lunedì 21 settembre 2009

L'idiota


"Signori e signore, e tutti voi che ci guardate alla radio e ci ascoltate viavideo, benvenuti."
George W. Bush, Discorso alla Casa Bianca,gennaio 2004


Nei primi giorni del novembre 2003, in un'atmosfera ostile o indifferente, il quarantatreesimo presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, sbarcò a Londra per una solenne visita di stato completa di pernottamento con signora a Buckingham Palace, proclama ai popoli della Terra, pranzo di gala con l'intera famiglia Windsor e cortei di cocchi dorati come i Bush avevano visto soltanto nei cartoni animati di Cenerentola. Quella visita era stata pensata e voluta dagli esperti di marketing alla Casa Bianca per segnare l'apoteosi imperiale del liberatore del mondo, nella certezza che, nove mesi dopo l'attacco e l'invasione dell'Iraq il 19 marzo 2003, a Bagdad volassero ormai soltanto fiori e baci, anziché ancora granate e raffiche di kalashnikov. Ventiquattr'ore prima del suo arrivo, la stampa britannica, ancora in larga misura ostile alla guerra nonostante la fedeltà di Tony Blair, pubblicò l'ennesimo sondaggio su di lui, su "W", "Dùbya", "Georgie", "Junior" (ma soltanto da bambino), "Bushie" (ma soltanto per la moglie), "Lip" il chiacchierone (ma soltanto in college) come è conosciuto sotto i suoi vari nomignoli. Sfortunatamente per gli impresari di quell'evento di pubbliche relazioni planetarie, il calendario dello spot non aveva coinciso con il calendario della realtà e la visita cadde in un brutto momento.
Si era nel pieno di quel "Bloody November" 2003, di quel mese di sangue che aveva visto il massimo numero di caduti americani e inglesi nei nove mesi di guerra. Bush era intensamente esecrato da una maggioranza di europei che lo vedevano come l'ennesimo cowboy con la fondina fumante e altrettanto appassionatamente venerato da una minoranza che lo adorava come il nuovo Re leone. "Quando vedo la sua faccia sul televisore, con quell'espressione compiaciuta e tronfia da idiota contento mentre pronuncia banalità pompose, l'acido gastrico mi sale in gola," scriveva sgarbatamente sul "Daily Telegraph", che pure è un giornale conservatore, la commentatrice Margaret Drabble. "Il mondo ha paura di lui," rispondeva dalle colonne del "Sunday Times", quotidiano della scuderia di Rupert Murdoch, uno dei più eloquenti e fervidi supporter di Bush, Andrew Sullivan, "semplicemente perché è un uomo di profonda fede, convinzione e onestà," un politico "che dice quello che pensa e fa quello che promette di fare, senza preoccuparsi delle opinioni dei sapienti." Opinioni, come si dice, piuttosto "polarizzate". Il sondaggio inglese non verteva sulla sua politica, sull'Iraq, sull'America, ma proprio su di lui, sulla persona. Si cercò di conoscere e quantificare l'opinione che i cittadini della nazione gemella dell'ex colonia "e separata da essa soltanto dalla lingua", come diceva malvagiamente Winston Churchill, avessero di lui. Quale giudizio sulla persona desse quel Regno Unito che comunemente è considerato come la testa di ponte degli Usa in Europa e il cinquantunesimo stato dell'Unione americana (per evitare equivoci, ricordiamo che gli Stati Uniti sono soltanto cinquanta). L'esito fu sbalorditivo: un terzo abbondante degli inglesi interrogati, il 35 percento, rispose di considerare Bush "a dope". Un cretino. Fu un trionfo. Dopo quasi tre anni di presidenza e una produzione incessante di sfottò, satire spietate, lapsus, gaffe, calembour, raccolte di suoi strafalcioni detti "bushismi", caricature insolenti e interi scaffali di libri scritti tanto da comici di professione quanto da docenti universitari per descriverlo come l'idiota del villaggio globale, il sondaggio diceva che due terzi degli inglesi, il 65 percento, lo consideravano "intelligente", o almeno non imbecille.
Una larga maggioranza di britannici, di donne e uomini nella nazione che forse più di ogni altra aveva recalcitrato davanti alla guerra mettendo nei guai il proprio stesso governo, apprezzava le doti intellettuali di un presidente americano che pure migliaia di dimostranti si preparavano ad abbattere in effigie sulle piazze. Se non si poteva dire che gli inglesi fossero stati sedotti dalla politica di Bush, certamente quel sondaggio dimostrava che il giudizio sulla sua persona stava cambiando. Essere giudicati "un cretino" da un terzo degli interrogati, nella vita pubblica, si tratti di un politico, di un autore, di un allenatore di calcio o di un giornalista, è un successo.
