martedì 29 marzo 2022
“Ruba come un artista” di Austin Kleon
Pierfrancesco Favino, l’attore, durante un suo intervento in una recente trasmissione televisiva pomeridiana, venne a raccontare che in occasione dell’ultima festa del papa’ le sue due figliole gli avevano fatto trovare in casa una serie di bigliettini, disseminandoli lungo il suo percorso abituale mattutino. Una specie di caccia al tesoro in territorio domestico.
I biglietti riportavano tanti pensierini di augurio e altro ancora; quello per lui piu’ bello era stato scritto dalla figlia maggiore. Volle raccontarlo, in una sintesi, evidenziando come la primogenita gli scriveva che l’insegnamento più grande che aveva ricevuto da lui non erano i tanti discorsi, le raccomandazioni, i rimproveri, ma l’esempio dato come padre; cioè con quel messaggio equilibrato e composito manifestato attraverso il vivere quotidiano, che non necessita di parole esplicite ma che costituisce un modello da osservare sempre, per rubarne l’essenza e adattarlo a se stessi.
In un piccolo volume, Austin Kleon suggerisce come imparare a copiare. Diverse sono le citazioni richiamate allo scopo, come quella di T.S. Eliot che recita: “i poeti immaturi imitano, i poeti maturi rubano; i cattivi poeti rovinano ciò che prendono, mentre quelli buoni ne traggono qualcosa di meglio, o almeno qualcosa di diverso. Il buon poeta amalgama ciò che ruba in un sentire complesso che risulta unico, assolutamente diverso da ciò da cui è stato tratto”.
Citando poi Jonathan Lethem riporta che “qualcosa è originale, nove volte su dieci, perché non si conoscono i dettagli delle fonti”. Poi riportando un pensiero di Andrè Gide “Tutto ciò che era necessario dire è già stato detto: ma visto che nessuno stava a sentire, bisogna ripetere di nuovo ogni cosa”.
Un libretto di piccole fattezze, questo di Kleon, con una raccolta di pillole di tanti autori e con anche delle sue considerazioni che inducono a riflettere sul fatto che, in sostanza, tutti gli artisti rubano e imparano a copiare idee per cercare di essere più creativi, nel lavoro e nella vita (edizione Vallardi del 2012, che ha avuto nel tempo molte ristampe).
Sia l’aneddoto di Favino che il saggio di Austin Kleon possono essere ribaltati nell’apprendimento in fotografia. Anche in questo caso buoni insegnamenti e metodi di apprendimento sono pressocchè similari.
In altra circostanza si è avuto modo di parlare di passione e di talento, ma anche qui valgono più gli esempi dei maestri, che costituiscono i veri strumenti che aiutano nel far uscire il potenziale in chi ha qualcosa da dire.
Workhop e corsi di fotografia in genere, quindi, frequentati principalmente per affinare conoscenze diventano, per gli allievi, occasioni non soltanto per apprendere nozioni o imparare tecniche nuove, ma anche opportunità che consentono di porre l'attenzione sugli insegnanti; non tanto marcandoli stretti per poi operare un semplice copia-incolla ma osservandoli all’opera, nel loro lungo sguardo, catturando scelte e tempi nel loro fare distratto.
Altro aspetto importante è anche la voglia di ricerca. Già in un altro scritto si venne a parlare dell’irrequietezza che è insita in fotografi intrapredenti, i quali, a prescindere dall’aver eventualmente raggiunto un riconosciuto valore, continuano sempre a sperimentare, rinnovandosi attraverso continue prove.
Per loro, mettersi in discussione e rischiare non è mai un problema, anzi è quel fuoco miscelato di curiosità e di divertimento che costituisce una molla che alimenta voglie creative. In questa chiave, del resto, sono infiniti i percorsi percorribili.
Buona luce a tutti!
© ESSEC
mercoledì 23 marzo 2022
"La forma della musica" di Sura Bizzarri
La nostra Sura narratrice stavolta propone una sua riuscita "scrittura sonora" di una famosa favola sinfonica, sulla quale in diversi si sono cimentati nel ricercarne letture ed esecuzioni originali.
