Attorno a noi sta cambiando tutto. Quando ho pensato al mondo in cui si muove il Partito Democratico, la mia mente è stata assalita da una quantità di immagini, di scatti, di oggetti, di istanti, che segnano la spaventosa velocità del cambiamento in cui ha agito politicamente l’ultima generazione e che ci obbligano a pensare in termini nuovi. È un mondo che ha impiegato 10.000 anni per raggiungere nel 1900 un miliardo di abitanti e che ne ha messi solo altri 110 per moltiplicarsi per 7 (e due su cinque di quegli abitanti sono o indiani o cinesi).
Un mondo che corre così veloce che i padri spesso non sanno usare i giochi dei loro figli, in cui i computer costano 1000 volte meno di 30 anni fa; un mondo che riscopre una identità nomade dove il recapito telefonico e l’indirizzo postale non sono più associate al territorio ma viaggiano con te. Tutto corre nell'economia, nell'informazione, nelle nostre vite. E questa velocità sempre più folle sembra travolgere le nostre certezze, come se ci togliesse ogni appiglio, come se ci togliesse fiato, spingendo anche noi a correre. A correre senza una meta, a correre perché tutto si consuma in fretta attorno a noi e quindi bisogna vivere in fretta. Sembriamo condannati a vivere nel presente, incapaci di guardare lontano, nelle nostre vite individuali come nelle scelte collettive e nella politica. Incapaci di programmare, di fare oggi una scelta che non darà frutti domani ma fra qualche anno, per noi o per chi verrà dopo di noi. E' come camminare guardando la terra che si calpesta anziché tenendo lo sguardo sull'orizzonte che si vuole raggiungere. E' stato il modello di globalizzazione che è apparso trionfalmente vincente e indistruttibile sino alla crisi di settembre, a trascinarci in questo incapacità di cercare il futuro.
I miti della crescita inarrestabile, della competizione e del mercato senza regole, hanno spinto a costruire sulla sabbia, a volere tutto e subito, perché tutto è sembrato possibile e facile. In effetti, il mondo emerso dal crollo del Muro di Berlino, il mondo del terzo millennio, è un mondo che si è messo a correre, come mai era successo prima. In meno di un quarto di secolo, il prodotto globale è raddoppiato due volte. In questo stesso periodo, in Asia, 400 milioni di persone sono uscite dalla povertà. Tra il 2003 e il 2007, il reddito medio mondiale è cresciuto ad un ritmo superiore al 3 per cento annuo, il tasso più alto dell'intera storia umana. La crescita dell'economia mondiale, sino alla crisi, è stata impetuosa, come mai era stata prima. Ma è stata anche il frutto di una contraddizione profonda. E' stata alimentata da tre grandi, crescenti debiti americani: l'indebitamento delle famiglie, il deficit commerciale, il debito pubblico, cui va aggiunto un quarto debito: quello energetico ed ambientale con i suoi enormi costi, in termini ecologici e climatici. La crescita costruita scaricando il benessere raggiunto nel presente sulle prossime generazioni, sul futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti. Dunque la crisi nella quale l'economia globale è entrata nell'ultimo anno, al di là dei fattori contingenti che l'hanno provocata, è la crisi di un modello di capitalismo, miope e profondamente egoista. Il modello che, esplodendo, ha consegnato al mondo il gigantesco problema di riorganizzare il sistema economico mondiale su basi meno squilibrate, cioè senza accumulare debito, senza penalizzare chi verrà dopo di noi, con meno diseguaglianze fra le persone e fra i paesi. E' stato detto che il populista pensa alle prossime elezioni, il riformista alle prossime generazioni. Ecco. La destra italiana pensa sempre e solo alle prossime elezioni. Noi democratici pensiamo prima di tutto alle prossime generazioni. Qui si apre lo spazio per un nuovo riformismo. Un riformismo che abbia il coraggio di sfidare le destre non rincorrendole, non limitandosi a proporre correttivi ai modelli economici e sociali che ha imposto, ma mettendo in campo una gerarchia di valori alternativa e proiettata sul futuro. Questa deve essere la nostra sfida e la sfida dei riformisti europei.
