo 28 marzo alle 19. “Già nel mio primo libro, Madri comunque, c’erano due testimonianze su questo tema. Al Salone di Torino, nel 2015, con il mio editore abbiamo deciso di dedicarci esclusivamente ad esso”. 

Le critiche, ovviamente, non mancano: “Mi hanno accusato di essere andata solo nei paesi occidentali e non essermi occupata di India, Nepal e Thailandia, ma è stata questa la mia scelta”, dice ancora. Con una precisazione importante: “Laddove esiste sfruttamento del corpo femminile sono la prima a condannare. Di fronte alla costrizione, alla schiavitù, tutti siamo contrari“. Eppure, ricorda l’autrice “non si può dire che tutte le donne che si prestano a partorire per altri siano schiave, tutte sfruttate, tutte vittime di un mercato e di un giro d’affari milionario. Continuare a trattare così questo tema complesso è dannoso e fuorviante”. 

Serena ha incontrato donne libere, consapevoli e convinte di aiutare una famiglia o un single ad avere un bambino. “Per amore, per soldi, per dono. Per mille motivi che, a mio avviso, vanno rispettati perché fanno parte della scelta. È tale indipendenza che si fa fatica a capire”. Con un rischio ulteriore: “Sta passando il messaggio che una donna non sia in grado di decidere per se stessa e quindi abbia bisogno di qualcuno che la difenda”. Atteggiamento paternalistico, a ben vedere. Quasi patriarcale. 

Le chiedo cosa pensa che ci sia dietro l’opposizione di certe femministe. “Da sempre un uomo per diventare genitore ha bisogno di una donna. A me sembra che il vero fastidio stia in due genitori gay. Tra le mie intervistate c’è chi ha preferito appositamente due uomini” perché in Inghilterra, Canada e Usa è la donna, ricordiamolo, a scegliere la coppia per cui partorire. “Scelta assolutamente solidale: sia perché, mi hanno detto, due gay non possono avere figli da soli, sia perché molto spesso non hanno la possibilità di diventare padri in altri modi: l’adozione è pratica ancora molto limitata. Ed essere due uomini non può bastare per essere etichettati come cattivi genitori”. 

Eppure, il problema sembrerebbe proprio questo: la genitorialità maschile è l’ultima frontiera dello “sfruttamento patriarcale”? “Le donne che ho incontrato io, in molti casi, non hanno permesso neppure ai loro uomini di dire come la pensassero. Come Julia, di Las Vegas. Suo marito mi ha detto, sorridendo, che non sa come fa. Che per lui è un po’ matta”. Eppure Julia ha deciso così. Inoltre, prosegue l’autrice, “voglio premettere che continuare a parlare di surrogacy in riferimento ai papà gay è un errore. La stragrande maggioranza di chi vi ricorre è composta da donne, in coppia o single, impossibilitate a portare a termine una gravidanza”. Laddove le portatrici lo fanno per soldi – “scelta lecita, legittima e non criticabile” secondo Marchi – come in Ucraina o Russia, alle coppie gay la Gpa è vietata. Gli omosessuali invece vanno in Canada e in alcuni stati degli Usa “dove le donne scelgono la coppia che si propone e, nella quasi totalità dei casi, si mantiene un costante contatto con il bambino dopo la nascita. Smetterei di parlare di “uso” dei gay del corpo femminile. Vedo uno sfruttamento molto più diffuso in moltissimi altri ambiti, da parte dei maschi etero, nella nostra quotidianità”. 

Attraverso le testimonianze di questo libro, entriamo nel cuore delle donne che hanno fatto una scelta coraggiosa. Come Regina, mamma di Novella Esposito. Come possiamo leggere nel libro, la figlia aveva perso la bambina che aspettava e le era stato asportato l’utero: Quando entrai nella sua stanza, mi guardò e toccandosi il ventre mi disse: “Non ho più niente”. E allora mi venne d’istinto, da dentro, dal cuore, dalle viscere. Mi avvicinai, le accarezzai la testa, mi chinai su di lei e le dissi: “Novè, non ti preoccupare. Se non puoi tu te lo faccio io, un figlio“. “Me la porterò dentro tutta la vita” confessa, emozionata, Serena: “Durante quella giornata ho toccato con mano e sentito nelle viscere il significato della parola amore”.



domenica 26 marzo 2017

Riciclaggio, fiumi di denaro e consumi di tutti i giorni: quando "La mafia siamo noi"



 
Milano - Una mafia sempre più invisibile che non spara e non uccide, ma che silenziosa si infiltra nell'economia, conquista pezzi di tessuto produttivo con la prepotenza imprenditoriale di chi ha un'immensa quantità di denaro a disposizione.