Quel risultato, così lusinghiero per lui, fu un'altra dimostrazione eloquente, fra le tante, di qualcosa che sta facendo impazzire le sinistre nel mondo e disperare gli oppositori in America, rassegnati a vederlo alla testa del paese fino al gennaio del 2009: il "teorema di Bush". La legge finora rimasta senza eccezioni per lui, secondo la quale in politica (e non soltanto in politica) essere sottovalutati è sempre la più devastante delle armi di distruzione dell'avversario.
Pochi leader americani, e nessuno nel Ventesimo secolo, neppure Gerald Ford che era stato licenziato come un innocuo stupidone afflitto dalla spiacevole abitudine di picchiare la testa contro ogni spigolo, era stato giudicato tanto impreparato, culturalmente e intellettualmente, ad assumere la leadership di una nazione che sembrava essergli caduta in grembo per caso, se non per truffa, come tanti ancora pensano. Ford, che si immolò su una memorabile gaffe nel 1976 quando affermò che la Polonia non era una nazione assoggettata al Blocco sovietico, ebbe almeno il buon gusto di perdere le elezioni.
Alla vigilia di un secondo mandato alla Casa Bianca, che soltanto una defezione massiccia del suo elettorato potrebbe negargli il 2 novembre 2004, la vita e la carriera del primogenito di Barbara Pierce e di George Herbert Bush erano diventate la parabola trionfale di un uomo che ha fatto, secondo un suo ammiratore e supporter, William Kristol, "del suo essere preso sottogamba e sottovalutato, la propria forza". Lo aveva detto anche lui con molta ironia a un gruppo di direttori di giornali e telegiornali americani ospitati sull'Air Force One nel 2002: "Io sono il campione mondiale del salto delle basse aspettative. Vi prego di continuare ad abbassare l'asticella per me . Lo aveva addirittura confessato a Sua maestà la regina d'Inghilterra Elisabetta, ospite del papà presidente e della mamma first lady a una cena di stato alla Casa Bianca negli anni orribili degli scandali reali. Al momento di sedersi a tavola tra minuetti temerariamente eseguiti dall'orchestra da camera dei marine in alta uniforme, George si era avvicinato a Sua altezza reale e le aveva detto ad alta voce: "My dear Queen, cara la mia regina, so che nella sua famiglia c'è qualche pecora nera, si consoli, ogni famiglia ne ha una, e la famiglia Bush ha me". "Che simpatico ragazzo" aveva risposto con un indulgente sorriso l'imperturbabile Elisabetta Windsor mentre la mamma di lui, la first lady Barbara Bush, sfiorava la sincope. Tutti avevano riso alla sfrontatezza di quel "ragazzo" che aveva allora quarantatré anni ed era quindi già ampiamente un adolescente fuori corso. In molti, compresa evidentementequella regina che qualche anno più tardi avrebbe dovuto ricevere, ossequiare e ospitare a Buckingham Palace, come un vassallo riceve l'imperatore, quell'uomo che aveva licenziato come un "simpatico ragazzo", erano caduti nell'inganno.
La vita di George W, di un uomo ormai destinato a passare alla storia senza mezze tinte, o come l'Ottaviano Augusto che portò a fruizione il suo impero o come il Romolo Augustolo che regnò fugacemente sulla sua entropia e dissoluzione, è la fantastica avventura di un "late bloomer", di un fiore tardivo, come si dice dei somari che fanno disperare i genitori a scuola e poi hanno successo nella vita adulta.
È la storia di uno strano Mozart alla rovescia, che fino all'età di quarant'anni non era considerato in grado neppure di suonare il campanello di casa senza farsi del male e poi si assunse la responsabilità di condurre l'intero concerto delle nazioni, costringendo tutti a suonare la musica da lui composta, che piacesse o meno agli orchestrali e al pubblico.
Una metamorfosi talmente imprevista, stupefacente e repentina da avere partorito la leggenda mostruosa di un 11 settembre 2001 organizzato addirittura da lui, dal suo governo, dai suoi burattinai e finanziatori, per trasformare "Georgie", il figlio di papà raccomandato e giuggiolone che scherzava con Sua maestà, nell'infallibile san Giorgio, liberatore del pianeta e campione della civiltà occidentale nella riedizione moderna dell'eterno duello tra l'impero d'Occidente e una nuova barbarie orientale.
