È noto che più cala nei sondaggi, più Berlusconi si incazza e sputa bile, senza nemmeno avere il coraggio delle sue rabbie, anzi travestendosi subito dopo da vittima e da odiato. Il suo look plasticato e ridente si è guastato in ghigni da horror. Se una volta si affidava a Yves Saint Laurent adesso per truccarlo ci vuole Rambaldi. Come ultima, democratica riforma, ha deciso di abusare ogni giorno della televisione (tanto è sua) per spiegare ai suoi elettori e ai comunisti, ovvero il becero volgo italico manipolato e oppresso dalla bugie, cosa sta facendo il governo. Ne consegue che nel nostro paese o tutti sono cretini e bugiardi, oppure c’è un solo debordante cretino e bugiardo che pensa che tutti siano cretini e bugiardi. Alla storia l’ardua sentenza, anche se «sentenza» è una parola che provoca al cavaliere forti choc anafilattici. Questo premier, moderno come un vecchio Carosello, ha di fatto introdotto una sola riforma: la televisione al posto del parlamento. Il suo ultimo raptus monologante ha coinvolto piazze, pistole clowns e ballerine. Però, in questo momento difficile della sua carriera di pataccaro e di politico, abbiamo scoperto un segreto che lo rende più umano. La vera storia che spiega perché Berlusconi detesta i clowns e le ballerine. Per ricostruirla, abbiamo intervistato il russo Nicolai Bazarov, che col nome di Kamarinsky è stato uno dei più grandi pagliacci professionisti della storia. Ecco cosa ci ha raccontato.
Il racconto di Kamarinsky
Conobbi il giovane Berlusconi negli anni Sessanta. Era un periodo difficile per me. Ero stato cacciato da tutti i circhi della Russia con l’accusa di contrabbando di foche. In realtà mi ero inimicato il regime tentando di organizzare il primo sindacato degli artisti circensi. Insieme ad alcuni colleghi partii per l’Europa con una piccola troupe, cui diedi il nome di circo Popov. Eravamo due clowns, tre trapezisti, un lanciatore di coltelli e un domatore di leoni. Non potendo permetterci i leoni avevamo sei grossi cocker bielorussi: non erano feroci, ma avevano un alito molto pesante, e per mettere la testa nelle loro fauci ci voleva una certa dose di coraggio. Poi c’era Mitja, elefante e facchino, e Vladimir, un orango che ci faceva anche da amministratore. Avevamo anche un piccolo luna-park, un minizoo e un lucertolario.
Erano giorni duri, viaggiavamo su tre carrozzoni tirati da una vecchia Skoda, senza aria condizionata e con una sola vasca idromassaggi, spostandoci da una piazza all’altra. Il nostro chapiteau era un tendone usato del festival dell’Unità, dove era rimasta la scritta «Stasera Comizio con Pajetta», per cui noi clown avevamo dovuto cambiare nome: io avevo preso il nome di Comizio e il clown bianco si faceva chiamare Pajetta.
Una sera ci attendammo in una zona vicino ad Arcore. Stavamo preparando il nostro frugale pasto, il lanciatore di coltelli tagliava il pane in aria e Mitja faceva la maionese con la proboscide. Nella nebbia si presentò un ragazzo magro dall’aria spiritata. Disse che si chiamava Silvio e stava attraversando un periodo difficile. Insieme ad alcuni amici aveva intrapreso un attività finanziaria vendendo merende scadute nella scuola, ma i bidelli rossi avevano stroncato le sue riforme. Ci disse che il sogno della sua vita era di lavorare in un circo, perché adorava le luci della ribalta.
Notai subito che aveva un naso rotondo perfetto per fare il clown, bastava tingerlo di rosso. E inoltre non aveva nessun senso dell’umorismo: era l’ideale per fare la parte di quello che si incazza.
Lo riempimmo di fard e cerone (credo che lì abbia sviluppato la sua cipriodipendenza e l’ossessione di impiastricciarsi). Poi gli infilammo un paio di grosse scarpe e lo buttammo sul palco col nome di nano Berluk. Il suo ruolo era quello di prendere schiaffi, spruzzi d’acqua e sgambetti ogni sera. Questo per trenta sere al mese. Ma siccome era un po’ tonto, ogni sera ci chiedeva perché e si incazzava, e l’effetto comico era assicurato. Ricordo che piaceva molto al pubblico, specialmente ai bambini, anche se dopo lo spettacolo cercava sempre di vender loro torrone taroccato, con la ghiaia al posto delle nocciole. Avrebbe avuto un futuro, come spalla. Ma poi vide Uganska.
