Tranne Adamo, che non aveva nessuno al quale attingere, tutti gli altri autori, chi più, chi meno, hanno copiato da un predecessore. Magari senza volere, inconsciamente, ma hanno copiato. Uno dei più sfacciati in tal senso è stato William Shakespeare: la sua tragedia Romeo e Giulietta ripercorre, passo dopo passo, la triste storia di Piramo e Tisbe, favola babilonese di due giovani innamorati, appartenenti a due famiglie che si odiavano a morte. Piramo, juvenum pulcherrimus, e Tisbe, praelata puellis (lui, bellissimo tra i giovani, lei, prescelta tra le fanciulle) abitavano nello stesso edificio. E fu proprio grazie a questa vicinanza che ebbero modo di conoscersi. All'inizio si guardarono da una finestra all'altra del cortile, poi s'incontrarono per le scale, infine si dettero i primi baci e si amarono teneramente, come da copione. Purtroppo, però, le loro famiglie si odiavano da sempre. Si trattava di odii antichi, feroci, trasmessi di padre in figlio, consolidati nel tempo, le cui ragioni, a quel punto, sfuggivano agli stessi interessati. Una volta sorpresi a baciarsi, Piramo e Tisbe furono rinchiusi in due sgabuzzini nelle cantine del palazzo. Ciò nonostante, continuarono a sussurrarsi frasi d'amore: la parete divisoria che separava i due sgabuzzini aveva una piccola crepa, una fessura invisibile a tutti fuorché ai due innamorati; ma per dirla con Ovidio: quid non sentit amor?, di che cosa non s'accorge l'amore? O parete invidiosa, essi dicevano, perché ti opponi a coloro che si amano? Pensa come sarebbe bello se ci offrissi una porta onde farci congiungere con tutto il corpo, e se questo ti par troppo, cosa ti costerebbe aprirti un pochino, quel tanto da consentirci almeno un bacio? Ma adesso non vogliamo essere troppo ingrati: è certamente merito tuo se ci è stato concesso un piccolo varco attraverso il quale far passare le nostre frasi d'amore. L'amore, insomma, non si può incatenare: lo dice anche una vecchia canzone napoletana. E i due innamorati progettarono allora un piano per fuggire. Quando i rispettivi carcerieri sarebbero venuti a portare loro la cena, li avrebbero aggrediti di sorpresa e imbavagliati. Per quanto riguarda Tisbe, la nutrice guardiana era una vecchietta mite, forse anche un po' ingenua; facilissimo, quindi, da immobilizzare e toglierle le chiavi. Per Piramo, invece, la fuga era ancora più semplice: si era messo d'accordo, corrompendolo, con il custode incaricato del turno di notte. I ragazzi si dettero appuntamento nel bosco di Nino, accanto a una fonte e a un albero di gelso dai frutti bianchi. Di soppiatto, al buio, esce di casa Tisbe: apre i battenti della porta di casa con la massima cura per evitare di essere scoperta dai familiari. La fanciulla ha il viso velato per non farsi riconoscere. Giunge alla fonte e si pone a sedere sotto l'albero convenuto. Vede la luna che si specchia nella fonte. Ma ecco apparire una leonessa: ha la bocca insanguinata per aver da poco sbranato un vitello. Non appena Tisbe la scorge, con il cuore in tumulto, si rifugia in un antro oscuro. Nel fuggire, però, si perde il mantello. La leonessa, nel frattempo, dopo essersi abbeverata alla fonte, e prima ancora di rientrare nel bosco, vede il mantello di Tisbe e lo lacera con la bocca ancora sporca di sangue. Piramo arrivò in ritardo: per scappare, aveva dovuto attendere l'arrivo del carceriere con il quale si era messo d'accordo. Giunse alla fonte mezz'ora dopo Tisbe; si guardò intorno, e scorse sotto l'albero di gelso il mantello della fanciulla imbrattato di sangue. Accanto al mantello le orme di un leone. «Ahimè, cosa ho fatto! O sventurata: sono stato io a ucciderti amor mio! Tu saresti stata degna di vivere una vita lunghissima, e io, invece, ti ho costretto a venir qui di notte, da sola, in un luogo pieno di rumori sinistri, e non ho avuto nemmeno l'accortezza di giungere per primo! Ma adesso basta: la stessa notte vedrà la fine dei due amanti!» Ciò detto raccolse il mantello, se lo porto alle labbra, lo baciò con passione e subito dopo si trafisse con un corto pugnale. Il sangue di Piramo raggiunse le radici del gelso che da quel giorno mutò il colore dei suoi frutti, facendoli diventare tutti neri. Ed ecco tornare Tisbe. La fanciulla ha ancora paura, nel contempo, però, non vuole deludere il suo amante. Lo cerca disperatamente con gli occhi ed è impaziente di raccontargli i pericoli che ha evitato. Vede il gelso e non lo riconosce più percolpa dei frutti che hanno cambiato colore; sta per andar via quando s'accorge che lì, steso a terra, c'è l'amor suo. «O Piramo, quale triste Fato ti allontanò da me? O Piramo, rispondimi! E la tua amatissima Tisbe che ti chiama.» Ma Piramo non rispose: ebbe appena il tempo di aprire gli occhi e di gettarle un ultimo sguardo. Tisbe, allora, lo baciò sulle labbra, quindi gli tolse il pugnale dal petto e se lo puntò sul seno. «La tua mano e l'amore che nutrivi per me, o Piramo, ti hanno perduto, ma anch'io ho una mano ferma, anch'io ho un amore capace di uccidere! E tu albero, che adesso con le fronde copri il corpo suo straziato, e che tra poco coprirai quelli di entrambi, conserva i segni di questa triste storia, mantieni per sempre i tuoi frutti di color cupo, affinché siano confacenti a pensieri di morte. E tu, padre mio, e tu, padre di lui, genitori infelicissimi, fate in modo che almeno nell'urna i nostri corpi giacciano insieme, l'uno accanto all'altro.» E così dicendo si trafisse con il pugnale, ancor tiepido del sangue del suo amante sfortunato. Anche Giulietta trovò il suo Romeo che stava esalando l'ultimo respiro, anche lei lo baciò sulle labbra, anche lei si trafisse con uno spadino e anche lei, inginocchiata accanto al suo uomo, mormorò struggenti frasi d'amore. Devo però correggere quanto ho detto prima: non fu certo Shakespeare a copiare dai babilonesi, bensì il Dio Amore a suggerire alle sue vittime le medesime frasi, giacché, indipendentemente dal secolo in cui si vive, alla fin fine gli innamorati si comportano sempre nello stesso modo. Possono essere ricchi o poveri, viaggiare in tram o in aereo, parlarsi da un balcone all'altro o col telefonino, essere immortalati da Shakespeare o dai baci Perugina, ma prima o poi finiscono sempre col dirsi «ti amo».
Luciano De Crescenzo (ZEUS I MITI DELL'AMORE - ARNOLDO MONDADORI EDITORE)
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