Salvate Brunetta da Brunetta. Ecco cosa viene in mente, a leggere le schioppettate sparate dal ministro a Cortina contro le «élite di merda» e «irresponsabili che stanno preparando un vero e proprio colpo di Stato» e contro esponenti della Chiesa che «giocano al massacro» e sono «portatori di una ideologia politica con la tonaca» e contro la «sinistra permale» che dovrebbe andarsene «a morire ammazzata». Uno si chiede: perché?
Questi strilli continui, quotidiani, bellicosi sono utili al Paese, al governo, a lui stesso? «Io, povero, non bello e non ricco, ho fatto il culo al mondo e sono la Lorella Cuccarini del governo Berlusconi», disse tempo fa, gongolando per i sondaggi secondo i quali era «il più amato dagli italiani». E aveva davvero buoni motivi per essere fiero. Applausi scroscianti a ogni apparizione pubblica. Urla di «bravo! bravo! » appena si avvicinava a un microfono. Spettatori in delirio al palatenda di Cortina. Ascolti alti quando si affacciava in televisione. Una marcia trionfale, per uno partito dai quartieri popolari di Venezia che aveva dovuto guadagnarsi metro per metro la sua scalata culturale, sociale, politica. Il Cavaliere, quando dice d’«essere nato povero» (con un papà direttore di banca) giochicchia col passato. Lui no. Povero lo è nato davvero: «Sono uno del popolo, lo sanno tutti che mio papà vendeva souvenir sulla bancarella a Venezia, che ho vissuto in 90 metri quadri in nove persone. Che ho studiato con sacrifici».
Per anni e anni, prima a sinistra poi a destra, lo avevano trattato come un giocatorino di riserva. Di quelli che dici: bravo, ma leggerino. Una specie di Giovinco economico. Anni e anni di panchina. A spiegare agli altri l’economia, disegnare per gli altri le tabelle, studiare per gli altri le leggi. E poi convegni, convegni, convegni... E tutti a dire: che intelligenza, Renato! Al momento di schierarlo in campo, però... Ministro no, governatore del Veneto no, sindaco di Venezia no... Quando finalmente andò a giurare al Quirinale come responsabile della Funzione Pubblica era raggiante. E furono in tanti, e non solo della sua parte politica, ad applaudire le sue rotture, le sue accelerazioni, la sua cocciutissima volontà di venire a capo di una battaglia, quella contro i fannulloni, che andava fatta. Una battaglia meritoria. Per restituire efficienza alle amministrazioni statali, regionali, comunali incrostate dal calcare della burocrazia. Restituire dignità ai dipendenti perbene che in quegli uffici vengono giorno dopo giorno umiliati da colleghi lavativi che scaricano il lavoro sugli altri. Restituire ai cittadini l’idea che lo Stato c’è e sa farsi sentire. Certo, la voglia di portare a casa subito dei risultati gli tirò addosso una serie di critiche per certe storture come quella dei donatori di sangue, inizialmente «puniti» come assenteisti anche per quei gesti di generosità. «Sviste. Solo semplici sviste da rimediare », dissero al ministero.
