sabato 30 settembre 2017

Tre fattori che condizionano la fotografia sono: età, cultura e contesto sociale – Opportunità offerte dal WEB






In qualche modo ci si avvicina sempre alla fotografia, anche perché oggi le infinite immagini che ci bombardano sono il metodo comunicativo più immediato ed efficace.
L’approccio con la fotografia attiva può essere occasionale, specie in età giovanile, ovvero rappresentare un’attività rilevante del nostro vivere quotidiano.
Di regola i linguaggi visivi in uso sono condizionati da molti fattori e fra i tanti spiccano tre elementi: la cultura, i contesti socio-politici in cui si opera e l’età.
La cultura a sua volta, si articola fondamentalmente su tre versanti, quello del fotografo, quello dell’osservatore/utente e la cultura collettiva vigente.
Chi fotografa segue il proprio istinto e utilizza una propria modalità di “scrittura” formatasi attraverso l’apprendimento e basata sulla sedimentata esperienza.
I contesti sociali in cui si vive delimitano per ognuno il proprio raggio di azione, così come l’età.
La realtà socio-politica in cui si opera è sostanziale sia per chi realizza le immagini che per chi le osserva o ne ha, per vari motivi, l’opportunità di visione.
L’età giovanile mette da subito in evidenza le potenzialità latenti in ciascuno, che successivamente le conoscenze e la pratica potranno affinare.
La prestanza fisica potrà aiutare nell’ampliare il campo operativo, ma anche in età senile il fotografo saprà sempre rivolgersi verso mutevoli scenari, grazie all’immaginazione che non invecchia, alle esperienze intanto consolidate, al saper riconoscere prima di altri quelli che potrebbero essere gli avvenimenti prossimi e, financo, i risultati finali.
Tornando alla cultura e alle realtà socio economiche in cui si opera è interessante soffermarsi sulle svariare opportunità offerte dal WEB.
Focalizzo, in particolare, l'attenzione su due applicazioni e, al riguardo, possono tornare utili delle considerazioni maturate attraverso l’utilizzo diretto di una delle due piattaforme recentemente dismessa.
Si tratta di “Panoramio”, un portale che consentiva a chiunque avesse un account Google di postare proprie foto con eventuale commento.
La facoltà di poter inserire anche dei TAG poi e, soprattutto, la possibilità di poter collegare le foto di contenuto “documentaristico” al luogo dello scatto (attraverso l’applicazione “Earth”), offriva opportunità di consultazioni fotografiche a chi accedeva a quest’ultimo sito.
Per assicurare la qualità e scremare da ripetizioni, le foto postate venivano tutte filtrate da operatori che valutavano l’idoneità per la pubblicazione.
Nonostante tutto, fortunatamente Google Earth conserva ancora foto selezionate di fotoamatori di tutti i continenti, postate nel tempo.
La bellezza principale di “Panoramio” era anche quella di accentuare le differenze culturali (fotografiche, nei soggetti scelti, nelle forme estetiche dei tagli e nei contenuto) che sono intrinseche a ciascuna appartenenza etnica.
La consultazione di immagini postate da un giapponese, un cinese, un americano, un africano, un mediorientale o un europeo mostravano infatti, con assoluta evidenza, le diversità e specificità culturali sottostanti alle realtà operative di ciascun fotoamatore.
In merito all’attualità, oggi, nell’epoca dei selfie, si è diffuso un altro prodotto che in qualche modo rispecchia le stesse peculiarità che aveva Panoramio, si tratta di Istagram.
Anche in questo caso tutti possono pubblicare di tutto e di più, ma la possibilità di utilizzare tags e di rendere autonomi gli agganci fra gli utenti consente ad ognuno, anche nel caso in ispecie, di selezionare accessi e fruizioni consone al proprio modo di essere.
Un infinito archivio di immagini anche qui è reso fruibile a tutti gli abitanti del pianeta, sarà nostra cura condividere ciò che più ci aggrada ma, soprattutto, collegarci e seguire tutto quello che cattura il nostro interesse, in ogni angolo del mondo.
In questa applicazione è sublimata la globalizzazione delle immagini, almeno quelle possibili nei contesti liberi, attivabile (nella produzione) da tutti, semplicemente per il tramite di un telefono cellulare.
Anche qui i “mi piace” ed ogni commento sono a discrezione ed anche qui sarà sempre costruttivo e prudente procedere seguendo certi criteri.
Così come in Panoramio, quello che domina in Istagram resta l’immagine, sia essa statica o in video. Sarà poi nostra cura procedere attraverso selezioni per trovarne utilità e possibilmente anche un diletto.