La cadenza delle frasi e delle parole, con un pò di fantasia, lasciano infatti immaginare i singoli strumenti nell'esecuzione di versatili musicisti impegnati in un corcerto, con tutti i crescendi e le pause che potranno essere, al termine della lettura, verificate nel confronto con lo spettacolo accessibile su You Tube che, per evitare delle distrazioni, si andrà ad indicare alla fine del racconto.
Buona lettura.
© ESSEC
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"La forma della musica" di Sura Bizzarri ©
Dall’altopiano vedevo le luci della città, lontane, nell’aria diafana e spessa di tanta distanza. La sera quelle luci brillavano forte, al pari e più delle stelle. E i suoni che riuscivano a raggiungermi erano piccoli boati ovattati, squarci nel silenzio dell’orizzonte che dilatavano i confini ristretti del mio territorio. La fattoria, le mucche, il rumore delle zappe che affondavano nel terreno.
La limpida esattezza dei gesti degli uomini nei campi. E quelli delle donne, ripetuti con monotona ma viva continuità nelle cucine. Ero sopraffatto dal mio mondo, dalla sua saggezza, dalla manualità con la quale era capace di trarre sostentamento dalla natura.
Quella era la mia musica, la prima che conobbi, la più importante. Il muggito delle mucche, le loro campane nel vento, il belare delle pecore, il suono delle seghe, le voci degli uomini, i loro canti senza strumenti. La mia musica era il tonfo degli scarponi nei solchi allagati dopo le piogge, era il fruscio della stoffa lungo gli attrezzi e il respiro gonfio di erba degli animali.
Il mio suono era la lentezza, quella dei gesti antichi e quella dell’attesa, l’attesa perenne. Delle stagioni, dell’essiccamento dell’erba accumulata, della maturazione dei frutti e delle messi in estate.
L’attesa della tosatura e del sabato sera per incontrare gli altri, della domenica per riposare. L’attesa confusa ma evidente che qualcosa evolvesse, che il grumo che sentivo in gola trovasse il coraggio di esplodere. E quell’attesa io la misuravo col ticchettio dell’orologio sulla parete della cucina, a sinistra della stufa, col continuo soffio dei miei respiri, col rintoccare delle campane e i rumori domestici. Con le voci di casa mia.
Sono stato cresciuto nella gratitudine, ho sempre ringraziato per quello che avevo. La mia gatta nera era nervosa, si lasciava accarezzare ma di tanto in tanto tirava fuori gli artigli. Ho sempre reso grazie di avere al mio fianco una pantera così lucente. Così come ho apprezzato le mie gambe forti che mi portavano in alto, sui monti con gli animali. Ho trovato conforto nella solitudine e nel suono delle grandi vallate vuote percorse dal vento che si soffermava nei tiepidi passaggi fra le rocce. E nel ticchettare della pioggia sul terreno solido che si scioglieva in zaffate di polvere.
Il mio poco, il mio niente ha riempito la mia vita.
Il suono del mio territorio era la musica, l’unica che io conoscessi. Le luci lontane, le voci che in certi giorni di vento arrivavano fino a me mi davano coscienza che il mio tutto era in realtà un contenitore. E, a quel pensiero, il suo perimetro si incrinava.
La curiosità mi spingeva a pensare, a immaginare la città. Quella che stava là sotto e alle tante città che popolavano la terra, come galassie lontane. Troppo lontane, impossibili da raggiungere, solo da immaginare come semplici immagini proiettate. Ma i loro suoni, che percepivo lontani, ne facevano cose vive.
Fu la solitudine a spingermi all’ascolto dettagliato di qualsiasi rumore. Li incameravo, li setacciavo, li scomponevo in ogni loro più piccolo componente. E, sempre in solitudine, ritmavo le loro sequenze coi legnetti.
Ero un registratore; concatenavo i muggiti delle mucche, i cinguettii degli uccelli e i gorgogli dell’acqua del fiume intorno ai sassi o ad altri piccoli ostacoli fino a ricavarne, nella mia testa, colloqui, frasi elaborate e sinfonie.
Fu una sera; mi ero attardato col gregge fino all’ora blu del crepuscolo. Quando cominciai a scendere l’aria si faceva tagliente. La sera era completamente serena, il cielo grande e sgombro, la luna bassa riempiva il suo cerchio di pallore e l’aria si muoveva senza una direzione precisa. Uno strano nervosismo scorreva nelle mie vene, trasmesso dalla paura innata del gregge per l’oscurità.