Il nostro principale campo di gioco, infatti, si chiama Europa. Non è un’idea fuori moda. Occorre tornare al coraggio e alla visione dei padri fondatori per capire la grandezza del disegno. L’obiettivo di una piena integrazione politica, di un’Europa che decide a maggioranza anche su politica estera e difesa, che interviene nel momento della crisi sui settori più deboli, che decide di più dove serve e un po’ meno dove non serve più, quello è il nostro obiettivo. E ovunque sia stato nel mondo, fuori dall’Europa, dove lo Stato confinante è ancora percepito come una minaccia potenziale, dove in una capitale vicina si può ancora andare a combattere invece che come in Europa a visitare un museo, studiare per un programma Erasmus, fidanzarsi, là ho capito la grandezza del progetto europeo. E far ripartire la crescita su binari nuovi dovrebbe essere anche il compito di un'Europa che vuole tornare ad essere protagonista nella ridefinizione del modello di crescita globale. E invece l'Europa rischia di restare confinata in un ruolo secondario, non solo perché è politicamente debole ma perché le manca una missione collettiva. E, non a caso, le elezioni europee hanno messo in evidenza, nel Vecchio Continente, una tendenza politica assai diversa rispetto a quella che tante speranze ha suscitato nel mondo. Le due più grandi democrazie del pianeta, di fronte alla crisi economica, si sono affidate ai riformisti: ai democratici americani di Obama o ai progressisti indiani di Sonia Gandhi. In Europa hanno invece vinto i partiti di centrodestra e le elezioni hanno anche fatto registrare un inquietante rafforzamento delle formazioni populiste o xenofobe. Dinanzi alla crisi, insomma, Stati Uniti e India si aprono, l'Europa si difende e si arrocca. È la paura che vince. Paura della crisi, paura dell'immigrazione e delle società multietniche, paura del futuro che spinge una società che invecchia a cercare chi offre più conservazione, chi punta tutto sulla protezione individuale, esaltando e rendendo assoluto il valore della libertà, a scapito della coesione sociale. E noi riformisti abbiamo sottovalutato per molto tempo la suggestione che questa cultura ha esercitato sulle nostre società e la profondità delle sue radici. La crisi mette ora in discussione le forme economiche del pensiero politico della destra, ma ancora non sembra scalfire le premesse su cui si regge quella cultura. In un tempo che resta segnato dal conflitto e dominato da insicurezza e paura del futuro, la destra cerca una sua nuova versione rassicurante e difensiva.
Dalla stagione dell'ultraliberismo, del consumismo individualista, dell'esaltazione del privato contro ogni idea di pubblico, si passa al ritorno alla tradizione, all'ordine naturale, all'uso della religione come strumento di governo e come baluardo della civiltà occidentale, alla piccola comunità chiusa come antidoto alla globalizzazione. Insomma una versione corretta di Dio, patria e famiglia. Il voto italiano va collocato dentro questo vento di destra che ha attraversato l'Europa. Berlusconi stesso nel 1994 rappresentava una proposta di cambiamento. Illusoria, ma era una proposta di cambiamento. Oggi anche la sua proposta è solo di protezione e conservazione. Per questo non farà, non potrà fare nessuna riforma vera per tutta la legislatura ma produrrà solo provvedimenti tampone che trasmettano il messaggio di stare tranquilli, che dopo la crisi tutto tornerà come prima. Noi riteniamo invece che la profondità della crisi richiede non solo risposte specifiche alle paure e ai bisogni dei cittadini ma una visione nuova, che adegui le strutture portanti del nostro sistema economico sociale e istituzionale. Siamo consapevoli della necessità di misure di emergenza per evitare l’aggravarsi della crisi in autunno. Per questo abbiamo proposto provvedimenti immediati cogliendo istanze avanzate anche dalle forze sociali: misure a favore delle imprese (vera accessibilità al credito specie per le piccole e medie imprese, accelerazione dei pagamenti della pubblica amministrazione, incentivi per rilanciare gli investimenti), dei lavoratori (ammortizzatori per tutelare il reddito e favorire il reimpiego, sostegno ai redditi da lavoro e da pensioni che soffrono per la crisi) e degli enti locali per garantire le risorse necessarie agli investimenti e ai servizi che solo loro possono fare. Se il governo avesse attuato per tempo una contromanovra di un punto di Pil, come richiesto da noi, non saremmo al crollo attuale del 5% e si sarebbe almeno dato un senso all’aumento del deficit e del debito. E gli italiani avrebbero visto che qualcuno si occupava di loro. Ma, oltre che all’emergenza, occorre pensare subito a interventi strutturali, a quelle riforme lungimiranti che sono necessarie per prepararci a uscire dalla crisi; perché servono a combatterne le radici, che non sono solo finanziarie, ma affondano negli squilibri economici e nelle disuguaglianze sociali. Abbiamo bisogno di riforme che correggano le gravi distorsioni nella distribuzione del reddito e del mercato del lavoro, che rilancino la mobilità sociale; riforme per valorizzare un capitale umano e sociale che si sta impoverendo; scelte di politica industriale che sostengano l’innovazione e la ricerca, che sono beni pubblici e non solo requisiti di mercato.
Serve una innovazione a 360° che diffonda l’uso intelligente delle tecnologie, e promuova forme di organizzazione produttiva adattabile e intelligente, oltre i modelli fordisti del secolo scorso; che superi la visione corta e speculativa all’origine della crisi, che rilanci i progetti di lungo periodo e dia valore ai contenuti immateriali e qualitativi tipici della conoscenza. Un’area di intervento particolarmente importante riguarda la modernizzazione dei vari settori dei servizi, che nella presente società sono sempre più decisivi per la vita delle persone e delle imprese. La responsabilità dell’attore pubblico e della politica è diretta nel caso dei servizi pubblici, centrali e locali. Non per perpetuare indebite ingerenze nella loro gestione, ma per dare un quadro stabile di regole e di indirizzi; per definire standard comuni di qualità a livello nazionale, da controllarsi con autorità indipendenti, per favorire la formazione di soggetti erogatori forti, capaci di operare in campo aperto, anche incentivando l’aggregazione di servizi e aziende, promuovendo le condizioni di concorrenzialità, o comunque l’adozione del sistema delle gare per la gestione dei servizi. Vogliamo innovare il ruolo dello Stato nell’economia, non per richiedere salvataggi di attività finanziarie e imprenditoriali insostenibili, ma perché sappia regolare in modo autorevole il mercato, ridisegnando le regole del gioco e rafforzando i controlli, adottando politiche di liberalizzazione, utili a migliorare la competitività dei servizi per i cittadini.
