martedì 21 luglio 2009

Einstein, Bergson e Don Attilio

Io non so che faccia abbia il tempo, ma so che quando mi guarda se la ride sotto i baffi. E già, perché il tempo ha i baffi. Di questo almeno sono sicuro. Sembra quasi che dica: «Distraiti pure, figlio mio bello, tanto io nel frattempo ti frego». E usa quella parolina che odio più di tutte al mondo: il frattempo. La sabbia scorre nella clessidra. Le lancette ruotano sul quadrante dell'orologio. Entrambe non fanno rumore ma si muovono. Che arrivi un terremoto o un diluvio universale, che scoppi un incendio, che una bruna mi riempia di carezze o che una bionda mi lasci da un giorno all'altro per scapparsene con un altro uomo, al tempo non importa un fico secco. Lui continua a fare il suo mestiere. Io mi sveglio, mi lavo, mi pettino, penso, faccio la prima colazione, leggo i giornali, scrivo, mangio, guardo la TV, torno a scrivere, telefono, mi addormento e lui niente: prosegue con il suo tic tac imperterrito senza mai un'indecisione, un rallentamento, un attimo di riposo o un minimo di rispetto per quello che mi sta capitando. Qualcuno ha detto (forse io o forse sant'Agostino, adesso non ricordo) che il passato, il presente e il futuro non esistono. Il passato non esiste perché non è più, il futuro non esiste perché non è ancora, e il presente, in quanto separazione tra due cose che non esistono, non può esistere. Tutt'al più potrebbe esistere il presente del passato che è il ricordo, oppure il presente del futuro che è la speranza. Quello, invece, che proprio non ce la fa a esistere è il presente del presente. Certo è che qui non si fa in tempo a pensare a una cosa che sta accadendo che questa cosa è già accaduta. Hai voglia a dire «carpe diem», ma se il diem non si ferma un attimo come diavolo si fa a carpere, cioè ad «acchiappare»? Vi siete mai chiesti in che anno sono stati inventati i calendari? Che io sappia i primi a tentare una misurazione del tempo furono i sumeri la bellezza di cinquemila anni fa. Divisero l'anno in dodici mesi e ogni mese in trenta giorni, il tutto basandosi sulla rotazione della terra e sulle fasi lunari. Poi, duemila anni più tardi, ci provarono gli egizi e stabilirono che i giorni dell'anno non erano 360 ma 365. Purtroppo, però, anche loro commisero uno sbaglio: l'anno, infatti, era un pochino più lungo: durava qualcosa in più di 365 giorni e quelle ore in più col passare dei secoli diventarono un problema. Un giorno gli uomini del Medioevo si accorsero che stavano in pieno agosto e già faceva freddo. A metterci una pezza provvide papa Gregorio XIII che nel Cinquecento, grazie al matematico Luigi Lilio, s'inventò l'anno bisestile, ovvero un anno di 366 giorni da far cadere ogni quattro anni, in modo da smaltire quel di più che si era andato accumulando negli anni precedenti. E sempre a proposito di calendari, chi ha qualche anno in più sulle spalle ricorderà con nostalgia quei meravigliosi calendarietti che i barbieri erano soliti regalarci a Natale. Si trattava di libricini profumati, da infilare nel taschino di petto della giacca, muniti di un cordoncino e di un fiocchetto a colori, dove era possibile ammirare le più belle attrici del momento, tutte rigorosamente vestite da capo a piedi. Poi sono passati gli anni e le attrici, a poco a poco, si sono liberate dei vestiti per dare origine ai famosi calendari hard. Mai e poi mai quel brav'uomo di papa Gregorio XIII avrebbe potuto immaginare che un giorno le sue fatiche astronomiche sarebbero servite per mostrare al popolo le donne nude. In terza liceo avevo un compagno di scuola, tale Carletto Scaramella, il cui compleanno cadeva giusto il 29 febbraio. Per lui quella data era una vera e propria fregatura. Riceveva i regali solo una volta ogni quattro anni. Gli amici invece di chiamarlo Carletto lo chiamavano Bisestile. Poi un bel giorno anche Bisestile riuscì a trovare un compromesso: invece di festeggiare il 29 prese l'abitudine di tagliare la torta con le candeline il 