© Essec 


Whoisnemos? - Streetart - Omaggio a NEMO'S (Slide show)



https://youtu.be/5aSTTP8VCqc

La street art e la guerra alle apparenze. Intervista a NemO’S
Arte o non arte? Questo è il dilemma che si rincorreva nei giorni scorsi sui profili Facebook di molti utenti non solo messinesi. Oggetto dell’infuocata polemica i “dipinti” apparsi sui muri e sulle pensiline dei tram grazie a (o, per qualcuno, “a causa di”) Distrart, iniziativa finanziata da un progetto europeo condiviso dal Comune di Messina. E c’è chi è arrivato a definire addirittura “violenza urbana” quei murale: i passanti, secondo gli accesi oppositori, sarebbero costretti a subire lo “shock” di immagini “dure”, “cupe”, senza scegliere di farlo come avviene, per esempio, andando deliberatamente in un museo.

Per far sentire anche la sua voce, abbiamo contattato NemO’S, l’autore di queste opere tanto graffianti quanto dibattute, uno dei più noti, appassionati e intriganti street artist tra quelli sbarcati finora in riva allo Stretto.

“Parlare di violenza urbana – questa la sua obiezione – riferendosi a un disegno su un muro, in un paese come l’Italia che, a partire dagli anni ’80, ha subito gli effetti del boom edilizio con conseguenti abusi e illeciti, lo trovo assurdo. I palazzinari, la mafia, le giunte comunali che coprono una collina di cemento o svuotano un fiume che ciclicamente straripa portando danni e morti, creano violenza urbana. Dopo aver pagato dalle casse pubbliche più di un miliardo tra penali, oneri finanziari e costi di liquidazione per non realizzare il ponte sullo Stretto di Messina, costosissimo progetto considerato infattibile per ovvi problemi ambientali, sismici ed ingegneristici, c’è ancora qualcuno che parla di riprendere in mano l’idea di questo ecomostro di 3666 metri. Questa è violenza urbana non un disegno! Credo che, in un Paese dove crollano scavi archeologici, si sotterrano i rifiuti e i nostri paesaggi vengono continuamente invasi dalla speculazione edilizia, chi parla di violenza urbana per un disegno, un disegno che tra l’altro dovrebbe far pensare, debba sentirsi colpevole per tutto quello che viviamo. Si tratta di ignoranza: si ignorano i veri problemi che affliggono la società e ci si sofferma su un qualcosa più facile da criticare attraverso un commento mal argomentato su un social network. Se la gente riflettesse e pensasse in maniera diversa, si lamenterebbe del palazzinaro o della politica non di un disegno. Un viadotto sulla Palermo-Agrigento, è crollato dopo una settimana dall’inaugurazione ma nessuno ha parlato di violenza urbana. In Sicilia Ciancimino e tutta la mafia hanno costruito e speculato in zone meravigliose. Ragusa, Siracusa, Gela, Augusta, solo per fare alcuni esempi, sono state invase dalla speculazione edilizia. Chi parla di violenza urbana riferendosi a un disegno è un ignorante e con molte probabilità fa parte di quelle persone che hanno permesso e permettono lo scempio edilizio e gli ecomostri senza alcun accenno di ribellione. E’ come vivere in una stanza piena di merda e preoccuparsi che la libreria non abbia la polvere”.

Perché molti artisti come lei, Banksy su tutti (uno dei massimi esponenti della street art) preferiscono “nascondersi” dietro uno pseudonimo o una sigla?