Il suono del vento era pulito, i passi delle pecore picchiottavano il terreno già indurito dalla sera.
Non facevo che guardarmi intorno mentre lontano la città cominciava ad accendersi.
L’aria impazzita di uno strano vento scomposto portava odori ancora caldi di sole e lievi fruscii accidentali si mescolavano all’ondeggiante avanzare del gregge.
Girando appena lo sguardo oltre i fruscii più immediati scorsi due occhi che attraverso la vegetazione si muovevano ansiosi. Mi soffermai appena, abbassai lo sguardo sulle scarpe e mi piegai ad allacciarle, per prendere tempo, per valutare meglio il pericolo.
Il suono di quella sera era un movimento lento che cresceva in piccoli dettagli veloci. Era un suono fluido, che scorreva e si arricchiva di elementi inaspettati. La mente elaborava freneticamente, attenta alla guida del gregge ma catturata al contempo da mille stimoli.
La sinfonia cresceva, impazzita, fra i rumori che giungevano lontani, ovattati, tradotti e predigeriti dalla distanza e quelli più vicini, fragranti, racchiusi dal cerchio del gregge, dal suo fiato caldo che profumava dell’erba appena brucata, circondati dagli scricchiolii sinistri del bosco.
La presenza che avevo percepito era un suono basso che ci seguiva; riuscivo a percepirlo, a distanza sempre più ravvicinata, nella mescolanza degli altri suoni che componevano la sinfonia della discesa. Quel suono profondo ci tallonava, a tratti lo intuivo limpidamente, da destra, da sinistra, dappertutto. Era una nota imprevista; non che fosse stonata, non che dissentisse dall’amalgama degli elementi, al contrario completava e arricchiva perfettamente la composizione. Al contempo, in suo interloquire basso e aritmico era la voce del pericolo.
Il gregge procedeva incurante ma il suo suono disperso nell’aria della sera aveva una nota indecisa, timorosa, quasi malinconica. Il suo biascicare tremolante, la nota stridula dei capi più giovani, il lento mormorio di quelli attempati e consci delle distanze erano la musica dei fragili, degli esposti ai possibili imprevisti, degli indifesi. E man mano che la figura intravista appariva occhieggiando ai lati del nostro cammino il cielo terso e immobile lanciava sibili di turbolenze lontane. Il gregge stesso, in un clima di crescente presagio, cominciava a intuire. Il belato si intensificava in andanti mossi e il percorso appariva ancora lungo.
Avevo commesso un’imprudenza nell’attardarmi fino all’imbrunire, ma nell’agitazione dell’evidente pericolo avvertivo la sfida di qualcosa che stava nascendo, di un’intuizione, di un’emozione complessa che si faceva duttile e che si lasciava tradurre in musica, nella mia musica, quella composta dai suoni che collegavo e mettevo in continua comunicazione creativa.
Le incursioni della figura si facevano sempre più ravvicinate e taglienti, tanto che le pecore cominciavano ad ammassarsi e sovrastarsi scompostamente, a rompere la monotona cadenza della discesa. L’andante mosso era diventato un rapido, la sinfonia stava acquisendo aria e forza.
Gli archi della vegetazione sollecitata e mossa dal nostro passaggio suggerivano il trascorrere del tempo. Ad ogni passo successivo la sinfonia diventava più piena e completa. Il suono di quel momento, la fotografia emotiva di uno spazio temporale.
Il mio cuore ora si aggiungeva martellante, un tamburo di verità. E l’agitazione del gregge, i passi veloci ma incerti, il chiaro odore del pericolo nelle loro narici, forte come quello del sangue, come il sapore metallico della macellazione era moltiplicato dall’oscurità e dall’affollamento. Ed un’ulteriore grancassa, più profonda e sicura, quella del lupo che compariva a tratti, sempre più vicino, da direzioni diverse, anch’egli impaurito e ridotto ai minimi termini ancestrali, proprio come noi.
I sensi all’erta, il suono del suo, del mio cuore, della moltitudine dei cuori che nel gregge martellavano tribalmente.