28, a mezzanotte in punto. A parte i compleanni, però, come facevano gli antichi a calcolare le ore e, soprattutto, i minuti? Tanto per fare un esempio, come faceva Dante Alighieri a dare un appuntamento a Beatrice? Le diceva: "Tesoro, ci vediamo domani mattina all’entrata del Battistero quando il sole è al centro del cielo". E se era nuvolo? E se pioveva? E Giulio Cesare, quella volta che decise di attaccare i galli sia da est che da ovest, non avendo un orologio, una sveglia, un telefonino o un razzo luminoso, come avrà fatto a comunicare l’ora dell’attacco ai suoi luogotenenti Considio e Labieno? Ma torniamo ai giorni nostri: ci sono paesi dove il tempo viene considerato un riferimento importante e altri, invece, dove viene sottovalutato. Negli Stati Uniti è denaro, nel Messico si spreca, in Svizzera si fabbrica, in India è come se non ci fosse, e a Napoli lo si snobba. Dalle mie parti, infatti, quando si dà un appuntamento a un amico si è soliti restare nel vago. "Ce vedimmo a via d'e sette" dicono i napoletani, che tradotto in lingua vuol dire: « Ci vediamo nei dintorni delle sette ». Al contrario, più si sale al Nord e più si diventa puntuali. Ricordo un fatto incredibile capitatomi durante un viaggio in aereo da Roma a Stoccolma, una decina di anni fa. La mia vicina di posto era una ragazza svedese molto bionda e molto carina. Facemmo amicizia e grazie a lei fui invitato quella stessa sera a una cena. Enorme fu la mia meraviglia quando sul cartoncino d’invito lessi che l’orario della festa era fissato per le 19.28. "Come sarebbe a dire 19.28?" chiesi alla svedese. "Noi qui" rispose lei sorridendo "a volte sfalsiamo l'ora d’inizio di due minuti tra un invitato e l'altro proprio per dar modo al padrone di casa di ricevere gli ospiti come si deve. Questa sera, ad esempio, noi andremo dai Van Straten alle 19.28, poi ci sarà un'altra coppia che arriverà alle 19.30 e un'altra ancora alle 19.32". "Ma allora bisognerà essere puntualissimi!" dissi io allarmato. In pratica ci recammo alla festa con un certo anticipo. Restammo fermi sotto la casa dei Van Straten, nell'auto della svedesina, per almeno cinque minuti, salvo poi precipitarci alle 19.27 precise verso il portone. Sfortuna volle, però, che un signore calvo, con gli occhiali, probabilmente uno che andava a un'altra festa, ci soffiò sotto gli occhi l'ascensore. "Saliamo a piedi!" urlai io e mi lanciai di corsa per le scale. Ce la facemmo appena. Quando si dice la puntualità dei settentrionali! Non a caso il primo orologio di cui si ha notizia fu costruito in Inghilterra nel 1349 e fu quello del Castello di Dover. Che io sappia non aveva ancora la lancetta dei minuti. Bisognerà attendere altri trecento anni perché Galilei s'inventi le leggi che regolano l'orologio a pendolo. A detta del suo biografo Vincenzo Viviani, pare che un giorno il Genio sia entrato in una chiesa e abbia visto un lampadario oscillare a causa del vento. Da qui l'intuizione. «Basterebbe allungare o accorciare il filo per farlo oscillare come più ci fa comodo» disse al parroco che lo guardava preoccupato. Quindi, una volta a casa, se ne costruì uno su misura, e a forza di provare e riprovare lo fece andare a tempo con i battiti del cuore. Ai nostri giorni un orologio atomico può sbagliare di un secondo ogni tre milioni di anni. Pazienza, dico io, vuol dire che chiederemo scusa per il ritardo. E sempre a proposito di orologi ricordo che quando feci la prima comunione ebbi in regalo da zio Alfonso un bellissimo Philip Watch. Ne fui subito orgoglioso. Lo portavo sopra il polsino, come l'avvocato Agnelli, in modo che lo vedessero tutti. La mia massima soddisfazione era quella di essere fermato per strada da qualcuno che avesse bisogno di sapere l'ora. Oggi, purtroppo, questo non succede più: tutti hanno un orologio, anche i disoccupati, e nessuno più chiede l'ora a un passante, anche perché la può leggere in pratica dovunque: sul cruscotto dell’auto, sul computer, sul cellulare e via