Ma se la leggenda di un complotto ordito a Washington (o a Tel Aviv) è credibile soltanto per le orecchie degli esaltati e di chi attribuisce all'America sempre e a priori tutti i mali del mondo, reale è invece la trasformazione che quell'evento fece scattare in lui, andando ben oltre le normali mutazioni che le necessità politiche impongono sempre a chi governa, almeno nelle democrazie meno primitive. Nell'immensa sfortuna di aver subito quella tragedia, dicono oggi le legioni dei suoi fedeli, l'America ha avuto la fortuna di trovare un vero quanto inaspettato leader in George.
Le metamorfosi politiche in corso d'opera, cioè "imparare a pilotare l'aereo mentre si vola" come si dice negli Stati Uniti, sono la norma, non l'eccezione, in politica e soprattutto nella politica americana, nella quale il metabolismo dei governi ha il ritmo del mondo intero, che negli Stati Uniti si riflette e che da essi viene modificato, in un moto circolare di cambiamento reciproco di cause ed effetti. Nessun altro paese, nell'ultimo secolo, ha cambiato il mondo come lo ha cambiato l'America del Nord. E nessun'altra nazione è stata altrettanto modificata dal mondo esterno come questa, sulla quale ogni popolo e ogni cultura ha rovesciato una parte di se stessa. A differenza di altre nazioni condannate a subire la storia, gli Stati Uniti si fanno la loro storia, come questi anni dimostrano.
Moltissimi sono gli esempi di presidenti che finiscono per governare all'estremo opposto di quel che avevano promesso di fare e basti per ora l'esempio di Franklin Delano Roosevelt, il proclamato isolazionista che nel 1941 condusse l'America nella guerra mondiale - finora - più impegnativa nei suoi centosettant'anni di storia precedente. Ma la metamorfosi di Bush è stata più che politica, è stata la radicale mutazione di un uomo, spinto in pochi minuti davanti alla constatazione vertiginosa di aver contemporaneamente tra le dita il massimo potere distruttivo che mai essere umano avesse comandato nella storia, mentre subiva il massimo affronto fisico e morale che mai fosse stato inferto al corpo dell'America. Tutto quello che accadrà dopo sarà il prodotto della combinazione esplosiva del massimo della potenza con il massimo dell'impotenza. Una miscela così detonante da lanciare George nell'orbita dei presidenti americani più popolari, almeno per un breve periodo, e più importanti della storia. Fino ad avere appunto indotto qualcuno a sospettare la mano dello stesso governo Usa dietro l'11 settembre.
Diciamo subito, prima di continuare a leggere nella vita, nelle opere e nei miracoli di George, che questa teoria è semplicemente irresponsabile. Non è neppure pensabile che l'attacco a Manhattan sia stata una ferita autoinferta, perché se qualcuno, nel governo degli Stati Uniti, avesse mai potuto concepire o condonare una mostruosità simile, questo significherebbe la fine di ogni speranza per quella che noi ci ostiniamo a considerare la "civiltà occidentale", nonostante il famoso sarcasmo del Mahatma Gandhi che rispose a chi gli chiedeva che cosa pensasse della civiltà occidentale: "È un'ottima idea, e un giorno o l'altro si dovrebbe anche metterla in pratica".
Uno dei fratelli di George, Marvin Bush, era a bordo della linea della subway di New York a tre fermate dalle Torri gemelle, e se il collasso dei grattacieli fosse avvenuto qualche minuto più tardi, sarebbe rimasto sotto le rovine. I complottisti amano ricordare una curiosa coincidenza, che proprio Marvin era stato fino a pochi mesi prima uno dei direttori e azionisti della società privata che aveva in appalto la sicurezza delle due torri, la Securacom. Ma forse gli attentatori si erano dimenticati di avvertire proprio il fratello del presidente che quel giorno sarebbe stato meglio evitare di prendere la linea di métro che passava sotto i due palazzi?
Jim Pierce, nipote prediletto di Barbara Pierce, la first lady e madre di George, aveva una riunione di lavoro fissata per le nove del mattino al centoduesimo piano della Torre sud, la seconda colpita dagli aerei suicidi e la riunione fu spostata in un altro ufficio della zona la mattina stessa, perché le segretarie incaricate di organizzarlo si erano rese conto che quella sala sarebbe stata troppo piccola e così, grazie all'errore di un'assistente, si salvò la vita. Tutte le persone che si trovavano a quel centoduesimo piano morirono. E neppure merita attenzione o discussioni la tesi che da allora tiene banco nei caffè e purtroppo spesso anche sui giornali del mondo arabo, come i Protocolli di Sion e la spazzatura antisemita che sempre rigurgita, che sia stato il Mossad, i servizi segreti israeliani, a ordire la trama, su ordine di Ariel Sharon. Basti pensare a quali conseguenze apocalittiche avrebbe per il piccolo stato ebraico, se mai il pubblico americano scoprisse che Israele è stato il mandante dell'11 settembre. In una parola, sarebbe la fine.