In "La mafia siamo noi", il cronista giudiziario di Repubblica, Sandro De Riccardis, racconta anche la colonizzazione dell'economia legale da parte dei clan che riciclano capitali sporchi scalando, non sempre amichevolmente, le imprese in crisi o acquisendo bar, ristoranti, locali, discoteche. Impossessandosi di pezzi dell'industria italiana del divertimento e del turismo. "Sulle piste da ballo, nei dehors degli aperitivi, tra i tavoli dei ristoranti, nelle notti del nostro divertimento si perfeziona la più capillare operazione di riciclaggio, con i contanti provenienti dal traffico di droga, dalle estorsioni, dallo sfruttamento della prostituzione che vengono reintrodotti nell'economia legale - si legge nel libro -. Un flusso inverso a quello che siamo abituati a immaginare: i capitali freschi si muovono dalle zone più arretrate del Paese per conquistare quelle più sviluppate".

Tutto questo - è il filo conduttore di "La mafia siamo noi" (Add Editore, 240 pagine, 15 euro) - richiama a una maggiore consapevolezza sulle nostre abitudini e i nostri consumi. Perché spesso rischiamo di diventare "inconsapevole strumento di riciclaggio quando pranziamo nei ristoranti, balliamo nei locali, facciamo shopping nei negozi acquistati dai colletti bianchi dei clan".

"La mafia siamo noi" è un lungo viaggio nella società civile, attraverso le storie di chi per - indifferenza o connivenza - favorisce la crescita e il consolidamento della criminalità organizzata sul territorio. Ma anche di chi si ribella e prova a cambiare lo stato delle cose. Racconta la svolta antimafia di Confindustria del 2007 con il primo "Codice etico" che sancisce l'incompatibilità tra l'iscrizione all'associazione degli industriali e forme di complicità con le cosche, ma anche come la scelta di campo dell'associazione di categoria sia stata messa in crisi dalle contraddizioni e dai sospetti di contiguità alla mafia di alcuni tra i suoi principali esponenti.

Ricostruisce la strenua lotta della per la legalità e la libertà d'impresa di imprenditori del passato, come Libero Grassi, ucciso da Cosa Nostra nel 1991, ma anche le denunce solitarie di imprenditori di oggi come il pasticcere di Cinisi, Santi Palazzolo, o il meccanico del Comasco, Vincenzo Francomano, che credono nello Stato e fanno arrestare i loro estorsori. "Non mi piace l'antimafia strombazzata ai quattro venti, l'antimafia spettacolo - dice il pasticcere siciliano -. L'antimafia vera si fa ogni giorno e la devono fare tutti i cittadini, nel loro piccolo, rispettando le regole. Quella vera la fanno i cittadini che si alzano tutte le mattine e che fanno rispettare le regole, insomma che fanno il proprio dovere. Noi abbiamo un patto etico: i fornitori vanno pagati alla scadenza, gli stipendi vanno pagati sempre quando previsti. Questo è il rispetto degli altri. Ho sempre detto ai miei figli che ognuno di noi deve fare la propria parte".

Sandro De Riccardis (La Repubblica – 25 marzo 2017)


Afghanistan: una vergogna che ci sopravviverà


Quando sento parlare di ‘guerre dimenticate’ metto mano alla pisola. Perché vuol dire che gli occidentali se ne stanno per ricordare e hanno intenzione di intervenire in questioni che non li riguardano affatto, provocando i consueti disastri. 