dicendo. Io, in materia di tempo, ho avuto tre grandi maestri, e precisamente: Albert Einstein, scienziato tedesco, naturalizzato americano, nato nel 1879 e morto nel 1955. Henri Bergson, filosofo francese, nato nel 1859 e morto nel 1941, e, buon ultimo, Attilio Caputo, custode di via Orazio 14, nato a Napoli nella prima metà del Novecento e tuttora vivente. Per Einstein le lancette di un orologio scorrono più o meno in fretta a seconda di come il proprietario dell'orologio si sposta nell'universo: più costui viaggia velocemente e più il suo orologio tende a rallentare. Una volta, poi, raggiunta la velocità della luce l'orologio si ferma del tutto. Chi avesse dubbi in proposito è pregato di leggersi la Relatività, esposizione divulgativa di Albert Einstein, edito da Boringhieri, o, in alternativa, il mio libricino Il dubbio, edito dalla Mondadori nove anni fa (chiedo scusa per l'accostamento). Henri Bergson si occupa del problema tempo nel secondo capitolo dell'Introduzione alla Metafisica e afferma che il tempo passa più o meno velocemente a seconda degli stati d’animo che si stanno provando. Ne è così convinto che alla fine, invece di chiamarlo « tempo », lo chiama « durata ». Detto ancora più terra terra, per Bergson una cosa è stare un'ora abbracciato col proprio grande amore e un'altra passare quella stessa ora sotto il trapano di un dentista. Nel primo caso si dice che il tempo è volato, nel secondo che non passava mai. A volte basta distrarsi un pochino per farlo scorrere più in fretta. Chi ne dubita provi, quando è fermo con l'auto a un incrocio, a guardare fisso fisso il semaforo rosso in attesa che diventi verde. Più lo guarderà e più lunga sarà l'attesa. Se, invece, darà una sbirciatina ai titoli del giornale che ha sul sedile accanto, arriverà subito il verde e gli altri automobilisti suoneranno il clacson per farlo ripartire. Ma chi più di tutti mi fece capire l'importanza degli stati d'animo nella misurazione del tempo fu don Attilio Caputo, di mestiere custode. All'epoca lavoravo alla IBM di Napoli e dovendo scegliere una nuova sede, invece di andarla a cercare al centro della città, come peraltro mi aveva ordinato la società, ne presi una eccezionale in via Orazio: quinto piano, balconata panoramica, vista sul Golfo, poco traffico, e Mergellina a due passi. Unico problema un ascensore moscio o, per dirlo in linguaggio IBM, non adeguato alla dinamicità dell'azienda. Gli impiegati, infatti, vennero da me a protestare fin dal primo giorno. "Ingegnere," mi dissero "questa mattina sono stato più di dieci minuti ad aspettare l'ascensore. Poi ho saputo che era stata la signora del terzo piano a bloccarlo perché aveva avuto dei problemi col passeggino". D'altra parte era anche inutile meravigliarsi più di tanto! Quando si sceglie come sede di lavoro un palazzo concepito per abitazioni qualche inconveniente bisognerà pure aspettarselo. La IBM Italia a ogni modo decise di costruire un secondo ascensore all'interno del cortile. Per farlo, però, aveva bisogno dei permessi del Comune e soprattutto di quello dei condomini. Il che, tradotto in termini economici, comportava la spesa di alcuni milioni. Da Milano arrivarono un architetto e un geometra dell'Ufficio gestione sedi. Dopodiché venne indetta una riunione con tutti gli interessati, e tra questi, relegato in fondo alla sala, anche il custode dello stabile. Ebbene, stavamo lì lì per concludere quando don Attilio chiese la parola. "Ingegne'," mi disse "io avrei un'idea. Invece di spendere tutti questi milioni per costruire un secondo ascensore, voi con diecimila lire, o al massimo ventimila, ve la cavate. Vi comprate due begli specchi: uno me lo piazzate a piano terra e uno al quinto piano. Così I vostri dipendenti si guardano, si riguardano, il tempo passa, e nessuno protesta". Alla fine questa fu la soluzione adottata e io riuscii finalmente a capire Bergson.

Luciano De Crescenzo (Tale e quale)

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