Ma è vero che chi ha progettato e ordinato lo stupro di Manhattan - Osama bin Laden, la rete di Al Qaeda, qualche fazione interna e dissidente di regimi arabi che volevano minare le case regnanti o il despota al potere - ha, volontariamente o involontariamente, armato la mano di George Bush, credendo che questo presidente accidentale, questo "figlio di papà" senza esperienza né conoscenza del mondo, fosse quello che la propaganda ostile aveva descritto. Non sarebbe stata certamente la prima volta che la sottovalutazione dell'America vista da lontano, della sua solidità interiore dietro le "contraddizioni" visibili ed evidenti, e dei personaggi tanto spesso mediocri che sono chiamati a governarla nel gioco imprevedibile della democrazia elettorale, produce effetti catastrofici. Forse qualcuno ha ripetuto lo stesso errore che Nikita Kruscev commise dopo avere incontrato uno dei peggiori senatori che l'America avesse conosciuto, secondo il giudizio dei colleghi contemporanei, un giovanotto svagato che sembrava molto più interessato a inseguire le segretarie attorno alle scrivanie che a studiare i dossier, eletto presidente grazie alla valanga di denaro rovesciata dal padre sui boss dei partiti e a migliaia di voti mobilitati da Cosa nostra a Chicago, John Fitzgerald Kennedy. Quando l'ucraino segretario del Pcus lo incontrò a Vienna nel 1962, concluse sbrigativamente che quel ragazzo col ciuffo era un peso leggero che il Cremlino avrebbe facilmente divorato. Dall'errore di valutazione del leader sovietico venne la decisione di portare i missili a Cuba e di sfidare gli Stati Uniti nel loro emisfero, alle soglie di casa, e soltanto per una serie di decisioni fortunate e fortuite quell'errore non divenne la catastrofe di una guerra nucleare. La storia degli ultimi cent'anni, del cosiddetto "secolo americano", è lastricata dai resti di dittatori o governanti che si sono creduti più astuti o più forti o più risoluti di un'America che dà sempre l'impressione di essere una nazione in perenne crisi, debosciata e rozza, dominata da "decadenti, meticci, bastardi, ebrei e negri suonatori di jazz" come diceva Hitler. Gli scaffali delle biblioteche si piegano sotto il peso di saggi scritti da osservatori assai più rispettabili del Fuhrer che a ogni generazione guardano gli Stati Uniti e vedono il classico calabrone, l'insetto assurdo che non si riesce a capire come possa volare, con quella sua goffa forma, eppure vola. A meno che, e questa è una domanda inquietante e ancora senza risposta, chi ha sfidato George, trafiggendo la sua America in maniera tanto violenta e vistosa, non avesse invece prevista e voluta come conseguenza esattamente la risposta che George avrebbe dato e che, verosimilmente, qualsiasi altro presidente americano di ogni colore politico o persuasione sarebbe stato costretto a dare.