E’ avvenuto nella guerra Iraq-Iran cominciata nel 1980 per iniziativa di Saddam Hussein che riteneva che lo Stato persiano si fosse indebolito con la caduta dello Scià e l’avvento di Khomeini. Ed effettivamente per cinque anni gli Stati occidentali si dimenticarono di quella guerra, salvo ovviamente vendere grandi quantità d’armi ad entrambi i contendenti perché potessero ammazzarsi meglio. Ma inopinatamente nel 1985 l’esercito iraniano, molto meno attrezzato di quello iracheno, più tecnologico, era davanti a Bassora e stava per prenderla. La presa di Bassora avrebbe comportato l’immediata caduta di Saddam Hussein, la nascita di un Kurdistan indipendente ai confini della Turchia e la naturale riunione della parte sciita dell’Iraq con l’Iran, perché si tratta della stessa gente, dal punto di vista antropologico, religioso e culturale. Allora intervennero gli americani, per ‘motivi umanitari’ naturalmente: “Non si può permettere alle orde iraniane di entrare a Bassora, sarebbe un massacro” (i soldati altrui sono sempre ‘orde’, solo i nostri sono eserciti regolari, anche se adesso i pasdaran iraniani, non più ‘orde’, ci fanno molto comodo per combattere l’Isis a Mosul). Risultato dell’’intervento umanitario’: la guerra che sarebbe finita nel 1985 con un bilancio di mezzo milione di morti, terminò solo nel 1988, ma i morti, nel frattempo, erano saliti a un milione e mezzo. Saddam Hussein invece di essere disarcionato restò in sella, e rimpinzato, in funzione antiraniana e anticurda, di armi di tutti i tipi, anche quelle chimiche fornitegli da americani, francesi e sovietici, aggredì il Kuwait. E fu la prima guerra del Golfo (1990). Le ‘bombe intelligenti’ e i ‘missili chirurgici’ americani fecero 157.971 vittime civili fra cui 39.612 donne e 32.195 bambini. E fermiamoci qui. 

Nel 1999 gli americani si intromisero in un’altra guerra altrui. Quella fra lo Stato serbo, che voleva legittimamente conservare l’integrità dei propri confini, e gli albanesi del Kosovo che pretendevano invece l’indipendenza. Gli Usa, dando ragione ‘a prescindere’ ai kosovari, bombardarono per 72 giorni una grande capitale europea come Belgrado facendo 5.500 morti civili e fra questi c’erano anche 500 di quei kosovari di cui avevano preso le difese. Ma le conseguenze furono più gravi del numero delle vittime. In assenza del ‘gendarme Milosevic’, il quale, checché se ne sia detto e scritto, era un fattore di stabilità dei Balcani, sono concresciute in Kosovo, in Bosnia, in Albania grandi organizzazioni criminali (armi e droga soprattutto) che per fare i loro affari passano in prima battuta per l’Italia. Inoltre l’azzeramento, come potenza, della Serbia, ortodossa, ha favorito la componente islamica dei Balcani dove oggi allignano le più forti basi che l’Isis abbia in Europa. 

Nel 2011 iniziò in Siria una rivolta spontanea contro il despota Bashar al-Assad. Doveva essere una questione fra siriani. Invece c’è stato l’intervento americano (la famosa ‘linea rossa’ di Obama) che ha legittimato quello dei russi, dei turchi e di altri macellai della regione. E così siamo arrivati alla catastrofe umanitaria di Aleppo. 

Ma c’è una guerra che è realmente ‘dimenticata’: quella all’Afghanistan che dura da più di 15 anni, la più lunga dei tempi moderni. I giornali occidentali e in particolare quelli italiani (ad eccezione di un recente reportage di Pierfrancesco Curzi pubblicato dal Fatto) ne danno notizie sporadiche, striminzite, reticenti. Più che una guerra dimenticata è una guerra rimossa, occultata, una guerra che non esiste, tanto che si nega lo status di rifugiati politici agli afgani che, sempre più numerosi, fuggono dal loro Paese. Ed è rimossa per occultare la vergogna, occidentale e in particolare americana, dell’occupazione del tutto arbitraria di un Paese che dura da tre lustri. 

