Da cinque giorni era cominciato un anno tumultuoso che avrebbe portato l’Italia in guerra. I giornali di quella mattina raccontavano di un cannoneggiamento delle navi italiane a Durazzo, in Albania. A Torino maturavano manifestazioni di interventisti e di neutralisti, scioperi e una rivolta per il rincaro del prezzo del pane. Alle cinque del pomeriggio il dottor Buscaglino, di professione medico di famiglia, aveva finito il giro delle visite, quando decise di passare in via Pier Carlo Boggio 134, in quella zona tra la Crocetta e la zona industriale San Paolo che chiamavano il Polo Nord, perché lì faceva sempre freddo. Anche quel pomeriggio, nonostante fosse stata una giornata soleggiata, la temperatura era sotto lo zero e il termometro nella notte avrebbe fatto segnare -6. Si fermò davanti al portone, si aggiustò i baffi rossi che erano il suo biglietto da visita, entrò nell’androne e chiese alla portinaia notizie della signora Marietta Cavadore e della sua gravidanza. La donna scosse la testa: «È caduta nel primo pomeriggio e ha perso la bambina. È nata morta». «Perché, era femmina?» chiese istintivamente il medico. «Sì, ma non è sopravvissuta.» Il dottor Buscaglino rimase immobile, era padre di due maschi, una figlia femmina era il sogno della sua vita, e gli sembrava terribilmente ingiusto che quel giorno il mondo avesse perso una bambina. Prese le scale, salì al secondo piano e suonò. Il medico se n’era già andato da tempo, in casa c’erano solo la madre e la nonna della bambina. Aprì la nonna Rosa, si conoscevano da sempre perché abitavano nello stesso palazzo, in corso Vinzaglio, da quando lei si era trasferita da Montà d’Alba. Entrò piano nella camera, Marietta giaceva a letto. Era scivolata in casa mentre era incinta di sei mesi e mezzo e aveva avuto un’emorragia. Il medico, arrivato quasi subito, era riuscito a bloccare il sangue, ma non aveva potuto evitare il parto spontaneo. Aveva dovuto registrare la perdita di una bambina venuta al mondo troppo prematura per poter sopravvivere. Il dottor Buscaglino, con un certo imbarazzo, chiese dove fosse stata messa la neonata. Marietta non rispose neppure, Rosa fece un cenno con la testa indicando il mobile toilette con lo specchio: «Non sono ancora passati a prenderla». Un fagotto fatto con le federe dei cuscini era appoggiato sul piano di marmo. Il dottore si avvicinò, lo aprì con cautela, si fermò a guardare la bambina con i palmi appoggiati sul marmo gelato, poi posò una mano sulla pancia della piccola per farle una carezza e ci fu un movimento: «Ma non è fredda: è tiepida». La sollevò di scatto: «Disgraziati, ma questa bambina è mica morta, è viva». «Ma non ha mai respirato, non ha pianto, non era neanche di sette mesi» gli rispose la nonna Rosa. «Non ha la forza per piangere, portatemi delle coperte, scaldiamola.» Si mise a massaggiarla senza sosta, la avvolse nella lana e poi si avvicinò alla madre e, come in preda a una visione, cominciò a parlare in modo concitato: «Me la lasci portare a casa, ci voglio provare, non bisogna arrendersi: le costruirò una culla con la bambagia, le metto una lampada sopra, giorno e notte, le possiamo dare il latte con il contagocce». Marietta fece sì con la testa, non aveva più parole, aveva perso e ritrovato la sua prima figlia, ma non voleva illudersi. Il medico strinse al petto il fagotto di lana e uscì di corsa. La portinaia sgranò gli occhi a vederlo passare con quell’involto che conteneva una bambina sotto il cappotto e lui le gridò: «Mandi qualcuno ad avvisare il becchino, non c’è più bisogno che venga». Era il 5 gennaio 1915, martedì. Maria Tessa, mia nonna, cominciò quel giorno, tra le braccia di un fascinoso medico dal pizzetto rosso, un’avventura che l’avrebbe portata a vedere l’elezione di Barack Obama. Il dottor Buscaglino, di cui la nonna non ricorda il nome, se la portò a casa e la tenne per mesi in cucina, con la stufa sempre accesa per avere una temperatura costante, la fece crescere e poi la affidò alla nonna Rosa, perché la madre ci metteva molto tempo a riprendersi. La bimba tornò alla casa in via Boggio quando aveva due anni, era magrolina, camminava veloce e volle fare le scale da sola. «Ero un piccolo pollo che non aveva neppure la forza di piangere, ma sono arrivata fino a qui perché ho incontrato un uomo che aveva voglia di scommettere sulla vita, che ebbe il coraggio di assumersi un rischio, di pensare con la sua testa e di non arrendersi quando gli altri mi davano per morta. Ho vissuto 94 anni, ma alla fine l’unica lezione che mi porto dentro è che non bisogna mollare mai. Mai arrendersi: bisogna essere curiosi, ambiziosi e artefici del proprio destino.»
Mario Calabresi (La fortuna non esiste - Mondadori - 2009)
Mario Calabresi (La fortuna non esiste - Mondadori - 2009)
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