Quella che percepivo era la sinfonia crescente della vita, della lotta, della esemplificazione più spicciola dell’emozione.
La paura, su tutto. E la fuga. Le luci lontane e il buio profondo che mi poneva inevitabilmente davanti alle mie possibilità, alle capacità. Io stesso era la notte. Il blu del crepuscolo era dappertutto. Ed era musica, anch’esso.
Gli occhi dell’animale erano estremamente vicini, avvertivo il loro tocco fulmineo, il loro sfavillare. Cercavano, si insinuavano fra le pecore, valutavano. Si muovevano fra le stoppie, mi guardavano, sondavano il mio stato d’animo, studiavano ogni angolazione, le zampe tremanti pronte al balzo improvviso.
E i miei occhi, dilatati, sovraesposti all’aria serale, erano i fari della mia percezione, erano la bussola che mi guidava, i fiumi attraverso i quali nuotare via veloci e schivare l’agguato. Erano le armi che avrebbero potuto salvarci.
Il suono stridulo del sangue che percorreva e gonfiava i capillari fu il completamento della mia sinfonia, lo stantuffo dei battiti cardiaci nelle orecchie era un sottofondo che dava forza e genuinità alla composizione. Che la rendeva sanguigna e vera e autentica.
Mi soffermai leggermente mentre i miei timpani sembravano impazzire e la testa si lasciava intorpidire da un formicolio che quasi mi toglieva equilibrio.
Guardai in basso, valutai le distanze, lasciai che il gregge si stringesse come un gomitolo di lana ben tirato e alzando gli occhi lui era lì, davanti a me, le quattro zampe dritte e forti, gli occhi fissi. Il suo fiato si addensava come nebbia, le orecchie ben dritte erano antenne formidabili.
In quel momento il mio corpo si sciolse completamente e ogni fruscio, ogni leggero suono aggiuntivo, ogni movimento diventò parte integrante della mia musica.
I miei sensi erano completamente sintonizzati sui suoni che mi circondavano che, fondendosi, alternandosi e scambiandosi racchiudevano e moltiplicavano il senso di quell’esperienza.
La scena rimase immobile. Il corpo del lupo teso ed efficiente, il mio abbandonato, accecato e annientato, il gregge completamente immobile.
Il silenzio racchiudeva l’emozione di ognuno di noi ed evocava tutto ciò che era trascorso. Davanti a noi l’inesplicabile volontà del futuro, che esulava dalle nostre volontà e le sopraffaceva.
I muscoli tesi del lupo erano pronti al balzo quando un suono inaspettato si accavallò agli altri. Non si trattava dei rumori forti dei lavori degli uomini, né del canglore delle stoviglie, era in realtà un suono molto semplice, elementare. Uno scricchiolio che non proveniva immediatamente dalla nostra scena. Evidentemente qualcuno si stava avvicinando. Uomini, animali, presenze celate dal buio. Un piccolo particolare interveniva a turbare la tensione.
Anche le cose più insignificanti hanno un loro ruolo e ad esse ci aggrappiamo con ferocia e fermezza quando la posta in gioco è estrema. In realtà quel momento fu probabilmente deciso dal caso; chiunque stesse esplorando la foresta, lì vicino a noi, chiunque si aggirasse alla ricerca del suo gregge, a caccia, o solo a consumare un incontro d’amore riuscì a minare il perfetto equilibrio che teneva tutti noi fermi, ognuno in attesa della decisione dell’altro. In attesa della detonazione.
Il mio straniamento si aggrappò a quel suono e gli occhi bassi, intenzionalmente puntati sul terreno, si alzarono per incrociare quelli del lupo. Le orecchie fischiavano forte quando i nostri sguardi si unirono, pupilla contro pupilla. Ci sondammo a vicenda cercando le nostre intenzioni; paura, solo paura riuscii a captare negli occhi fermi del lupo. Le sue orecchie, al pari delle mie, tentavano di capire da quale parte giungesse la presenza che avevamo intercettato.
Il tempo è un parametro oggettivo ma può dilatarsi o contrarsi durante esperienze particolari.
Quel momento che oggettivamente durò in tutto qualche minuto stabilì fra l’animale e me un legame che appariva duraturo, nel quale la mia e la sua volontà improvvisamente erano diventate la stessa. Fuggire. Tornare ognuno al suo ambiente, riconoscere la musica usuale del nostro tempo, quella che ci aveva cresciuti e accompagnati fino a quel momento.
