Sulla Resistenza si è giocato un voluto equivoco, né innocente né innocuo, che ha permesso agli italiani di autoconvincersi di aver riconquistato la libertà con le proprie mani e anche di far finta di aver vinto una guerra che avevano invece perduto e nel modo più ignominioso. Nell'ambito di quel grandioso e drammatico evento che fu la Seconda Guerra mondiale, la Resistenza italiana ebbe un ruolo del tutto marginale. Fu un riscatto morale per quelle poche decine di migliaia di uomini e di donne che vi presero parte, non un riscatto politico dell'intero popolo italiano che dopo la caduta del Regime, il 25 luglio del 1943, si mise alla finestra, in attesa di salire sul carro del vincitore. Gli italiani avevano aderito in massa al fascismo. Ne fanno fede, oltre alla Storia in sè, i libri di De Felice («gli anni del consenso»), il fatto che furono solo tredici i docenti universitari (i cui nomi sono dimenticatissimi) che si rifiutarono di giurare fedeltà al Regime, perdendo la cattedra, e molto esiguo il numero dei fuorusciti (fra i quali mi onoro di annoverare mio padre, Benso Fini, esule a Parigi dal 1924 dopo essere stato manganellato più volte dalle camice nere, perché mi sono stufato di sentirmi dare del «fascista» dai figli dei fascisti). Avevano accettato le vergognose leggi razziali del 1938. Erano entrati con entusiasmo in guerra a fianco dell'alleato tedesco, convinto di schierarsi col più forte, anche se in seguito si autoconvinsero di averlo fatto «obtorto collo» (tanto che, ad un certo punto, lo scrittore Oreste Del Buono ironizzò: «Qui va a finire che il 10 giugno del 1940 a piazza Venezia c'eravamo solo io e Montanelli»). Il Regime fu buttato già da un colpo di Stato interno allo stesso fascismo. Poi venne il vergognoso «tutti a casa» dell'otto settembre 1943. Con i nazisti non bisognava allearsi, abbandonarli nel momento culminante di una lotta per la vita e per la morte, passando dall'altra parte mentre già si profilava la sconfitta, fu un atto profondamente sleale e vile. L'Italia fu liberata, dalle truppe angloamericane, neozelandesi, sudafricane, canadesi, indiane, marocchine, l'apporto dei partigiani fu minimo, irrilevante e quasi puramente simbolico. Ma il 25 aprile del 1945 si assiste a un miracolo gaudioso: gli italiani da tutti fascisti che erano stati, erano diventati, di colpo, tutti antifascisti. Poi ci furono le scene da macelleria messicana di piazzale Loreto, con i vinti appesi per i piedi al famoso distributore di benzina e le donne che, una volta depositati a terra i corpi, pisciavano sui cadaveri. Ci furono le ragazze che erano andate a letto con i nazisti o con i fascisti portate in giro nude per le strada, rapate a zero, ed esposte al ludibrio di una folla immonda (ed è quindi inutile, caro Pierluigi Battista, scandalizzarsi per l'umiliazione inflitta alle «spie» afgane col farle sgozzare da un ragazzino talebano dodicenne, noi abbiamo fatto di peggio, di molto peggio). Se il 25 aprile è «la festa di tutti gli italiani», come afferma il Presidente Napolitano, lo è nel senso che celebra il nostro storico opportunismo.Il mito e la retorica della Resistenza non sono stati privi di conseguenze. La più evidente è stata il «terrorismo rosso» che proprio a quel mito e a quella retorica si richiamava e che godette di ampie complicità e simpatie («i compagni che sbagliano»). Ma la conseguenza più grave è che grazie al mito e alla retorica della Resistenza gli italiani non hanno fatto i conti con se stessi e con la propria storia. E sono quindi rimasti quelli che erano durante il fascismo e dintorni: conformisti, opportunisti, trasformisti, proni a qualsiasi Potere, anche criminale; se è in grado di far paura e di elargire privilegi sostanzialmente mafiosi, perdutamente vigliacchi (tranne rare eccezioni, ancor più ammirevoli, oltre che inutili, in un simile contesto), accondiscendenti con i forti, feroci e crudeli, soprattutto se in branco, con i vinti e con i più deboli.
Massimo Fini - 01/05/2007
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