“Non si tratta di una prerogativa della street art. Da sempre l’uomo ha sentito la necessità di crearsi uno pseudonimo per definire la propria identità: dagli artisti, scrittori, pittori, cantanti, attori, ballerini, ai politici, ma come anche ai partigiani o ai pellerossa; insomma da sempre, in tutti gli ambiti. La Tag diventa come un nome di battaglia attraverso la quale è possibile identificarsi e distinguersi dagli altri. Il writing è nato in un contesto sociale metropolitano di competizione dove persone e gang di vari quartieri dovevano affermare la propria presenza, e uno degli strumenti per farlo era la Tag. Ovviamente non si firmavano con il proprio nome, indirizzo e dati anagrafici ma usavano un nome di battaglia come centinaia di anni prima i pellerossa usavano nomi che ricalcavano ed esorcizzavano determinati caratteri e concetti. Ed è per questo che le prime Tag erano affiancate dalla parola One così da sottolineare e rafforzare l’unicità di quel nome di battaglia”.

Perché NemO’S?

“Quando ho cominciato a dipingere per strada ho dovuto decidere una Tag. Nemo allude a un fumetto dei primi dell’800 di Winsor Mc Cay che racconta di un fantastico mondo onirico, Slumberland, dove sono ambientati gli incubi del protagonista, appunto Nemo, ma anche al misterioso capitano di Julies Verne che “combatteva” contro la guerra e le ingiustizie del mondo nel silenzio degli abissi. Nemo dal latino si traduce Nessuno. Io ho sempre detestato le gerarchie e per questo non mi è mai piaciuto definirmi artista. E’ un appellativo che ti eleva rispetto a chi guarda l’opera, che crea un divario. Sono solo una persona che disegna e mi è sempre piaciuta l’idea di firmare i miei pezzi “nessuno”. Come se nessuna identità avesse creato quel disegno e come se questo fosse semplicemente comparso per magia. E’ cosi che, riferendomi ai disegni, aggiunsi alla Tag il genitivo “s” trasformando la traduzione e il significato da “nessuno” a “di nessuno” completando così quel paradossale modo di identificarmi”.

I personaggi dei suoi lavori sembrerebbero ingordi e corrotti. Appaiono degradati anche nel corpo. E’ impossibile un raggio di luce nel guasto della decadenza umana?

“I miei personaggi non sono ingordi e corrotti ma ricalcano nella loro estetica quello che penso della società umana e dell’uomo. Vedo l’essere umano come un sacco di pelle contenente delle viscere con poca coscienza e sempre meno altruismo. L’estetica attraverso la quale rappresento i miei personaggi vulnerabili, malati, goffi, impacciati, indifesi vuole essere una critica al senso di perfezione e immortalità al quale ci ha abituato la società di oggi. Si tratta di una riflessione personale sull’umiliante condizione dell’essere umano e sulle sue contraddizioni. Assolutamente non tocca a me e ai miei disegni alimentare alcun tipo di speranza. La speranza non esiste! Sono migliaia di anni che l’uomo ripete i propri errori. Quale speranza ci deve essere? Ci attacchiamo alla speranza nelle generazioni avvenire per cercare di giustificare così i nostri comportamenti. Si dovrebbe cercare il cambiamento e il riscatto nel presente ma la speranza nasce per concretizzarsi nel futuro. Tendiamo a giustificare silenziosamente attraverso questa attesa fiduciosa le nostre colpe rimanendo però immobili in una condizione di disagio e lasciando i buoni propositi a chi verrà dopo, idealmente più illuminato di noi. Ma anche “Poi” l’essere umano sarà mosso da questa sorta di illusoria auto giustificazione e riporrà tutte le sue buone intenzioni, aspettando che qualcuno, dopo di lui, faccia qualcosa di positivo”.

Alcuni personaggi brutalizzano, altri si fanno brutalizzare. Nel suo immaginario, perseguitati e oppressori sono entrambi come marci. Nessuno è incolpevole?