Non ci furono slanci, il lupo non si gettò sul gregge, io non imbracciai bastoni per difendermi, le pecore rimasero ferme e mute in uno stato d’animo che, modulato sulle nostre capacità di sentire, investì tutti contemporaneamente.
Non ho mai capito chi fosse intervenuto a salvare le nostre vite, così come non ho mai saputo se il lupo ci avrebbe veramente attaccati o se, anch’egli intimorito, volesse solo difendere il suo spazio.
Quell’esperienza è riuscita però a indirizzare la mia vita, a dipanare il groviglio di sensazioni che mi spingevano verso la conoscenza, verso l’apertura a nuove realtà e al contempo mi legavano sempre più saldamente al mondo atavico che mi aveva concepito e che sentivo come un guscio capace di proteggermi da quello che sarebbe stato.
Nel crepuscolo di quella sera calma ed uguale ad ogni altra sera ho palpato con ogni mio senso la forma della musica.
E nel tempo a venire, forte di quella consapevolezza che ha cambiato il mio modo di udire i suoni ho composto la mia opera più cara, “Pierino e il lupo”.
Ringrazio i boschi, il vento, l’ora blu dell’imbrunire nella quale mi sono attardato, tutti i suoni che hanno accompagnato la mia vita... e il lupo.
(Sergej Sergeevic Prokof’ev)
Di seguito il link per poter visionare lo spettacolo bolognese di "Pierino e il Lupo" di Prokof'ev (nella versione: Abbado-Benigni), trasmessa anche dalla RAI: https://youtu.be/cwXXUwcKWUQ
domenica 20 marzo 2022
“Universi silenziosi” di Arianna Di Romano
Una fotografia coinvolgente la sua. “Universi silenziosi” di Arianna Di Romano, curata da Gabriele Accornero, è una mostra molto bella, allestita in uno spazio originale che esalta anche le immagini proposte, dove forse unico difetto – se proprio lo si vuole ricercare come pelo nell’uovo - potrebbe essere costituito da dei noiosi riflessi causati da una illuminazione problematica, causata dal posizionamento di potenti faretti.
Tranne alcune eccezioni, ogni singola immagine costituisce di per sé un racconto che, in qualche modo, per chi ha visitato i luoghi fotografati, ha anche la forza di far rivivere esperienze analoghe - e un po’ dimenticate - fatte in passato in viaggi asiatici o in scorribande con amici effettuate in giro per i paesi di Sicilia.
Le fotografie esposte dalla Di Romano, a Palazzo Branciforte di Palermo, nell’evento che si chiuderà il prossimo 19 giugno, le sconoscevo e nemmeno conoscevo l’autrice.
Al riguardo devo confessare che è stata, quindi, una gran bella sorpresa potere ammirare una moltitudine di scatti che, in alcuni casi, oltre all’indubbio fascino esotico, catturano immediatamente lo sguardo dello spettatore.
Come si usa dire, le foto della Di Romano bucano (e di più, almeno per me, quelle in bianco e nero) e durante la visita si resta folgorati dinanzi a molte opere che assumono anche un maggiore spessore nel particolare contesto architettonico in cui è ospitata.
L’ingresso nell’occasione è stato gratuito, come capita spesso alle inaugurazioni, ma il costo del biglietto previsto per le visite, almeno per gli appassionati di fotografie - e non solo per loro - costituirà un piccolo piacevole obolo in relazione all’occasione offerta di venire a conoscere angoli delle bellezze del Palazzo Branciforte e potere ammirare le tante belle fotografie di Arianna Di Romano esposte.
Di certo è ancora un’importante opportunità culturale per la Città di Palermo, che presenta una mostra fotografica dove, molte delle immagini, si richiamano ai canoni di un certo modo di fare fotografia che fa assaporare il gusto delle opere d’autorevoli e famosi fotografi.
Per inciso, in parallelo, della stessa autrice è allestita a Ferrara la mostra dal titolo “Oltre lo sguardo” (Palazzina Marfisa D’Este dal 20 febbraio al 12 giugno 2022), curata da Simonetta Sandri, che propone tante altre foto del suo già ricco archivio.