Un intervento pubblico che sappia creare condizioni favorevoli di contesto, e che preveda un fisco più giusto per i cittadini e per le imprese necessari a uno sviluppo equilibrato e sostenibile: in primo luogo infrastrutture materiali e immateriali. L’innovazione economica si deve accompagnare con il cambiamento sociale, a cominciare dal welfare, che sappia rassicurare i cittadini, ridare prospettive e opportunità a persone e comunità, sostenere la coesione sociale che è una risorsa fondamentale anche per rilanciare il paese. Queste sono le sfide che noi vogliamo raccogliere. Ecco il punto per noi, per il Partito Democratico: a differenza della destra, vogliamo dire con forza che noi crediamo che dalla crisi possa uscire un'Italia migliore, non quella di prima. Un'Italia che proprio attraversando le difficoltà riscopre i valori fondanti della solidarietà, delle comunità locali, dell'essere una nazione. Che recupera il senso di una grande missione collettiva in cui i talenti di ognuno sono a disposizione non solo di se stessi ma del proprio Paese. Il Partito democratico allora come forza che crede nel futuro. Che crede nelle riforme come chiave per il cambiamento di cui l'Italia ha bisogno da anni per uscire dalla stagnazione e dall'immobilismo. Che tutela gli interessi ma solo se rispettano i valori. Perché rispettare un valore è spesso il modo migliore per difendere un interesse. Combattere la povertà, contrastare il degrado sociale non significa, forse, estirpare una delle radici più profonde dell'insicurezza? Come dicevano i laburisti inglesi all'inizio del loro ciclo vincente: "Combattere il crimine e le cause del crimine". O come ci ricordano le parole di Victor Hugo che stanno incise nel marmo di uno degli ingressi della Sorbona: "Aprire una scuola è chiudere una prigione".
Questo è quello che dobbiamo fare: ricostruire una identità del nostro campo. La destra italiana in questi 15 anni ha avuto stabilità negli assetti e un leader unificante. Così ha potuto costruire una identità, percepita da tutti, attorno ad alcuni messaggi chiari: sicurezza, libertà di fare ogni cosa, meno Stato. Il nostro campo nello stesso periodo ha avuto instabilità totale nei leader, nei partiti, che si sono sciolti, ricostituiti, sostituiti, nei governi fragili. E così non siamo riusciti a trasmettere che sensazioni indistinte, non messaggi chiari e univoci. Se voti destra sai cosa voti. Se voti di qua non sai cosa voti. E’ questo, più di ogni altra cosa, che spiega la sconfitta dello scorso anno e i risultati negativi delle amministrative e delle europee. Ricostruire una identità. Sarà un lavoro lungo e difficile ma il risultato delle europee ci mette in condizione di ripartire. Dobbiamo fare arrivare agli italiani messaggi comprensibili che facciano capire a tutti non solo la nostra proposta per il problema del giorno dopo ma quale è il modello di società che abbiamo in mente, qual è la diversità dei nostri valori di riferimento. Poche parole chiare, che caratterizzino il partito e che indichino la via lungo la quale costruire un programma di governo. Le parole di un riformismo moderno, che usa le radici e la memoria delle culture politiche del 900 italiano non per tornare nostalgicamente indietro, o per restare immobile, ma per immergersi in un cammino nuovo ed emozionante. La prima parola è FIDUCIA. Fiducia è la risposta alla paura che la destra alimenta e cavalca parlando di sicurezza. Paura della crisi, paura di perdere il lavoro, dell'immigrato, della criminalità, della povertà, della solitudine. Paura per il futuro del mondo e per i nostri figli che dovranno viverci. Quella paura che spinge alle ronde, a difendersi da soli, che spinge a rinchiudersi in casa, impauriti dagli altri che ti vivono vicini, e da come te li rappresenta la televisione. Servono allora misure e comportamenti che alimentino la fiducia personale e collettiva. Quella fiducia che tiene insieme la vita, le comunità, il mercato. Tutte le nostre politiche, tutte le nostre proposte concrete devono essere costruite attorno a questo messaggio positivo. Dalle misure per proteggere i lavoratori e i cittadini dalla crisi, alle riforme economiche necessarie a dare prospettive a famiglie e imprese. Fino alle riforme istituzionali che ridiano fiducia ai cittadini in uno Stato e in una politica che debbono essere basati sulla trasparenza e sull'efficienza.