Che i "cervelli" dell'11 settembre non temessero affatto, ma volessero trascinare in una guerra l'America, provocandola oltre ogni possibile sopportazione. Capire le intenzioni del terrorismo, sia esso interno o multinazionale, è sempre, per definizione, un esercizio futile, perché il fanatico che abbatte a rivoltellate un giudice o uno studioso di problemi del lavoro, fa esplodere un jumbo jet civile in volo o ammazza un giornalista perché scrive articoli sgraditi, ragiona secondo una griglia mentale troppo diversa per poter sovrapporre la nostra logica alla loro. Ma è un pericoloso errore di arroganza anche immaginare che il mujaheddin, lo shahid, il "martire" palestinese che si fa esplodere in un caffè affollato o il brigatista siano "dementi" incapaci di ragionamento sequenziale. Un personaggio come Osama bin Laden, ammesso che il "riverito sceicco" come è conosciuto in Afghanistan, fosse il "cervello" dell'operazione, conosceva troppo bene il proprio nemico, l'America, per esperienza personale e familiare, per non sapere che qualsiasi presidente, repubblicano o democratico, di sinistra o di destra, stupido o geniale, non avrebbe potuto restare inerte di fronte a un attacco simultaneo contro New York e Washington e avrebbe scatenato la potenza di fuoco americana contro gli obiettivi più ovvi e facili, l'Afghanistan dei talebani per primo. Già Bill Clinton, pur di fronte a provocazioni e ad aggressioni agli interessi americani infinitamente meno mostruose dell'11 settembre, aveva dovuto reagire, distruggendo nel 1998 a colpi di missili Cruise una fabbrica di aspirine in Sudan. Ma veramente, gli organizzatori del primo attacco diretto al territorio continentale degli Stati Uniti, dalla spedizione punitiva dei britannici nel 1812, pensavano che Bush sarebbe rimasto a torcersi le mani, piangendo sulle rovine di Manhattan e del Pentagono? Ma davvero gli Osama bin Laden di questo mondo, che con l'America del potere e con gli stessi Bush avevano avuto decenni di collaborazione e di rapporti finanziari e personali strettissimi, credevano che una nazione che nel 2001 spendeva trecentonove miliardi di dollari l'anno per la difesa, che sommava in sé una forza armata che il resto del mondo assieme non avrebbe potuto eguagliare, sarebbe rimasta seduta sulle sue baionette, mentre i cani raspavano nel cratere delle Twin Towers cercando i frammenti di duemilaottocento vittime colpevoli soltanto di essersi trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato, sovente senza neppure essere – colpa suprema - cittadini americani, ma turisti? Se provocazione fu, non potrebbe avere avuto un successo più ovvio nel destare un gigante addormentato che in realtà non ha mai avuto molte difficoltà ad alzarsi e scuotersi dal sonno per impugnare il fucile.
Nella loro storia, dall'Indipendenza all'invasione dell'Iraq, gli Stati Uniti d'America, che amano considerarsi e presentarsi come una nazione paziente, pacifica e "slow to anger", riluttante a incollerirsi, hanno mostrato semmai il contrario, una certa impazienza con i propri nemici veri o immaginari. Hanno combattuto dieci guerre maggiori in poco più di due secoli, in media una ogni ventidue anni, escludendo i piccoli interventi di "polizia" a bassa intensità come in Guatemala, Libano, Panama o in Somalia. Dunque ogni generazione di cittadini americani, da George Washington ai ventenni che stanno combattendo e morendo a centinaia in Iraq dal marzo del 2003, ha conosciuto la guerra e non sono stati George W. né il circolo di consiglieri aggressivi noti come "neoconservatori" a scoprire o inventare l'imperativo della forza. Il mito del Gulliver yankee liberato dai lacci della propria ignavia grazie al coraggioso leader è, appunto, un mito. Talvolta Gulliver si è seduto a prendere fiato, ma legato da noi lillipuziani non lo è stato mai. Se la forza gli prometteva il risultato che voleva ottenere, dallo sterminio dei fastidiosi indigeni che gli contendevano il controllo del territorio americano, alla "liberazione" di Cuba e delle Filippine dagli spagnoli, agli interventi militari nell'emisfero americano fino all'eliminazione di un dittatore arabo che si faceva beffe di lui, la forza ha usato. Bush è molto più vicino alla norma che all'eccezione, nella storia dell'espansione dell'influenza americana prima sul continente e poi nel mondo.
Quando fu chiusa la parentesi quarantennale dell'"equilibrio del terrore" e quindi si sbloccò lo stallo imposto dall'esistenza dell'Unione Sovietica con la resa del nemico senza colpo ferire, il corso di quella storia che un politologo americano di immeritato successo, Francis Fukuyama, aveva dichiarato "finita" ed era stato preso sul serio soltanto perché le sciocchezze scritte in inglese sembrano più autorevoli delle stupidaggini scritte in italiano o in portoghese, il corso normale della storia americana è prontamente ripreso. Certamente era difficile, da una caverna dell'Hindukush, da uno scantinato di Kandahar o da un campo di addestramento per terroristi suicidi nelle Filippine, immaginare che gli atteggiamenti dell'immaturo Peter Pan quarantenne che si permetteva di scherzare con la regina d'Inghilterra ospite di stato, che si era distinto all'università per arresti da guida in stato di ubriachezza e per la passione per i costumini da ragazzo "pon pon" fossero invece presagi di una capacità di leadership elementare e semplice, al punto da apparire sempliciotta. Dunque perfetta per il tempo e per la gente semplice che egli avrebbe dovuto guidare in guerra, benedetto dall'immensa fortuna e grazia divina di essere un mediocre.

Vittorio Zucconi (“George - Vita e miracoli di un uomo fortunato” - "Serie Bianca" - 2004)

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