La mostra di Palermo, qualora ce ne fosse stato bisogno, costituisce l’ennesima riprova che sono molti i talenti italiani che riescono a sviluppare una fotografia autorevole e che, alla cura dell’estetica, associa una narrativa che oltrepassa l’immagine.
Per avere maggiori informazioni sull’autrice e la sua fotografia si potrà accedere al suo sito web.
Buona luce a tutti!
© ESSEC
P.S. - Una sintesi della mostra nello slide show postato su You Tube
sabato 12 marzo 2022
Serate Fiaf: "Parliamo on line di fotografia" con Enrico Genovesi
Enrico Genovesi è uno dei pochi fotografi che fanno della generosità un loro punto di riferimento, il che rappresenta un aspetto di forza del suo messaggio.
Le sue tante foto e progetti offrono elementi che tendenzialmente confondono e miscelano le interiorità del fotografo con quelle del soggetto fotografato.
La fotografia di Enrico può, anche per questo, essere definita “coinvolgente e partecipativa”. Nel senso che con le sue immagini il fotografo cerca di condurre l’osservatore a immedesimarsi nelle umanità da lui rappresentate. L’aspetto introspettivo si fonde con complicità, in sintonia e piena empatia.
Le immagini traspaiono un aspetto quasi cameratesco con i soggetti fotografati. In ogni caso, le tematiche più generali pongono in attenzione sempre delle particolarità che riconducono al singolo come individuo.
Nelle sue fotografie non c’è mai una prevenzione o prevaricazione. Il suo approccio è sempre aperto, per andare a leggere e ricercare in ogni occasione qualunque opinione e ogni punto di vista.
Il fideistico, l’agnostico o il laico non costituiscono barriere e nemmeno una differenziazione nell’approccio o nel conseguente sviluppo estetico: quindi, le caratteristiche specifiche del soggetto/oggetto preso a tema da svolgere ha di per sé e sempre poca importanza nell'analisi e nella realizzazione del progetto.
La sua è una fotografia abbastanza obiettiva (per quanto possa essere veritiero ogni scatto fotografico, sempre parziale e personale rispetto alla realtà che si inquadra, in una scelta comunque selettiva) che, alle sedimentazioni di studio, associa una sensibilità personale, per proporre una lettura degli ambienti e delle persone, ogni volta che la viene a rappresentare.
Nomadelfia, per certi versi, tende a creare oggi una sintesi del suo modo di fare fotografia.
In questo suo ultimo progetto Enrico, infatti, mette a frutto le tante esperienze accumulate e maturate negli anni, con in piu' la sua maggiore affinata sensibilità.
Il tutto per raccontare attraverso due piani di livello di messaggio: un primo essenzialmente estetico artistico, che blocca l’occhio di chi osserva, un secondo che induce a cogliere il contenuto concettuale di quanto viene proposto.
La scelta del bianco e nero contribuisce alla pulizia fotografica offerta, scevra di possibili elementi di disturbo o distrazione.
Chissa? Forse, per Enrico, il progetto Nomadelfia nasce inconsciamente dalla necessità di mostrare formule alternative alle tante solitudini incontrate, spesso camuffate o messe in secondo piano da altre impellenti esigenze primarie. Con la sua operazioni vuole forse mostrare e dire che alternative o diverse possibilità praticabili esistono? Riconoscendo a tutti, eventualmente e comunque, una assoluta libertà individuale, qualunque sia la possibile scelta.
Sotto l’aspetto della tecnica fotografica le quinte, per Enrico, sono un elemento compositivo frequente, scelto sempre con cura, che talvolta risulta pure fondamentale per andare a indirizzare al suo messaggio fotografico - e non solo - che ha pensato e voluto.
Rimane da osservare un aspetto che tanto comune non è e che riguarda la generosità di cui si è detto all’inizio. Genovesi, annoverato fra i lettori Fiaf di Portfolio, è un fotografo che trasmette attraverso una didattica diretta l’arte del fotografare e, anche, costituisce un raro caso dove l’esperto si configura con un conclamato bravo fotografo: senza offesa per nessuno, non è roba da poco.
