NELL'ERA della mediocrazia avanza un soggetto politico nuovo. Anche se ha sembianze note e sembra quasi antico, visto che - nella versione originaria - è sorto insieme alla prima Repubblica. Eppure è cambiato profondamente, negli ultimi anni. In modo tanto rapido che neppure ce ne siamo accorti. Lo chiameremo Partito Mediale di Massa (PMM). Perché è entrambe le cose. Allo stesso tempo mediale e di massa. Senza soluzione di continuità. Non ci troviamo di fronte a un modello, a un caso "esemplare". Perché non è riproducibile né tanto meno ripetibile. Anche se l'intreccio fra media e politica è divenuto stretto e quasi inestricabile. Dovunque. Nei partiti: la comunicazione ha preso il posto della partecipazione; il marketing quello delle ideologie; mentre le persone hanno rimpiazzato gli apparati. Così nel dibattito politico il privato è divenuto pubblico e viceversa. È una tendenza non solo italiana, ma che in Italia ha assunto modalità del tutto inedite, determinate, ovviamente, dalla posizione dominante di Silvio Berlusconi. Il premier di un paese ormai presidenzializzato, dove il potere presidenziale è largamente riassunto dal premier (mentre il Presidente svolge funzioni di garante). Leader unico e indiscusso del partito più forte, dal punto di vista elettorale e in Parlamento. Imprenditore e proprietario del più importante gruppo mediatico privato. Nessuna novità in tutto questo. Silvio Berlusconi, infatti, ha inventato 15 anni fa questo ibrido di successo. Un partito che miscela i linguaggi e l'organizzazione del mondo calcistico (gli azzurri, i club, lo stesso marchio: Forza Italia!) con la pubblicità e la televisione. Così è divenuto difficile distinguere le passioni politiche da quelle televisive. E viceversa. Indagini condotte alcuni anni fa (da ultimo: Demos per la Repubblica, 2007) mostrano lo stretto rapporto di fiducia che legava gli elettori di centrodestra alle reti, ai programmi e ai conduttori di Mediaset; e, parallelamente, l'alto grado di credibilità riconosciuto dagli elettori di centrosinistra ai telegiornali, ai tele-giornalisti e alle reti Rai. Anche se la realtà non sopporta divisioni tanto schematiche. Visto che l'informazione del Tg5 di Mentana - forse - non era orientata più a destra rispetto a quella del Tg1 di Mimun. È, dunque, difficile distinguere fra politica, interessi e media quando si osserva Forza Italia. Ed è impossibile, quando si osserva Berlusconi, distinguere le scelte - e gli interessi - del leader politico da quelle dell'imprenditore. Argomenti noti, da tempo. La novità degli ultimi anni è che il partito è divenuto, progressivamente, un "sistema". Forza Italia è divenuta Pdl, associando - o meglio: assorbendo - anche An. Per cui ha assunto la "misura" elettorale dei partiti di massa di un tempo. Anche l'impianto del voto sul territorio riproduce quello dei partiti di governo degli anni Ottanta: al declino della prima Repubblica. A differenza da allora, oggi l'ideologia, la cultura, l'organizzazione fanno tutt'uno con i media. Attraverso i quali il PMM offre alla società - trasformata in pubblico - linguaggio, modelli di valore, stili di vita. Una lettura della realtà. Anche perché - altra importante differenza dal passato recente - le distinzioni fra i network televisivi nazionali, ormai, si sono quasi dissolte. Dopo le elezioni del 2008, l'influenza dei partiti di governo - quindi del premier - sulla Rai è cresciuta. Il vero bipolarismo mediatico (come ha scritto Aldo Grasso) oggi oppone Mediaset e Sky. E la Rai sta con Mediaset, per cui possiamo parlare di MediaRai (marchio più adeguato di Raiset, visto il ruolo subalterno della Rai). Il PMM costruito da Berlusconi si avvale anche dei giornali. Il linguaggio e gli argomenti politici della destra, negli ultimi anni, sono stati imposti soprattutto da Libero e da Vittorio Feltri. Il quale è tornato, da poco, a dirigere il Giornale. Non a caso. Perché il campo di battaglia dove si stanno svolgendo i conflitti politici più aspri e violenti coincide con il sistema dei