Si poteva sperare che lo strombazzato isolazionismo di Donald Trump oltre che commerciale fosse anche militare. Invece il neopresidente degli Stati Uniti ha deciso di inviare in Afghanistan altri 4.500 uomini convincendo a ritornarvi anche i canadesi che, con gli olandesi, erano stati fra i primi ad andarsene non capendo l’utilità e il senso di quella ‘missione’ (e quando gli olandesi lasciarono Kabul, l’Emirato islamico d’Afghanistan, guidato dal Mullah Omar, con una nota ufficiale ringraziò pubblicamente il governo e la popolazione di quel Paese). Inoltre il ritiro delle truppe NATO e dei suoi alleati che inizialmente era stato previsto per il 2014 è stato procrastinato al 2020 e oltre (una richiesta in questo senso è arrivata anche all’Italia ed è stata subito accettata). 

Anche gli inglesi, che pur si sono battuti bene in Helmand, subendo gravi perdite, hanno deciso di rientrare in forze in Afghanistan. Alla recente Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera il ministro della Difesa britannico Michael Fallon ha dichiarato: ”Se era una cosa giusta andare, deve essere altrettanto giusto non lasciare prima che il lavoro sia terminato”. Costoro, la distruzione materiale, economica, sociale, culturale di un Paese e le 200 mila vittime civili provocate dal loro intervento, lo chiamano “lavoro”. Il lavoro del boia. 

Senza le basi americane, i bombardieri americani, i droni americani, il governo fantoccio di Ashraf Ghani non resisterebbe più di una settimana ai Talebani. Perché anche il suo esercito, che noi italiani pretendiamo di addestrare, è fantoccio. E’ formato da poveri ragazzi afgani che a causa della disastrosa situazione economica (la disoccupazione è al 40%, all’epoca del governo talebano era all’8%; Kabul ha oggi 5 milioni e mezzo di abitanti, con i Talebani ne aveva un milione) non hanno altra scelta, per guadagnarsi di che vivere, che arruolarsi. Ma appena possono se ne vanno. Ogni anno la metà diserta, l’altra metà, tagiki a parte, non ha nessuna voglia di combattere i propri connazionali. Inoltre nel pletorico esercito ‘regolare’ afgano, che teoricamente conta su quasi 350 mila uomini, ci sono infiltrati talebani che periodicamente aprono il fuoco sugli istruttori stranieri (l’ultimo episodio è del 19 marzo quando un soldato afgano ha ferito almeno tre addestratori americani). 

Quando un governo, le forze occupanti, le ambasciate, le ambigue Ong e coloro che vi fanno parte sono costretti a vivere in compound protetti da mura alte sei metri, allineate in tre cerchi concentrici, e non osano mettere il naso fuori se non usando gli elicotteri o ricorrendo ad altre mille precauzioni, vuol dire che sanno di avere contro l’odio della popolazione, anche quella che talebana non è e non è mai stata. Forse Assad, in Siria, ha un appoggio maggiore. 

Ma noi continuiamo a restare lì, coperti, oltre che dai muri di cemento, da una vergogna che non si cancella col silenzio. E che ci sopravviverà.
 


giovedì 23 marzo 2017

Breve (e lunga) storia delle crisi bancarie in Italia: 1982-2017 (G. Coppola e D.Corsini)







Sembra che, quando si subiscono gli effetti di un investimento finanziario sbagliato, di una truffa finanziaria o di una crisi bancaria, la memoria individuale e collettiva tenda a rimuovere presto l'offesa ricevuta e ci renda pronti ad esporci a nuovi rischi senza particolari cautele aggiuntive.

L'educazione finanziaria, per agire come fattore di prevenzione, dovrebbe, tra i suoi primi obiettivi, tenere viva la memoria di quegli eventi, perché non si dimentichino le lezioni negative apprese nelle diverse circostanze.

Siamo invece certi che pochi abbiano la percezione di quante e quanto profonde siano state le crisi bancarie e finanziarie importanti intervenute negli ultimi trentacinque anni in Italia, vale a dire nell'arco temporale di una sola generazione.

Ripercorrendole brevemente, vedremo ricorrenze di cause, interventi "a buoi scappati", poche azioni per sventarne di nuove.