Come si poteva non essere d’accordo, al di là di certi toni aggressivi, con chi cercava di raddrizzare un sistema del pubblico impiego che aveva visto negli anni episodi allucinanti come quello del celeberrimo «Professor M.» che riusciva far segnare anche il 72% di assenze? O di quello spazzino ubriacone licenziato dopo che aveva fatto due settimane di assenza senza manco presentare un certificato medico e fatto riassumere dalla magistratura perché, essendo ciucco, non poteva ricordarsi di presentarlo? Proprio perché la battaglia era sacrosanta e andava fatta, però, è un peccato che sia stata spesso così drogata dai proclami («Il Paese è con me! Sto cambiando tutto!») da fare risaltare, oltre ai buoni risultati, i fallimenti. Come quello rivelato giorni fa da ItaliaOggi secondo il quale, dopo un anno e mezzo, su 30 mila enti della pubblica amministrazione quelli che hanno messo on-line gli stipendi dei dirigenti sono 409: poco più dell’1%. Ed è un peccato se si sia risolta spesso in una sfida muscolare che ha finito per danneggiare tutti: la battaglia, i dipendenti pubblici, i rapporti sindacali, il dibattito politico e lui, Brunetta. Che si è andato via via avvitando in una raffica di sortite bellicosissime manco fosse il re di Frisia della Commedia dell’arte che come «un fulmine ove passa / ciò che tocca arde, abbatte, apre e fracassa». Contro il federalismo delle regioni a statuto speciale «bastardo, sprecone, piagnone» dovuto «alla dabbenaggine, alla stupidità, alla captatio benevolentiae dello Stato». Contro le donne di sinistra perché nessuno «ha mai visto una donna brutta in una Ferrari» dato che le belle che aspirano a salire «puntano a Forza Italia che funge da 'ascensore sociale'». Contro i ragazzi dell’Onda «che sono dei guerriglieri e come tali verranno trattati ». Contro i registi appartenenti a quel «culturame parassitario vissuto di risorse pubbliche che sputa sentenze contro il proprio Paese ed è quello che si vede in questi giorni alla Mostra del Cinema di Venezia». Contro i poliziotti sovrappeso («Lo erano anche Joe Petrosino e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa», fu la risposta di un alleato, il leghista Piergiorgio Stiffoni) perché «non si può mandare in strada il poliziotto 'panzone' che ha fatto solo il passacarte...».
E poi contro i magistrati che dovrebbero essere «controllati con i tornelli». E contro la Cgil che non firma il contratto del pubblico impiego: «E chi se ne frega della Cgil!». E contro i medici mediocri: «Stiamo attentissimi a yogurt e succhi di frutta, ma andiamo in ospedale e ci facciamo operare dal primo venuto, senza sapere se è bravo o è un macellaio. E sappiamo che negli ospedali i macellai non sono pochi». Contro i pessimisti della crisi, liquidati con un articolo sul Sole24ore fin dal 9 agosto 2008 con un pezzo dal titolo rassicurante: «Ma il peggio è già passato». Tutte cose che magari avevano un senso e meritavano di essere approfondite ma venivano buttate lì con parole e modi così spicci da tirargli addosso non solo gli insulti degli avversari ma perfino le dissociazioni degli alleati. Un caso per tutti? Quello di Roberto Fiore che, neofascista e nemico mortale di «rossi», il giorno in cui il ministro si era avventurato a dipingere un paese popolato di fannulloni soprattutto di sinistra sbottò: «Qualificare milioni di italiani come fannulloni di sinistra oltre a essere ridicolo, semplicistico e falso, è una categorizzazione da osteria». Per non dire del capolavoro: mettere d’accordo, nella trincea avversaria, due galli in lite perenne come Guglielmo Epifani e Raffaele Bonanni. Il quale sul nostro è arrivato a dirne di cotte e di crude: «prolisso», «showman», «pallone mediatico», «politico male educato democraticamente» e «demagogo» che rischia di «far tagliare a fette il Paese dal qualunquismo ».
Insulti perfino garbati rispetto ad altri incassati negli anni. Dalla qualifica di «mini-ministro» usata da Furio Colombo (che si sarebbe scusato: «Intendevo che la politica di Brunetta è mini») a quella di «energumeno tascabile» cucitagli addosso da Massimo D’Alema fino a «ministro di Topolinia» del democratico Francesco Sanna. Per non dire della battutaccia di Francesco Storace: «Il ministro spilungone...». Offese brutte. Pesanti. Inaccettabili. Come tantissime altre vomitate in Internet da migliaia e migliaia di anonimi teppisti («ebreo», «bastardo», «nano») che impongono una piena, totale, assoluta solidarietà col ministro. Solidarietà che Brunetta renderebbe più corale e affettuosa se ogni tanto, per il bene delle sue battaglie, ricordasse un vecchio consiglio del Carosello: «Cala cala Trinchetto... ».
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