media. Investe la scelta dei dirigenti, dei direttori e vicedirettori dei Tiggì e delle reti Rai. Senza dimenticare che i direttori dei maggiori quotidiani nazionali sono cambiati quasi tutti, nell'ultimo anno. D'altra parte, la costruzione della realtà sociale passa tutta dai media. La paura e la sicurezza. Agitate a tele-comando. Mentre i lavoratori licenziati, per conquistare visibilità, hanno una sola chance: realizzare azioni clamorose per andare in televisione. Mentre i terremoti e i rifiuti che sconvolgono il territorio diventano occasioni importanti per suscitare consenso o dissenso politico. L'informazione critica diventa, per questo, assai più pericolosa di qualsiasi partito. Anche la riserva indiana della terza Rete Rai crea insofferenza. Mentre il direttore di Avvenire diventa un bersaglio esemplare. Per comunicare al mondo (politico, mediatico, religioso) che nessuno può gettare ombre - seppure lievi - sul consenso e sulla credibilità sociale del PMM. E del suo leader. Nessuno è al sicuro. Neppure il direttore dei media della Cei. Figurarsi gli altri. I tradizionali modelli del giornale di partito e del giornale-partito, che sentiamo evocare spesso - anche in questi giorni, con riferimento a Repubblica - appaiono semplicemente anacronistici. I giornali che appartengono ai partiti. Oppure, al contrario, la stampa d'opinione che esercita pressione su di essi, per indirizzarne le scelte. Sono fuori tempo. Comunque, non possono competere. Perché hanno un pubblico molto limitato rispetto alle tivù. E, senza le tivù a rilanciarli, i loro argomenti restano confinati al pubblico dei lettori fedeli. Il PMM, invece, è un sistema integrato. Al tempo stesso: partito, istituzione rappresentativa, impresa, giornale, tivù, media. Senza soluzione di continuità. Una sola, unica persona al comando. Di questa democrazia personalizzata. Di questo paese personale.
lunedì 7 settembre 2009
Il nuovo partito mediale di massa
NELL'ERA della mediocrazia avanza un soggetto politico nuovo. Anche se ha sembianze note e sembra quasi antico, visto che - nella versione originaria - è sorto insieme alla prima Repubblica. Eppure è cambiato profondamente, negli ultimi anni. In modo tanto rapido che neppure ce ne siamo accorti. Lo chiameremo Partito Mediale di Massa (PMM). Perché è entrambe le cose. Allo stesso tempo mediale e di massa. Senza soluzione di continuità. Non ci troviamo di fronte a un modello, a un caso "esemplare". Perché non è riproducibile né tanto meno ripetibile. Anche se l'intreccio fra media e politica è divenuto stretto e quasi inestricabile. Dovunque. Nei partiti: la comunicazione ha preso il posto della partecipazione; il marketing quello delle ideologie; mentre le persone hanno rimpiazzato gli apparati. Così nel dibattito politico il privato è divenuto pubblico e viceversa. È una tendenza non solo italiana, ma che in Italia ha assunto modalità del tutto inedite, determinate, ovviamente, dalla posizione dominante di Silvio Berlusconi. Il premier di un paese ormai presidenzializzato, dove il potere presidenziale è largamente riassunto dal premier (mentre il Presidente svolge funzioni di garante). Leader unico e indiscusso del partito più forte, dal punto di vista elettorale e in Parlamento. Imprenditore e proprietario del più importante gruppo mediatico privato. Nessuna novità in tutto questo. Silvio Berlusconi, infatti, ha inventato 15 anni fa questo ibrido di successo. Un partito che miscela i linguaggi e l'organizzazione del mondo calcistico (gli azzurri, i club, lo stesso marchio: Forza Italia!) con la pubblicità e la televisione. Così è divenuto difficile distinguere le passioni politiche da quelle televisive. E viceversa. Indagini condotte alcuni anni fa (da ultimo: Demos per la Repubblica, 2007) mostrano lo stretto rapporto di fiducia che legava gli elettori di centrodestra alle reti, ai programmi e ai conduttori di Mediaset; e, parallelamente, l'alto grado di credibilità riconosciuto dagli elettori di centrosinistra ai telegiornali, ai tele-giornalisti e