1982 Banco Ambrosiano, crisi da intreccio tra poteri più o meno forti e più o meno occulti (la famigerata P2) e da imbarazzanti vicinanze con la finanza vaticana. Soltanto un mese prima dell'esplosione finale, le autorità avevano autorizzato la quotazione in borsa delle azioni del Banco. Memorabile per senso dello Stato l'intervento del cattolico Andreatta (allora Ministro del Tesoro) a difesa delle ragioni italiane nei confronti del Vaticano. Il costo del fallimento fu di alcune migliaia di miliardi di lire, risolto grazie alla fusione con la ricca Banca Cattolica del Veneto.

1987 Cassa di Risparmio di Prato, banca locale con finanziamenti concentrati nel tessile, fu gestita a lungo da banchieri legati alla politica. Finanziò speculazioni e accrebbe i propri rischi in misura sproporzionata. Fu il primo intervento del Fondo di Tutela dei Depositi, appena costituto ai sensi di legge e ne assorbì in un sol colpo le disponibilità raccolte presso il sistema.

1992 Montedison, crisi finanziaria del maggiore gruppo chimico privato, con perdite stimate in 30.000 miliardi di lire. Si rifletté sugli equilibri della Banca Commerciale Italiana, al cui conto economico i ricavi provenienti da quella relazione di affari pesavano per il 15% del totale.

Era sempre il 1992 quando la Cassa di Risparmio di Venezia,  la più antica d'Italia fondata nel 1822, andava in default per una serie di previsioni errate sui cambi (preceduta dall'abnorme sviluppo dei crediti in valuta senza pretendere la copertura del rischio di cambio da parte prenditori, gran parte dei quali con la svalutazione della lira divennero insolventi). La dimensione delle perdite, da un lato, chiamò a raccolta le consorelle venete, dall'altro, fece da detonatore alla crisi di altre casse di risparmio e degli istituti di credito speciale della regione. Quel che rimase confluì gradualmente nel gruppo Intesa alla fine di un complicato processo di assorbimento protrattosi fino al 2014.

A poca distanza di tempo, seguirà l'ondata più virulenta, che spazzerà quasi per intero il sistema delle banche venete, alcune eredi di istituzioni risalenti all'epoca napoleonica, altre alle prime istituzioni bancarie del cattolicesimo sociale di fine Ottocento. A ricordarne gli antichi fasti rimangono i meravigliosi palazzi sul Canal Grande oggi adibiti ad alberghi di lusso, le ville palladiane e i parchi adagiati sui colli trevigiani, prestigiose sedi ora semivuote e i jet personali dei top manager usati per inseguire i sogni di espansione verso l'Europa dell'Est e che si fatica a rottamare, ora che per coprire le distanze tra Vicenza e Montebelluna basta la bicicletta (vedi infra).

1995 e seguenti Casse di Risparmio meridionali (operanti in Puglia, Campania, Calabria, Sicilia). Furono crisi generate da relazioni clientelari, concentrazione del credito, rapporti con la politica. Sono state aggregate in banche più solide, come Cariplo, poi confluita in Banca Intesa.

1995 Banco di Napoli, originata dagli stessi fattori di crisi, dopo la fine degli interventi pubblici all'economia meridionale tramite la Cassa del Mezzogiorno, costò 12.000 miliardi di lire, con intervento pubblico a mezzo del cosiddetto Decreto Sindona. Assieme alle crisi avanti descritte, determinò la scomparsa del sistema bancario meridionale.

1998 Bipop di Brescia, uno dei tanti casi ricollegabile al fenomeno dell'uomo solo al comando. Gli esempi si sono replicati in un crescendo che arriva fino agli ultimi inquietanti episodi di mala gestio nelle banche di molte regioni d'Italia.

2002 Collocamento di prodotti bancari tossici denominati My way e Four you da parte del Monte dei Paschi di Siena e sue controllate. Lo scandalo costrinse alle dimissioni il vertice della banca e al rimborso di molti risparmiatori traditi. Le gesta della Banca 121, partecipata pugliese del Monte, sono ancora citate dagli addetti ai lavori come esempio di truffa finanziaria.