“Quando si parla di umanità si intende quel carattere essenziale e distintivo dell’uomo di potenziale capacità di comprensione che ci dovrebbe contraddistinguere dall’animale. Dovrebbe essere la prima parte di noi stessi ma troppo spesso questa caratteristica viene meno. I corpi molli e le carni flaccide sono la rappresentazione del degrado intellettuale e sociale che stiamo vivendo. La continua, subdola e spasmodica ricerca di una perfezione estetica ideale ha costretto l’uomo a dover sopravvivere in quella società egoista da lui stesso creata che ci ha trasformato in cartelloni pubblicitari di noi stessi. Siamo degli oggetti del consumismo, l’importante è funzionare esteticamente. Chiunque partecipi, chiunque abbia un ruolo negativo all’interno della società o chi rimane anche solo passivo rispetto queste dinamiche è colpevole. Sono un osservatore delle dualità umane con una predilezione per l’umorismo macabro e il cinismo. D’altra parte mi pervade un senso di meraviglia per il potenziale umano temperato dal disgusto per la nostra debolezza e follia. I miei personaggi sono la traduzione grafica di quel che sento e quel che provo ogni giorno. Le scene che rappresento sono paradossi, incubi che mi aiutano a descrivere scene di vita reale e di un mondo pieno di contraddizioni”.

Grandi pittori come, per citarne uno, Francis Bacon si sono espressi sempre nel modo più crudo possibile e c’è chi trova tuttora raccapriccianti i suoi capolavori. Perché alcune persone si indignano, giudicano orribile, si sentono offese da immagini che raccontano la degenerazione dell’uomo?

“Francis Bacon rappresentava nel suo lavoro l’ossessione dell’uomo per se stesso… poteva disegnare margherite? Bacon è uno dei miei artisti preferiti. Durante un’intervista gli era stato chiesto se aveva mai pensato di disegnare un sorriso, lui rispose che i suoi disegni erano proprio quel tentativo e i suoi quadri ne erano il risultato. Chi scrive, analizza e cerca di tradurre l’esistenza umana attraverso la filosofia, la scrittura, la musica, la pittura. Cosa dovrebbe fare? Dovrebbe parlarne bene o male? E’ ovvio che il possedere un minimo di capacità di analisi e di sensibilità porta a una riflessione sulle contraddizioni e sul malessere insite nell’umiliante condizione umana. La gente si indigna perché non vuole sapere, ha paura della verità e preferisce illudersi che il mondo sia bello, felice e pulito. Scappa dalla realtà delle cose per vivere nel facile mondo delle apparenze. Vuole vivere bene la propria vita. Vuole essere egoisticamente ignorante, vuole ignorare i problemi altrui, con arroganza cerca di vivere in una scatola che apparentemente sia il più perfetta possibile. La gente si indigna perché è fortemente egoista e superficiale con gli altri ma anche con se stessa, non ha voglia di sporcarsi la vita. Tutto questo è un circolo vizioso che non può che degenerare nell’individualismo, nell’ignoranza, nelle brutalità, in tutto ciò che è negativo e in tutto quello che cerco di rappresentare. Chi si indigna non vuole affrontare la sua vita all’interno del contesto sociale e non vuole sopportare ciò che potrebbe essere insopportabile. Ci sono due possibilità: o ci si chiude in se stessi nella ricerca di un’illusoria vita serena, o ci si sporca le mani documentandosi, cercando di capire e dannandosi la vita nell’analizzare la contraddittorietà dell’esistenza umana”.

I suoi lavori si trovano anche a Londra, New York, Madrid… Come valuta la sua esperienza messinese rispetto a quella nelle grandi città estere?

“Ogni città ha le proprie caratteristiche. A New York, nonostante sia una delle città più grandi e moderne del mondo e il popolo americano sia aperto e composto da centinaia di sfumature di culture e di etnie diverse, ho dovuto censurare un pene perché stavo disegnando in un quartiere di ebrei ortodossi. Messina in confronto è un piccolo paese ma allo stesso tempo possiede una grande storia culturale che l’ha portata a essere citata nell’Odissea. Posizionata sul mare, su uno stretto, animata da secoli da un viavai di popoli e persone. E’ qualcosa di più di una semplice città di mare, è la connessione con la terra ferma, punto di sbarco dei migranti e di persone che scappano da situazioni tragiche. Purtroppo come in tante altre città italiane, da nord a sud, ho trovato una realtà chiusa fatta di ignoranza e provincialismo: il nord ha i propri meccanismi malati e il sud idem. Ovviamente in tutti i paesi ci sono censure, ma nelle capitali europee hanno caratteri diversi: in alcune più dal punto di vista politico e sociale, in alte religioso… A Messina c’è stato chi ha difeso il disegno e chi lo ha totalmente criticato. C’è spesso un equilibrio tra critica e approvazione, è normale. Ma la differenza è stata che in una città come Messina si discute di violenza urbana riferendosi a un disegno quando in realtà di violenza urbana ce n’è in abbondanza e nessuno ha mai detto nulla per una questione di opportunismo e qualunquismo! E’ molto più semplice giudicare in maniera anonima un disegno che sporcarsi le mani e spendere il proprio tempo per cercare di polemizzare su un ecometro. La differenza tra Messina, l’Italia in generale e le altre città credo sia il qualunquismo e il populismo di chi critica, la chiusura mentale e il disinteresse. E l’egoismo totale rispetto ai veri problemi”.