Fiducia e coesione vanno sostenute nel mondo del lavoro, evitando di mettere, nella crisi, le difficoltà le une contro le altre, secondo antiche divisioni sociali. Di fiducia e di sostegno hanno bisogno anche le imprese che sono investite da una competizione globale dura e spesso senza regole. Noi dobbiamo dare risposte ai loro bisogni, che abbiamo trascurato, perdendo così la fiducia di questo mondo. Non possiamo essere indifferenti di fronte a 1.600.000 lavoratori che, come ricorda il governatore della Banca d’Italia Draghi, non hanno alcun sostegno economico nella crisi e a oltre 500.000 che hanno solo pochi euro: una folla di poveri che è destinata purtroppo a crescere in autunno, se si continua a non fare niente, che avvilisce le persone e priva le imprese di risorse umane preziose. Così rischiamo di lasciare un paesaggio produttivo e umano desertificato. Per noi il mondo del lavoro di oggi è fatto insieme da lavoratori e imprenditori. E gli imprenditori non hanno smesso, come è stato detto, di essere nostri nemici per diventare nostri amici se rispettano le regole.
Gli imprenditori sono una parte del mondo del lavoro e una parte di noi democratici. In campagna elettorale sono stato a Prato, in una piccola impresa del tessile. Il proprietario mi ha parlato dei problemi gravi della sua azienda poi, indicando i suoi dipendenti, mi ha detto: "Io non licenzio nessuno. O ci salviamo tutti o chiudo". Questa è l'Italia che sconfiggerà la crisi. Combattere la precarietà, migliorare le condizioni dei lavoratori e dare alle imprese protezione dalla crisi e sostegno per innovare, sono due pezzi della stessa politica, la nostra politica. Le proposte che abbiamo avanzato in questi mesi per fronteggiare l'emergenza, dall'assegno di disoccupazione al credito per le piccole e medie imprese, sono due piccole prove di come si possa spingere all'unità del mondo del lavoro e non alle divisioni e alla disgregazione sociale, come se la società fosse divisa tra le vecchie classi di un tempo finito. Anche per questo è giunto il tempo di ragionare su forme moderne di partecipazione dei lavoratori alle scelte delle imprese, come ci indica da decenni la nostra Costituzione. Dobbiamo ridare fiducia a milioni di persone impaurite. Per questo vogliamo cambiare il nostro welfare e renderlo uno strumento universale che accompagni tutte le persone e le famiglie nel corso della vita, proteggendole dai rischi della povertà e dell' emarginazione. Un welfare che cominci dalla cura e dall'educazione dei bambini, e che dia un ruolo centrale alla formazione permanente, come leva fondamentale per valorizzare le capacità personali. E vogliamo che riguardi non solo i lavoratori subordinati, come nel welfare storico, ma anche i lavoratori autonomi e gli imprenditori, specie quelli piccoli che oggi sono privi di difese sociali.
Per i lavoratori autonomi vanno ricercate, e discusse con loro, forme di protezione adatte ai loro bisogni. Vogliamo che gli ammortizzatori siano un diritto per tutti, non una concessione discrezionale del governo. Solo diritti certi, non deroghe caso per caso e concessioni del governo, possono ridare prospettive e fiducia. Per ridare fiducia non basta offrire protezione. Dobbiamo offrire prospettive di futuro e opportunità. Questa è una lezione che ci viene dall'esperienza, dalle reazioni che registriamo di fronte alla crisi. Non riusciremo a convincere neppure le persone più bisognose di aiuto e di sicurezza se ci limitiamo a promesse di assistenza. Così non siamo competitivi con le proposte della destra che indicano, anche se in modo illusorio, prospettive di arricchimento, di affermazione e di autonomia personale. Dobbiamo indicare una via più ambiziosa e più equa: quella di un welfare rassicurante, attivo e insieme solidale; politiche economiche e sociali che valorizzino non gli interessi egoistici di singoli o di territori, ma uno sviluppo equilibrato e sostenibile per tutta l'Italia. La fiducia va alimentata con un nuovo patto fra generazioni e generi in sostituzione di quello del secolo scorso che non è più sufficiente per le trasformazioni demografiche, dei cicli di vita e dei rapporti familiari. Un nuovo patto generazionale deve ridare fiducia alle famiglie. Dobbiamo prendere atto del ritardo con cui il nostro paese ha affrontato i cambiamenti intervenuti nella famiglia e dobbiamo raccogliere le sfide che da essi derivano.