2003 Cirio, Parmalat e titoli di stato argentini. Le banche lucrarono commissioni collocando questi titoli senza avvertimenti particolari circa i relativi rischi nei confronti di sottoscrittori del tutto impreparati. Alcuni di questi titoli figurarono, anzi, fino all'ultimo tra quelli privi di rischio indicati dall'ABI.

2006 Banca Italease era la più grande banca italiana specializzata nel leasing immobiliare. Fu anche essa vittima della concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo e di affari con i "furbetti del quartierino", già noti per altre scorribande bancarie. La Banca è stato un boccone amaro da digerire da parte del Banco Popolare, che l'ha definitivamente incorporata nel 2015.

2006 Banca popolare italiana (già Popolare di Lodi assorbita dal Banco popolare) affidata alle virtù taumaturgiche del banchiere Fiorani. Si accreditava nella difesa della italianità di banche diventate appetibili da parte di banchieri francesi, olandesi e spagnoli.
La difesa, organizzata picarescamente, fallì, portando alle dimissioni il Governatore della Banca d'Italia, che aveva ingenuamente creduto in lui. In quella fase, passò di mano la proprietà di BNL, una delle più importanti istituzioni della storia bancaria italiana del Novecento e, pochi anni prima, tra le prime 10 banche del mondo.

2008 Monte dei Paschi, la più grave e la più lunga crisi bancaria, ancora aperta. Ha finora assorbito risorse per 30 mld, imponendo alla fine l'ingresso nel capitale dello Stato come socio di maggioranza. Sono ancora in corso i confronti con la Commissione europea e la Bce sulle modalità del salvataggio. La causa, ben nota, fu l'azzardato acquisto di Banca Antonveneta, avendo ottenuto l'autorizzazione delle autorità di controllo pur in assenza di due diligence. Quando, nel 2011, erano già in piena evidenza gli effetti deleteri dell'acquisizione, lasciò interdetti la nomina del maggiore responsabile a Presidente dell'ABI. Le vicende giudiziarie sono in corso.

2011 Crisi finanziarie di Alitalia e Ilva, ancora aperte; debiti verso le banche richiederanno la garanzia dello stato.

2012 Carige, decima banca per dimensione del sistema, compresa tra quelle  significant secondo la normativa europea di vigilanza. Scandali legati al rapporto tra banca e assicurazione e al lungo dominio del suo storico esponente sono le cause di una crisi da superare mediante un cospicuo aumento di capitale, ancora in via di quantificazione.

2015 Banca Etruria, Banca Marche, Cassa di risparmio di Ferrara, Carichieti, banche del territorio in risoluzione secondo la nuova normativa europea. Cause: mala gestio, ingerenze politiche, conflitti di interesse, strapotere nelle mani di pochi, operazioni creditizie non coerenti con le caratteristiche di banca locale. Acquistate per un euro da due grandi banche popolari. Costi per il sistema e la collettività: più o meno 5 mld.

2013/2017 crisi di tutte le ex casse di risparmio delle quattro province abruzzesi, fino alle più recenti Casse di risparmio di Cesena, di Rimini e di San Miniato; per le cause vedi sopra. Aggregate o da aggregare in gruppi di maggiori dimensioni.

2014-presente Banca Popolare di Vicenza e Veneto banca, anch'esse tra le prime 15 banche italiane sistemiche, secondo la classificazione dell'Unione bancaria. Cresciute in misura abnorme, per le velleità dei loro esponenti più noti, richiederà l'intervento pubblico di ricapitalizzazione a titolo precauzionale, per integrare gli apporti, non sufficienti, del Fondo Atlante, in vista della loro fusione. Gravissime le perdite per gli azionisti. Se questi ultimi non accetteranno una proposta di transazione comportante perdite per l'85 per cento del valore dei titoli, rinunciando nel contempo alle cause giudiziarie, ne verrà sancita l'insolvenza e il ricorso al bail-in, con il presumibile coinvolgimento di obbligazionisti e depositanti.

2014 e seguenti crisi di numerose banche di credito cooperativo, di dimensioni importanti per la categoria, operanti nel nord e nel centro Italia. Hanno richiesto onerosi interventi da parte del Fondo di Garanzia dei Depositanti e di quello temporaneo previsto dalla legge di riforma del settore, per evitare impatti diretti sul risparmiatore. Si è in attesa della costituzione di gruppi bancari cooperativi, per rafforzare la stabilità complessiva del sistema.