Cosa pensa di chi fa arte di strada illegalmente?

“Io appoggio totalmente chi fa arte illegale, la street art e il writing sono nati in questo modo. Non appoggio l’illegalità delle cose in quanto tale ma condivido a pieno e continuerò a fare arte illegale perché rappresenta la massima libertà espressiva di una persona. Questo significa non avere un luogo, delle restrizioni o delle regole dal punto di vista espressivo. Fare arte illegale crea un potenziale espressivo superiore. Chiunque può esprimersi, non ci sono selezioni, non ci sono giudizi, non ci sono preconcetti. Ovviamente ci sarà sempre chi farà meglio o peggio, ma non si può e non si deve togliere la libertà di espressione a nessuno. Per me l’arte illegale è la summa della libertà espressiva”.

L’arte urbana col tempo si sta sempre più “istituzionalizzando”. In molti si chiedono se questo non sia un controsenso per un’espressione artistica che nasce anche come condanna nei confronti delle società capitalistiche e del loro sistema basato su interessi specialmente economici?

“Street art, writing e arte urbana non nascono per criticare la società capitalista nella maniera più assoluta ma come battaglia tra gang dei quartieri delle grandi metropoli. Gli stessi writers, col tempo diventati famosi, hanno iniziato a collaborare con brand come Nike e Adidas. La street art non nasce come condanna. Banksy è, da un certo punto di vista, come il padre della street art al quale tutti quelli che fanno street art devono qualcosa. Lui ha iniziato a illustrare meccanismi sociali controversi e paradossali ma questo non significa che la street art sia nata per questo. Si tratta di una corrente di libertà espressiva che viene fatta e viene creata nell’ambiente urbano ma assolutamente non  nasce con lo scopo di denunciare qualcosa. Detto questo, ci sono ovviamente artisti che analizzano e rappresentano la società in tutte le sue forme e contraddizioni, compreso il capitalismo, ma come veniva fatto, con mezzi diversi, nella satira medioevale censurata dalla Chiesa cattolica, durante la Belle Epoque, la rivoluzione francese o le guerre mondiali. Vedo la street art come la massima possibilità di libertà espressiva di un individuo che di conseguenza decide di esprimere quello che vuole. Ci sono street artist affermati che fanno pura estetica e che collaborano con brand più o meno famosi, più o meno considerati capitalisti, altri che hanno collaborato con società energetiche, istituti bancari, case automobilistiche. Se farlo o meno è a discrezione dell’artista. La street art in questo momento è una moda, è un qualcosa che può portare soldi e chi è abituato a speculare cerca di farlo; da qui la necessità di tanti di istituzionalizzare un’arte nata come libera. Ma più grave di chiudere uno street artist in una galleria, è chiamare un illustratore che non ha mai dipinto un muro a farlo, senza considerare che la street art ha un suo passato. In questo modo attraverso finti festival, finti progetti di riqualificazione e finta street art, la gente percepisce un qualcosa di snaturato, sfruttato e spremuto per i soli interessi economici. Questo è il vero danno che sta subendo la street art”.




martedì 26 settembre 2017

Archeologia industriale: Palermo "ex Chimica Arenella" (Slide show)




