Che le confessioni estorte sotto tortura non fossero del tutto attendibili, lo si sospettava anche ai tempi della Santa Inquisizione. I prigionieri, sottoposti a tecniche di interrogatorio dolorosissime, pur di uscire da quella situazione erano pronti a giurare il falso. E anche un intelletto saldo come quello di Galileo Galilei abiurò le sue scoperte per sfuggire alle grinfie dei torturatori. La novità è che questo meccanismo di difesa non sarebbe volontario, ma inconscio, frutto di un vero e proprio "corto circuito" del cervello.
La ricerca dell'Istituto di neuroscienze del Trinity College di Dublino, pubblicata dalla rivista Trends in Cognitive Science ha preso in esame i metodi usati dall'esercito Usa per interrogare i sospetti terroristi: privazione del sonno, isolamento, waterboarding (simulazione dell'annegamento). Secondo quanto riporta Shane O'Mara, l'autore dell'articolo, i centri nervosi legati alla memoria vanno in tilt se sottoposti a un forte stress. "Alla luce delle nostre attuali conoscenze neuroscientifiche", spiega O'Mara, "è inverosimile che i metodi coercitivi funzionino per ottenere informazioni. Al contrario, causano grave e prolungato stress che compromette le capacità mnemoniche e decisionali del cervello del prigioniero".
Non si tratta, quindi, solo del fatto che, sotto tortura, quando il dolore e l'ansia diventano insopportabili, si confesserebbe qualsiasi cosa sperando di accontentare il proprio aguzzino e mettere fine al supplizio; gli studi di O'Mara dimostrano che il cervello in queste condizioni arriva fino al punto di generare falsi ricordi. "La corteccia prefrontale e l'ippocampo, due aree cruciali per i ricordi, vanno in tilt in condizioni di eccessiva tensione". Queste zone, infatti sono molto sensibili agli ormoni dello stress, e possono arrivare fino a produrre memorie di fatti mai accaduti. "Anche la corteccia frontale", conclude O'Mara, "che è la sede decisionale del cervello, viene sconvolta dalla tortura".
(La Repubblica - 21 settembre 2009)
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