Ogni aspetto della famiglia è cambiato: composizione, vita media, tipologia, rapporti tra uomini e donne e tra generazioni. Per non parlare delle famiglie immigrate. E’ arrivato il momento di riaprire un grande confronto sulla legislazione per la famiglia, compresi la mediazione familiare, il tribunale per la famiglia e la persona. Non dobbiamo aver paura di sviluppare un dibattito su temi rilevanti per la vita di ogni persona. Partiamo da principi condivisi, e in particolare dalla consapevolezza che ogni persona va rispettata nel suo orientamento sessuale e nelle sue scelte di vita. Grazie al PD oggi è possibile creare una convergenza fra le diverse concezioni, culturali etiche e religiose per dare una risposta condivisa a tali sfide. Le nostre politiche partono dalla convinzione che la famiglia è un’opportunità per le persone e una risorsa fondamentale per la società. Ma essa non può essere lasciata sola, oggi meno che mai, di fronte a una crisi che aggrava le difficoltà di tutte le sue componenti, dai bambini, alle donne che trovano sempre più pesante conciliare i tempi di lavoro e della vita familiare, alle giovani coppie la cui precarietà blocca il desiderio di avere figli. A differenza della destra, che ha disinvestito sulla famiglia, noi vogliamo sostenere la famiglia che investe su se stessa, sul benessere dei figli, sul lavoro dei giovani, delle donne e degli uomini, che valorizza ogni stagione di vita degli anziani, che rispetta i diritti dei disabili e degli immigrati. Per ridare fiducia alle famiglie e sostenerle nel loro compito occorre riconsiderare a fondo le politiche familiari e incentrare sulla famiglia molti istituti del welfare. Bisogna regolare i diversi aspetti della convivenza civile attorno al dato delle esigenze della famiglia nelle sue varie forme, tradizionali e nuove, specie per quanto riguarda i figli. In tale direzione devono orientarsi misure diverse: quelle di welfare, servizi di cura, fondo per la non autosufficienza, asili nido. Ma anche il sistema tributario: non tanto il quoziente familiare, quanto un sistema di assegni organico e più sostanzioso di quelli attuali. La politica delle città: edilizia popolare, politica degli affitti, spazi comuni. Il sistema pensionistico che consideri ai fini contributivi i periodi di maternità e di cura. La politica della mobilità, con agevolazioni per il trasporto pubblico ai nuclei familiari molto numerosi. La fiducia va restituita anche dando risposte alle paure dei cittadini, alimentate dalla criminalità e dall'immigrazione clandestina. Le risposte sono credibili se sanno coniugare fermezza nel contrasto all'illegalità, da chiunque provenga, con politiche di integrazione sociale e di accoglienza. Su questi terreni la nostra politica tradizionale è stata perdente, e va corretta. Perché ha sottovalutato i problemi e le paure dei cittadini, non si è messa dalla loro parte, non si è disposta a capirli.
La maggioranza degli italiani, e dei ceti popolari, se non riceve risposte, perde la fiducia nella buona politica e accetta le risposte della destra che assimila immigrazione a crimine, e ora indica l'immigrato anche come quello che ti toglie un posto di lavoro. Non si tratta di inseguire le ricette e i proclami repressivi della destra, inefficaci ma che intanto colpiscono l'immaginazione e il vissuto delle persone, anche dei nostri militanti. Bisogna recuperare fiducia dimostrando con i fatti che siamo in grado di difenderli, facendo rispettare l'ordine pubblico, se necessario con durezza come hanno fatto alcuni nostri sindaci, contrastando ogni forma di illegalità per evitare che l'impunità di pochi comporti la criminalizzazione di tutti. Solo facendo così potremo spiegare le buone ragioni dell'integrazione e dell'accoglienza. E quelle della solidarietà umana con chi attraversa il mare umiliato dallo sfruttamento dei racket. L’organizzazione criminale si deve contrastare con un impegno congiunto della società civile, delle istituzioni dello stato e delle autonomie locali: perché solo con questo sforzo comune se ne colpiscono le radici che sono profonde e si manifestano in forme diverse nei vari territori. Non si tratta solo di prevenire e reprimere singoli comportamenti illeciti, ma di garantire il controllo del territorio, in modo capillare, visibile e stabile. Tagliare le risorse essenziali e inventarsi le ronde è una grande contraddizione del governo, che indebolisce la lotta alla criminalità. Occorrono misure concrete per rafforzare l’opera delle forze dell’ordine recuperandole da impieghi non essenziali (scorte, compiti d’ufficio, ad esempio per il rinnovo dei permessi di soggiorno delegandoli ai comuni), operando per il coordinamento reale delle forze di polizia, con una centrale operativa unica.
Nell'immediato la nostra priorità sul fronte sicurezza deve essere la lotta al ddl intercettazioni, che indebolirebbe in modo grave tutta l’attività investigativa. Mostriamo con questo che a noi la sicurezza dei cittadini sta a cuore seriamente, mentre la destra la mette a rischio. Occorre rigore e coerenza nell’aggredire i patrimoni della malavita organizzata, colpendo chi li protegge o è connivente. Occorre recidere con decisione i rapporti, ancora esistenti, fra mafia e politica. Una misura parallela è la velocizzazione dei processi per una effettività delle pene, con un miglior utilizzo delle risorse umane e delle nuove tecnologie. Bisogna difendere l’efficienza e l’autonomia non la politicizzazione della magistratura. Serve costruire più carceri civili e dignitosi, quelli attuali sono di nuovo al limite della capienza, se vogliamo scongiurare il ritorno all’epoca della rivolta delle carceri.