"L'ex Chimica Arenella, è una ferita aperta nella storia di Palermo. Lo stabilimento, costruito nel 1909 e chiuso nel 1987, ricorda un sogno industriale ed europeo di un'epoca gloriosa che non c'è più. In attesa della sua riqualificazione, tante volte annunciata e mai realizzata, vi portiamo tra i capannoni di un pezzo di storia del Novecento palermitano.
Chi si avventura tra i suoi ferri vecchi e gli edifici diroccati e abbandonati, ha l'impressione di trovarsi nella città dei fantasmi. Eppure quegli stabilimenti che si affacciavano sulla costa, un tempo erano la sede della più grande fabbrica di acido citrico italiana. Anzi no, europea.
La Chimica Goldenberg, meglio nota come Chimica Arenella dal nome dell'omonima borgata, fu costruita nel 1909 su iniziativa di una cordata di imprenditori ebrei tedeschi per la produzione ed il commercio di acido solforico, citrico, tartarico e citrato. Erano i tempi in cui la Palermo dei Florio sognava in grande: gli investitori europei guardavano con interesse il tessuto produttivo palermitano, e la sua posizione invidiabile nel cuore del Mediterraneo. Chiuso nel 1987, oggi il glorioso stabilimento si presenta così.
La chimica Arenella non era soltanto uno stabilimento, ma costituiva un esempio architettonico riconducibile, in alcuni suoi edifici, allo stile e al periodo liberty. Adesso, invece, rappresenta uno dei maggiori siti di archeologia industriale dell'intera isola.
Il complesso era costituito da 14 edifici, oggi in totale abbandono e spesso utilizzati come una discarica a cielo aperto a dispetto della felice collocazione geografica: a fianco di uno dei più suggestivi siti balneari della città.
Se ci si imbatte nella sua struttura si stenta a credere che la Chimica Arenella fosse la più grande fabbrica di acido citrico d'Europa: un polo strategico per lo sviluppo delle borgate marinare nate attorno alle tonnare, che crebbero negli anni successivi grazie ad interventi architettonici come la costruzione di Villa Igea e dell'Ospizio Marino.
Dietro le mura dello stabilimento si celano tantissimi episodi legati allo sviluppo tecnologico e industriale del Paese. Ma anche a storie di spionaggio avvenute durante la Prima guerra mondiale, non del tutto inverosimili dal momento che la fabbrica era di proprietà tedesca, anche se diretta da italiani.
Quello che resta è un’area di quasi 74 chilometri quadrati, che negli ultimi 15 anni è sempre stata uno dei nodi fondamentali nei programmi elettorali delle varie giunte comunali e regionali. Oggi somiglia più ad uno scenario tratto da The Walking Dead, nonostante sia un caso di studio per molti studenti e ricercatori, che si sono cimentati nella redazione di moltissimi progetti, "regalati" al Comune e rimasti sulla carta.
L’ex Chimica Arenella potrebbe essere il luogo di rilancio di un intero quartiere, quello appunto dell'Arenella, che da borgata marinara si è andata trasformando in periferia, con tutta l’accezione negativa che il termine racchiude. Un isolamento legato alla mancanza di servizi e di spazi pubblici per gli abitanti.
" (fonte: http://www.cafebabel.it/palermo/articolo/palermo-factory-quel-che-resta-della-chimica-arenella.html)

Immagini e montaggio: Salvatore Clemente (http://www.toticlemente.it)

Brano musicale: "Tutto" degli INDICATIVE, tratto dall'album "Indicative" realizzato nel 2009 (https://www.facebook.com/indicative/)


Palermo, chiude il teatro Ditirammu: "Non possiamo sostenere i costi"






Non è bastata l'ondata di affetto e commozione dopo la morte improvvisa del fondatore, Vito Parrinello, non è bastato il pubblico che ha affollato l'atrio per la rassegna estiva: il Teatro Ditirammu chiude, sospende le attività dopo l'ultimo appuntamento estivo, con tutta l'amarezza espressa dalla lettera aperta di Elisa e Giovanni Parrinello, letta ieri alla fine dell'ultimo spettacolo.
"Magari è vero che Palermo non ha bisogno di noi - dicono i due fratelli - Innanzitutto non riusciamo a sostenere i costi. La nostra non è una guerra alla pubblica amministrazione, alla quale però chiediamo coerenza rispetto alle tante attestazioni di stima, Spetta all'amministrazione trasformare questo apprezzamento in sostegno. Abbiamo bsogno di capire se ci sono i presupposti per tenere aperto questo spazio  nella capitale dei giovani e della cultura".