2017 Ricapitalizzazione indispensabile di Unicredit, da parte di fondi di investimento esteri per 13 mld di euro, per abbattere l'enorme quantità di crediti anomali.

In sintesi, le crisi hanno riguardato:

a) tutte le tipologie istituzionali (Banche SpA, banche popolari, banche di credito cooperativo) e di tutte le dimensioni (banche grandi, medie e piccole);
b) estese aree territoriali, con la sparizione del sistema meridionale e il forte indebolimento di regioni bancariamente importanti (Veneto, Toscana, Liguria, dorsale adriatica del credito, dall'Emilia Romagna alla Puglia). Si può finalmente e cinicamente affermare che in molte aree del paese non ci saranno più crisi bancarie perché... sono finite le banche!

Le crisi hanno visto:

c) il frequente collocamento di strumenti ad elevato rischio, senza adeguata informazione o con informazione distorta al consumatore, fino ai casi delle obbligazioni e alle azioni bancarie tossiche degli ultimi tempi;
d) l'avventurismo di non pochi banchieri, che non ha ricevuto a tempo debito adeguato contrasto dalle autorità;
e) vicende non sempre collegate con le fasi cicliche dell'economia e con la più recente recessione.

Al tempo dell'entrata in vigore del TUB nel 1993, che sancì la trasformazione della banca da istituzione per lo più pubblica in impresa privata e l'affermazione del modello di banca universale, qualcuno chiese se le autorità avessero una propria mappa per gestire la riconfigurazione industriale implicita nei mutamenti promossi con il nuovo quadro regolamentare.

La risposta fu che la selezione naturale da parte del mercato sarebbe stata più efficiente di qualsiasi intervento esogeno, che avrebbe avuto sapore dirigistico. Il sistema da allora si è senza dubbio trasformato, concentrandosi attraverso operazioni one by one, ma non per questo sembra diventato più robusto. Si è di fronte a una sorta di darwinismo a rovescio?
È ozioso anche interrogarsi se si debba trattare questa storia come una serie  di episodi singoli, per quanto gravi, o come crisi di sistema.
Quello che conta è l'impatto delle crisi bancarie sull'economia, sul grado di fiducia dei risparmiatori e sulla capacità delle banche medesime di saper svolgere, tramite il credito, azione di disciplina finanziaria e fiscale nei confronti del proprio principale cliente, vale a dire la piccola e media impresa italiana. Questi sono i costi socio-economici veri, al di là di pedanti calcoli in termini di effetti sul contribuente.
Soltanto se si riuscisse a fare un conteggio per quanto approssimato dei loro effetti sul rallentamento dello sviluppo economico del paese, fino al declino di cui ora molti parlano, troveremmo il peso vero delle disfunzioni del sistema.

Ora che una rinnovata politica bancaria viene da più parti invocata, i suoi esiti saranno utili per incidere sulla governance, sulla trasparenza dei servizi bancari e sul rinnovamento dell'industria? A quali condizioni l'educazione finanziaria elevata  a interesse pubblico agirà su questi fattori?

Per equità, dobbiamo toccare anche il tasto dei comportamenti opportunistici della clientela in caso di crisi della banca, tema al quale si richiama la posizione dell'ABI favorevole alla pubblicazione dei nomi dei primi cento debitori insolventi del Montepaschi, misura di quanto le banche siano state a loro volta vittime di indebiti condizionamenti da parte di lobby e clienti. Sono comportamenti che si verificano quando il debitore si pone nella posizione di sfruttare il maggiore potere contrattuale, causa indebolimento della controparte, trovando supporto anche nella politica.