Uganska Sergèevna Volaltova era una splendida ballerina e trapezista ucraina. Veniva da una famiglia di grandi tradizioni circensi: suo padre era il leggendario Fjodor, il condor volante del Caucaso, e sua madre Irina Kolesterova, la mongolfiera di Minsk, centotrenta chili, ma tra i trapezi volava come una rondine. Uganska aveva volato fin da piccola. Appena uscita dall’utero, il medico l’aveva sollevata per darle lo schiaffetto e lei con un balzo si era attaccata al lampadario. È l’istinto del trapezista, aveva detto commossa mamma Irina. A sei anni Uganska sapeva già ballare sul filo come una cinciallegra, e al trapezio faceva già il triplo Mandelbaum e il carpiato Pachinski. A quattordici anni era già una stella.
Aveva tutto per essere felice: ma il mondo del circo è percorso da improvvise e violente passioni. Dovete sapere che i genitori di Uganska avevano entrambi un amante: lei un mangiatore di fuoco, lui una splendida tigre siberiana. Inutile dire che quando lei tornava a casa coi capelli abbrustoliti e lui graffiato a sangue, erano risse e scenate, finché un giorno il dramma, è il caso di dirlo, precipitò: i due coniugi si lanciarono dai rispettivi trapezi, lui non afferrò lei, lei non prese lui e si spiaccicarono al suolo. Io presi l’orfanella con me, come una figlia.
Quando il nano Berluk vide Uganska ballare leggera e gaia sul filo, si innamorò perdutamente. La sera stessa le fece trovare nel camerino un mazzo di azioni dell’Alitalia. Ogni notte le cantava Oci Ciornie e I found my love in Portofino, finché l’elefante Mitja non sporgeva la proboscide dalla gabbia e lo annaffiava (di acqua quando era di buonumore, di altro quando era incazzato). Berluk ripeteva a Uganska che per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa, anche risolvere il suo conflitto di interessi (nel nostro piccolo luna-park era titolare della montagne russe ma aveva anche il monopolio della segatura asciuga-vomito). Uganska non se lo filava. Quell’italiano avido e noioso non le piaceva. In più, era innamorata del clown Pajetta, alias Vasilj Procharkin Bessonovic, un pierrot pallido e lunare che sapeva fare gli scorzotti con l’ascella, ma anche recitare Majakovsky a memoria. Inoltre, ultimo e illuminante particolare, Uganska era comunista.
Berluk fece di tutto per conquistarla. Si fece prestare da me tutti i libri di Lenin, Stalin e Cronin. Dopo un mese me li restituì dicendo «li ho letti ma non ci ho capito una parola». Io gli spiegai che forse prima avrebbe dovuto studiare i caratteri cirillici ma lui sbuffò. Lo ripeto, era un po’ tonto. Continuò a corteggiare tenacemente la bella ballerina: andava in giro con un enorme colbacco da cui spuntavano solo le ginocchia e ogni tanto durante lo spettacolo gridava «viva la grande rivoluzione proletaria sovietica». Capite come tutto questo, poi, si sia trasformato in odio inguaribile.
Una sera la bella Volaltova, esasperata dal suo assedio, gli disse: «Va bene, tovarish Berluk, se ti lancerai dal trapezio e sarai in grado di eseguire un un triplo salto mortale, ti sposerò». Anche a quei tempi, naturalmente, Silvio si credeva capace di tutto. Perciò si fece dare lezione di arrampicata prensile dall’orango Vladimir, imparò qualche capriola, e poi disse che era pronto.
«Non dovresti provare — gli dissi io — comunque, se proprio vuoi rischiare, metti sotto la rete di protezione.»
Alcune notti dopo, Mitja mi svegliò con un leggero barrito per segnalarmi che i due erano sotto il tendone. Li spiammo da lontano. Lei era più bella che mai, nel suo pigiamino ucraino; Berluk aveva un costume da Uomo ragno rubato a un bambino. Berluk salì, si attaccò al trapezio, iniziò a ondeggiare, poi spiccò un balzo, roteò come trottola e si schiantò al suolo. E la rete, direte voi? La rete c’era, ma era stesa per terra (lo ripeto, il ragazzo era un po’ tonto). Fortunatamente, come disse il medico, la massa cerebrale era così ridotta che il danno fu minimo. Ma Berluk si insaccò di brutto e da uno e sessanta che era, si abbassò ulteriormente.
La settimana dopo il clown Vasilj Pajetta e Uganska Volaltova convolarono a nozze. Poi una notte di pioggia, una macchina blu guidata da un ometto che si faceva chiamare «il Venerabile» passò a prendere Berluk, e non seppi più nulla di lui, finché non appresi dai giornali della sua fulminante carriera.
Per questo il vostro presidente del consiglio odia i clowns, le ballerine, i comunisti e i sindacalisti, e vorrebbe dimenticare quel periodo della vita in cui, oltre al potere e ai soldi, aveva qualche altro sogno.
Peccato: avrebbe potuto essere un buon clown, piuttosto che un modesto buffone. Ma il mondo del circo e quello della politica sono diversi: il nostro richiede talento, ed è immensamente più difficile e serio.
Stefano Benni (Tratto da "Il Manifesto" di venerdì 29 marzo 2002)
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