Nel caso degli immigrati il rispetto della legge va imposto senza discriminazioni ma senza pietismi. Cominciando con il contrasto degli ingressi clandestini. Con un dimensionamento più realistico dei flussi. Con strumenti adeguati per facilitare le presenze e il lavoro regolari, ripristinando la figura dello sponsor accreditato e responsabile, garantendo permessi per ricerca di lavoro di durata ragionevole. E rafforzando gli accordi bilaterali con i paesi di più forte immigrazione, e con un’azione congiunta dell’intera Unione europea. La fiducia è un bene durevole, da costruire nel tempo. Per questo richiama la politica a comportamenti responsabili, che affrontino senza improvvisazioni i problemi delle persone e che ricerchino con coerenza soluzioni stabili. Per questo vogliamo la stabilità politica e dei governi. Per gli stessi motivi è necessario rigore nel controllo della spesa pubblica, che anche quest’anno è fuori controllo, nonostante i tagli del governo. Non tagli indiscriminati ma lotta agli sprechi che sono ancora tanti e all’evasione fiscale, vero cancro della nostra vita economica e civile che corrode la fiducia fra cittadini e stato. La lotta all'evasione va fatta senza pregiudizi “classisti”, per chiunque evada, sia l’imprenditore sia il dipendente che ha un altro lavoro in nero.
E’ necessaria una nuova cultura fiscale, per arrivare a un sistema più equo e meno oppressivo, che passi ad esempio dalle detrazioni, oggi prevalenti, ai bonus, ai servizi detassati, al contrasto di interessi. Controllare la spesa per ridurre il macigno del debito pubblico non è una mania di ragionieri, è necessario per rendere possibile la riduzione delle tasse; ed è un impegno decisivo per garantire il futuro delle nuove generazioni, per non spostare su di loro il peso di decisioni che spettano a noi.
La seconda parola del nuovo riformismo è REGOLE. Da anni la destra italiana predica la sregolatezza, che tollera o incentiva le irregolarità, che esalta l'individualismo, la furbizia "dell'ognuno per sé" in ogni campo. Ha fatto dimenticare che buone regole non sono ostacoli all'iniziativa e alla libertà di persone e imprese ma sono invece strumenti di tutela dalle ingiustizie e dalle disuguaglianze. Noi vogliamo buone regole che oltre a sancire diritti, stabiliscano doveri e responsabilità, garantiscano la sicurezza collettiva. Se ci fosse stato più rispetto delle regole non avremmo avuti i disastri di Viareggio e le conseguenze del terremoto che ha colpito l'Aquila e l'Abruzzo. Non avremmo 1300 morti sul lavoro sul lavoro ogni anno e oltre 6000 sulle strade; non avremmo i livelli spaventosi di evasione fiscale e di lavoro nero, che frodano il presente e sottraggono risorse al futuro. L'applicazione rigorosa delle regole è il presidio della legalità e del contrasto alla criminalità organizzata che uccide le potenzialità straordinarie di interi pezzi del Paese. Di regole ha bisogno l'economia perché la loro assenza è la causa principale della destabilizzazione dei mercati finanziari e degli squilibri nell'economia reale. E proprio all'economia e alle imprese servono regole semplici e stabili che garantiscano il corretto svolgersi della concorrenza, che rompano i conflitti di interessi che in Italia sono diventati silenziosamente accettati, come fossero normali, avendo davanti l'esempio della massima autorità di governo.
Dobbiamo dirlo. Il centrosinistra ha colpe precise non aver approvato una normativa sul conflitto d'interessi quando era maggioranza dal 1996 al 2001, ma quella responsabilità non ci può spingere adesso a restare ancora fermi e silenti. Abbiamo bisogno di nuove regole nello Stato e nella Pubblica Amministrazione, che funzionano male e peggio che negli altri grandi paesi europei. Un partito come il nostro ha un interesse vitale a far funzionare meglio lo stato e le Pubbliche amministrazioni. Perché un sistema pubblico funzionante è necessario per attuare le riforme, e per garantire la effettiva fruizione dei diritti dei cittadini, dalla giustizia all’istruzione, ai servizi pubblici. Per regolare il mercato e integrarlo quando non funziona. Un efficiente sistema pubblico è condizione anche per praticare senza squilibri la collaborazione con il settore privato, profit e non profit. La gravissima crisi di affidabilità del sistema politico-istituzionale è squadernata ogni giorno sotto i nostri occhi dalle immagini televisive: le inchieste e gli scandali, la guerra tra le procure, i rifiuti campani, la lentezza della giustizia e della burocrazia che ostacola e sperpera. E potrei continuare. Lo stesso patto di lealtà fiscale ha come necessario presupposto che il cittadino sappia che i suoi soldi non vadano a finanziare spreco e inefficienza. E sappia che chi viola le leggi, esportando illegalmente capitali, non venga premiato anziché essere punito dalla legge. Per questo il PD deve impegnarsi per modernizzare lo Stato, anche stando all'opposizione.