Considerata la giovane età di Enrico Genovesi c’è da attendersi per il futuro la realizzazione di tante nuove sorprese.
Per concludere, per chi volesse maggiormente approfondire l’argomento, si consiglia la visione della serata streaming che gli ha dedicato la Fiaf lo scorso 24 febbraio, condotta da Claudia Ioan e impreziosita da pillole di saggezza fotografica di Silvano Bicocchi:
https://www.youtube.com/watch?v=m-TYl3BnQPA&t=150s
Buona luce a tutti!
© ESSEC
domenica 6 marzo 2022
La differenza non la fa la passione ma il talento.
In una bellissima intervista, dove Pupi Avati raccontava del suo incontro con Lucio Dalla, ad un certo punto si affermava una grande verità che da sempre ci accompagna e che spesso siamo portati, forse anche volutamente, a dimenticare ovvero quella che in campo artistico la differenza non la fa la passione ma il talento.
A tal proposito, per la sua grande passione di clarinettista jazz, raccontava che ebbe a patire realmente verso Lucio Dalla la famosa sindrome che il Salieri aveva vissuto con il genio di Mozart; avendo anche lui provato un'enorme invidia per il talento di Dalla musicante; tanto da indurlo a disamorarsi dalla sua viscerale passione musicale, fino ad abbandonare l'impegno professionale con il gruppo jazzistico in cui entrambi si erano ritrovati a militare.
Il racconto fortemente partecipato da Avati evidenziava come, oltre all’impegno profuso, specie in campo artistico erano le caratteristiche individuali innate quelle che andavano a determinare i presupposti necessari alla riuscita e che quasi sempre portano al successo.
Un artista, quindi, non può crearsi da sé a tavolino, né gigionare su improbabili alchimie e dosaggi per il raggiungimento di un proprio desiderata.
Quasi sempre chi ha qualcosa da dire trova un suo modo per esprimere il proprio talento e, se ha poi l’opportunità di trovare il pigmalione attento e si farà forgiare da lui, potrà sviluppare e affinare al meglio le originalità che potenzialmente sarà capace di esprimere.
Di regola dietro ogni bravo artista c’è sempre un maestro che ne avrà colto il talento e che, se generoso, avrà modo di aiutarne il percorso. Come pure un bravo artista è quello che non si basa sui titoli già raggiunti ma colui che continua la ricerca, per sperimentare e perfezionare sempre possibili nuovi modi, assecondando naturalmente il proprio istinto.
L’irrequietezza impegnata a ricercare percorsi diversi di verità è il naturale perseguimento d'intenti, per raggiungere il potenziale che si sarà capace d’esprimere.
Per quanto ovvio, la genialità di certo non potrà mai essere insegnata ma l’apprendimento e lo studio aiuteranno nell’evoluzione di un percorso artistico, come accade in genere nella ricerca applicata per una maggiore qualità apportabile alla vita.
Paradossalmente poi un’invidia di per sé, se vissuta in maniera sana, può anche non rappresentare un fatto negativo. Talvolta, anzi, può costituire una dote per consentire di cogliere meglio le differenze; i limiti delle proprie banalità a confronto di chi è dotato di un'autorialità spontanea.
Cosa che può indurre a prendere atto e coscienza, in maniera serena e intelligente, del nostro potenziale limite conseguibile, riconoscendo agli altri anche quelle capacità che per noi naturali non sono.
“Mettiti sempre con chi ne sa più di te se vuoi crescere” era il motto che mi è stato insegnato da bambino. Seguire il percorso di chi può farci ombra può aiutare a cogliere dettagli, indispensabili e utili e a saper a poco a poco "rubare" il mestiere, specie se si è in qualche modo - a propria volta - votati a questo (riguardo al mestiere naturalmente).
Del resto è risaputo che nel copiare personalizzando sono richiesti esercizio e abilità; che anch'essa è un'arte e non è cosa alla portata di tutti.
Ritornando alla considerazione di partenza, che cioè la differenza non la fa la passione ma il talento, il mio pensiero vola agli anni ottanta, periodo in cui ho conosciuto l’amico Luigi Cocuzza, che già a quel tempo di questa massima ne aveva fatto una sua convinzione, nell'ambito della fotografia e non solo.
Buona luce a tutti!
© ESSEC