Un aneddoto, tratto dalla vicenda del Banco di Napoli, subito dopo la decisione di passare l'enorme massa di crediti malati alla bad bank costituita allo scopo, può aiutare a spiegare meglio il punto.
Ebbene, un nostro caro collega, in posizione di responsabilità nella vigilanza di allora, fu avvicinato da un avvocato che gli chiese gentilmente di controllare se alcuni suoi clienti fossero presenti in quella lista, conservata nella massima riservatezza. Immediatamente quel collega capì che esservi inclusi avrebbe consentito ai debitori di ritardare l'adempimento delle obbligazioni contratte. Ovviamente egli si rifiutò di corrispondere alla richiesta, che avrebbe favorito fin da subito comportamenti di moral hazard da parte di soggetti ancora solvibili. Ma il segreto, come è facile comprendere, durò poco.

Sic transit gloria debitorum atque creditorum!

Ci sono numerose citazioni dotte che potremmo a questo punto fare sul rapporto tra apprendimento dai casi del passato e comportamenti futuri, chiedendoci perché questo processo da noi sembra tanto difficile a radicarsi.

Ragionare di queste cose e' complicato, anche perché mancano dati, informazioni ed analisi organiche sulle crisi bancarie. Nel formulare questo elenco ci siamo per lo più affidati alla nostra esperienza e ai nostri ricordi. Nella ricerca di fonti attendibili abbiamo trovato traccia di alcuni casi nella Mappa storico-geografico dell'archivio storico di Intesa Sanpaolo, ma non siamo stati in grado di accedervi compiutamente. Esso riguarda in ogni caso le istituzioni creditizie e finanziare che nel tempo sono confluite in quello che oggi è uno dei maggiori gruppi bancari europei.
I restanti casi sono singolarmente dispersi nelle relazioni periodiche delle autorità, nei resoconti giornalistici del momento, in articoli di qualche volenteroso studioso e nelle documentazioni giudiziarie. All'epoca della rete, non vi è documentazione completa da consultare, per una migliore comprensione della nostra più recente storia bancaria.

Tutte le crisi citate sono state sistemate con interventi di altre banche, con sacrifici a carico dei risparmiatori o dei contribuenti o con una combinazione di queste modalità, ritenendo che il costo sociale del fallimento bancario, piccolo o grande che fosse, sarebbe stato in ogni caso maggiore.

Con queste ripetute rassicurazioni, il sistema è spiaggiato nel 2014 sui lidi dell’Unione Bancaria, con poca consapevolezza circa gli effetti delle nuove regole europee di gestione delle crisi e senza una politica efficace per modificare le cause pervicaci e strutturali che lo avviluppano, come dimostrano le estenuanti trattative in corso con Bruxelles e Francoforte per la soluzione delle questioni ancora aperte.
Queste cause hanno tre nomi:

- governance barocche e pletoriche basate sul ruolo di soggetti quali le Fondazioni, da un lato vituperate, dall'altro osannate come salvator mundi e su assemblee oceaniche dei soci da palasport, entrambe  filigrane societarie che rendono il management irresponsabile, con ricchi bonus a prescindere dai risultati e titoli da capitalizzare, appena usciti, in altre prestigiose posizioni;
- enormità dei crediti deteriorati frutto della crisi, ma anche di comportamenti lassisti, da moral hazard e selezione avversa, sapendo ex ante che si troverà sempre chi pagherà per i dissesti, cioè i cittadini direttamente o secondo raffinate tecniche transitive;
 - asfitticità nella produzione di nuovi servizi bancari, causati da scarsa attitudine agli investimenti, dato che siamo il paese dove circola ancora più contante tra quelli dell’Eurozona.

Ecco perché non ci sentiamo di prestare attenzione alle due obiezioni che ci pare già di sentire di fronte a questa breve, ma anche lunga e non edificante storia, e che suonano più o meno così.
In fondo, la crisi di una banca fa parte dell’essenza del capitalismo, quella distruzione creatrice che dà vita al sistema stesso.
Dopo tutto, il cittadino come risparmiatore e come contribuente non ci ha  rimesso più di tanto, trascurando anche il fatto che molte grandi imprese debitrici sono state risanate con i soldi pubblici per ripagare proprio le banche.

Una vera educazione finanziaria dovrebbe trovare sempre più difficile l'accettazione di motivazioni a posteriori, che rievocano la leibniziana dimostrazione del migliore dei mondi possibili. C'è da credere che molti si siano definitivamente stancati di recitare sempre e soltanto la parte di Candide.

(G. Coppola e D.Corsini