Noi non ci sottrarremo alla possibilità di condividere, anche da subito, con i nostri avversari una riforma che renda più efficace l'azione di governo e il ruolo del parlamento, cominciando dal passaggio ad una sola camera legislativa, con un senato federale ed un conseguente dimezzamento dei parlamentari eletti. L’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti di provincia e di regione, e delle stesse cariche monocratiche del nostro partito è diventata ormai parte del nostro sistema. Ma occorre ricostruire il sistema di checks and balances fra i poteri dello Stato. Riformare il bicameralismo, rafforzare il diritto dei cittadini di decidere sulle loro rappresentanze parlamentari e politiche, con un sistema elettorale che lo valorizzi, dare attuazione coerente alla scelta federalista, valorizzare l’autonomia della giustizia, ma pretendendone la efficacia e la distanza dalla politica. Allo stesso fine è urgente il rinnovamento dei partiti, per valorizzarne la funzione di rappresentatività nei rapporti con i cittadini, anche sulla base di una riforma che dia finalmente attuazione all’articolo 49 della nostra Costituzione.
La riforma delle istituzioni da sola non basta: deve appoggiarsi sull’empowerment dei cittadini, cioè sulla loro possibilità di influire individualmente e collettivamente sulle decisioni. La riforma federalista non deve essere un mero trasferimento di funzioni da Stato a regioni, ma deve valorizzare le autonomie di tutti i governi locali e costituire l’occasione per ripensare il rapporto cittadino – autorità nel nostro sistema. Questo è il senso della regola di sussidiarietà cui ispiriamo la nostra azione politica: allargare gli spazi di partecipazione, non solo istituzionale ma sociale. Sviluppare istituti di welfare non solo statali, ma territoriali e sociali. Il mondo del non profit in molte realtà, soprattutto al Nord, sta rispondendo alla crisi economica puntando sul network, sperimentando welfare di comunità e consorzi il cui capitale è la solidarietà operativa e finanziaria. Uscendo ormai anche dal più tradizionale e forte impegno nei servizi in campo sociale e sanitario. Il non profit è diventato una sorta di spina dorsale invisibile del nostro paese e sta garantendo la coesione sociale anche nelle situazioni che la crisi economica ha messo in maggiore difficoltà divenendo esso stesso una risposta alla crisi. Per questo è necessario partire anche da quell’innovazione dal basso sperimentata da questo mondo che significa partecipazione attiva, centralità delle persone, valori come risposta culturale e concreta alle difficoltà politiche e sociali che abbiamo davanti. La centralità del cittadino, il nesso libertà–responsabilità vale anche per la giustizia. Il funzionamento della giustizia è una questione essenziale per la vita dei cittadini e per la stessa economia del paese. Gli attuali tempi, lunghi e incerti, dei processi angosciano le persone, e opprimono le imprese. Sono fra le ragioni che ostacolano gli investimenti esteri in Italia. Non è quindi un tema che si possa lasciare agli addetti ai lavori, giudici e avvocati, come è stato fatto finora.
E’ prioritario garantire una ragionevole durata del processo. Per questo servono modifiche alle procedure per renderle più semplici e più veloci, scoraggiando tutti i comportamenti dilatori, anche quelli concordati fra avvocati. Occorre favorire mezzi alternativi di soluzione delle controversie (conciliazione e arbitrato), garantire costi ragionevoli per l’accesso a tutti i procedimenti e il gratuito patrocinio a chi ha bisogno, specie per le cause di lavoro, di previdenza e simili. Occorre inoltre migliorare il funzionamento della “macchina” della giustizia, prevedendo gli strumenti tecnici e organizzativi necessari, distribuendo meglio gli organici e i carichi di lavoro, chiedendo anche ai magistrati un impegno maggiore e verificabile. Noi vogliamo difendere l’autonomia della magistratura, e pretenderne l’efficienza per un migliore servizio ai cittadini.
La terza parola è UGUAGLIANZA. Uguaglianza è stata la parola forte dei grandi movimenti riformisti del secolo scorso. Qualcuno pensa che sia caduta in "disuso" e superata. Ma non è così. E' una parola moderna, centrale nel mondo globalizzato. Un mondo in cui senza gli anticorpi della politica le disuguaglianze sono destinate ad aumentare drammaticamente, dentro i paesi e tra i paesi del mondo. Uguaglianza non come appiattimento delle differenze ma come valorizzazione delle diverse capacità delle persone, come uguaglianza delle opportunità, da sostenere non solo nelle condizioni di partenza ma nel corso della vita di ciascuno. L'Italia ha purtroppo un primato negativo: ha visto crescere le diseguaglianze tra i redditi, ha visto aumentare le distanze tra pezzi del suo territorio. Ha permesso il persistere di vaste sacche di povertà, specie nel mezzogiorno. Ha registrato un blocco dell'ascensore sociale che ostacola la possibilità delle persone di sviluppare le proprie capacità. Sono queste le diseguaglianze che sottraggono ai nostri giovani le aspettative dei coetanei di altri paesi europei, che impediscono al figlio dell'operaio di avere le stesse opportunità nella sua vita del figlio del notaio. Noi vogliamo cambiare questo destino che la destra ritiene inevitabile. Vogliamo invertire la tendenza partendo da proposte