alle reti Rai. Anche se la realtà non sopporta divisioni tanto schematiche. Visto che l'informazione del Tg5 di Mentana - forse - non era orientata più a destra rispetto a quella del Tg1 di Mimun. È, dunque, difficile distinguere fra politica, interessi e media quando si osserva Forza Italia. Ed è impossibile, quando si osserva Berlusconi, distinguere le scelte - e gli interessi - del leader politico da quelle dell'imprenditore. Argomenti noti, da tempo. La novità degli ultimi anni è che il partito è divenuto, progressivamente, un "sistema". Forza Italia è divenuta Pdl, associando - o meglio: assorbendo - anche An. Per cui ha assunto la "misura" elettorale dei partiti di massa di un tempo. Anche l'impianto del voto sul territorio riproduce quello dei partiti di governo degli anni Ottanta: al declino della prima Repubblica. A differenza da allora, oggi l'ideologia, la cultura, l'organizzazione fanno tutt'uno con i media. Attraverso i quali il PMM offre alla società - trasformata in pubblico - linguaggio, modelli di valore, stili di vita. Una lettura della realtà. Anche perché - altra importante differenza dal passato recente - le distinzioni fra i network televisivi nazionali, ormai, si sono quasi dissolte. Dopo le elezioni del 2008, l'influenza dei partiti di governo - quindi del premier - sulla Rai è cresciuta. Il vero bipolarismo mediatico (come ha scritto Aldo Grasso) oggi oppone Mediaset e Sky. E la Rai sta con Mediaset, per cui possiamo parlare di MediaRai (marchio più adeguato di Raiset, visto il ruolo subalterno della Rai). Il PMM costruito da Berlusconi si avvale anche dei giornali. Il linguaggio e gli argomenti politici della destra, negli ultimi anni, sono stati imposti soprattutto da Libero e da Vittorio Feltri. Il quale è tornato, da poco, a dirigere il Giornale. Non a caso. Perché il campo di battaglia dove si stanno svolgendo i conflitti politici più aspri e violenti coincide con il sistema dei media. Investe la scelta dei dirigenti, dei direttori e vicedirettori dei Tiggì e delle reti Rai. Senza dimenticare che i direttori dei maggiori quotidiani nazionali sono cambiati quasi tutti, nell'ultimo anno. D'altra parte, la costruzione della realtà sociale passa tutta dai media. La paura e la sicurezza. Agitate a tele-comando. Mentre i lavoratori licenziati, per conquistare visibilità, hanno una sola chance: realizzare azioni clamorose per andare in televisione. Mentre i terremoti e i rifiuti che sconvolgono il territorio diventano occasioni importanti per suscitare consenso o dissenso politico. L'informazione critica diventa, per questo, assai più pericolosa di qualsiasi partito. Anche la riserva indiana della terza Rete Rai crea insofferenza. Mentre il direttore di Avvenire diventa un bersaglio esemplare. Per comunicare al mondo (politico, mediatico, religioso) che nessuno può gettare ombre - seppure lievi - sul consenso e sulla credibilità sociale del PMM. E del suo leader. Nessuno è al sicuro. Neppure il direttore dei media della Cei. Figurarsi gli altri. I tradizionali modelli del giornale di partito e del giornale-partito, che sentiamo evocare spesso - anche in questi giorni, con riferimento a Repubblica - appaiono semplicemente anacronistici. I giornali che appartengono ai partiti. Oppure, al contrario, la stampa d'opinione che esercita pressione su di essi, per indirizzarne le scelte. Sono fuori tempo. Comunque, non possono competere. Perché hanno un pubblico molto limitato rispetto alle tivù. E, senza le tivù a rilanciarli, i loro argomenti restano confinati al pubblico dei lettori fedeli. Il PMM, invece, è un sistema integrato. Al tempo stesso: partito, istituzione rappresentativa, impresa, giornale, tivù, media. Senza soluzione di continuità. Una sola, unica persona al comando. Di questa democrazia personalizzata. Di questo paese personale.
Nessun commento:
Posta un commento
Tutto quanto pubblicato in questo blog è coperto da copyright. E' quindi proibito riprodurre, copiare, utilizzare le fotografie e i testi senza il consenso dell'autore.