immediate. Vogliamo correggere un assetto produttivo e distributivo che ha penalizzato i redditi da lavoro, soprattutto subordinato, rispetto alle rendite e ai redditi da capitale e che ha svalutato in particolare il lavoro operaio e manuale. Per questo serve una politica che da una parte riprenda la lotta all’evasione e all’elusione, dall’altra alleggerisca la pressione fiscale sui redditi da lavoro e sulle pensioni e prosegua la incentivazione del salario di produttività contrattato in azienda e sul territorio. Ma la tendenza alla disuguaglianza va invertita anche e soprattutto con proposte attive, che creino aperture sociali e ridiano dignità al lavoro in tutte le sue forme. Pensiamo allo sviluppo della rete, della banda larga, come all'investimento infrastrutturale più importante di questo decennio. Come vettore di crescita e di riduzione delle disuguaglianze territoriali. Pensiamo per i giovani studenti a un anno di presenza all'estero finanziata, un Erasmus obbligatorio nel proprio percorso formativo, ma anche a incentivi a studenti stranieri per studiare in Italia, per attrarre cervelli. E all'interno del paese pensiamo ad uno scambio fra studenti del Nord e del Sud per rafforzare esperienze e culture comuni, per aprire le comunità del mezzogiorno. Noi pensiamo al Mezzogiorno come la possibile risorsa dell'economia italiana. E' la politica nazionale, siamo noi, non un partito del Sud, a dover credere che questo è possibile. Il Mezzogiorno è stato per decenni alla periferia del sistema economico. Oggi il cambiamento geopolitico del mondo, la centralità del Mediterraneo possono trasformarlo da periferia dell'Europa nella sua principale porta d'accesso. Per riuscirci non ha bisogno di assistenza o di aiuti generici ma richiede risorse per ridurre il divario infrastrutturale, per sostenere le imprese che investono, per colmare i ritardi del sistema formativo e, soprattutto, per vincere la battaglia nazionale per la legalità e contro le mafie. E’ necessario concentrare gli interventi su pochi obiettivi prioritari, per evitare l’attuale “polverizzazione” della politica di coesione nazionale e comunitaria, che ha finora ridotto fortemente l’efficacia degli interventi. A tale scopo, deve prevedersi all’interno della Conferenza Stato – Regioni, un Comitato operativo delle Regioni meridionali che svolga funzioni di indirizzo e proposta al fine di definire interventi coerenti con strategie di sviluppo della macro-area meridionale. “Terapia d’urto”: un primo pacchetto di misure immediate si basa su alcuni assi portanti. Nell’immediato, occorre focalizzare le risorse (ordinarie e straordinarie) su un numero limitato di interventi, con l’obiettivo di dimezzare entro il 2013 l’inaccettabile divario esistente tra Nord e Sud nelle infrastrutture e nei servizi resi dall’amministrazione pubblica ai cittadini. L’azione pubblica di sviluppo nel Mezzogiorno deve porre al centro l’impresa. Gli interventi devono incentivare la nascita di nuove imprese, lo sviluppo e il consolidamento di quelle esistenti. In tale ottica, va reintrodotta da subito la automaticità nella fruizione del credito d’imposta per nuovi investimenti nel Mezzogiorno, cancellando la norma inserita dal Ministro Tremonti che, condizionandone la fruizione ad un complesso sistema burocratico di prenotazione e verifica ne ha di fatto compromesso l’operatività. C’è una generazione di giovani meridionali che sta realizzando importanti progressi nei livelli di scolarizzazione, a cui dobbiamo dare risposte in termini di opportunità di impiego e di realizzazione individuale.
Tale esigenza diviene ancora più forte in un momento di crisi quale quello che stiamo vivendo che rischia di tenere molti giovani scolarizzati fuori dal mercato del lavoro. Dobbiamo impedire che continui l’esodo verso il Nord dei giovani laureati del Mezzogiorno. Noi proponiamo un piano di 100 mila stage presso imprese private destinati a giovani diplomati e laureati del Mezzogiorno, al fine di favorire il loro inserimento lavorativo. Un intervento volto a favorire l’accesso al lavoro e la formazione in aziende localizzate nel Mezzogiorno attraverso l’offerta di un periodo di esperienza a carico dello Stato presso imprese private che al termine di tale periodo vengano significativamente incentivate ad assumerli. Uguaglianza significa poi valorizzare la libertà di scelta e di lavoro delle donne. Perché la libertà delle donne è la condizione essenziale per avere una società più dinamica e moderna, in cui la parità tra generi sia semplicemente garantita da una vera selezione sui talenti e le qualità personali. Nel mondo la battaglia per i diritti umani delle donne come diritti universali attraversa continenti, etnie, culture. L’emancipazione di interi popoli, pensiamo all’Africa, da povertà, malattie, sopraffazioni sta avvenendo grazie alla capacità di governo delle donne.
L’ONU ha indicato fra gli obiettivi del millennio la libertà delle donne in ogni ambito della vita pubblica e ha individuato nella collaborazione fra uomini e donne la strada per ridefinire il valore della famiglia, i ruoli nella società, le responsabilità nella politica e nelle istituzioni. Possiamo partire da queste indicazioni e iniziare un cammino inedito per risolvere i tanti problemi e rispondere alle attese delle donne del nostro paese. L’Italia non è in Europa, se guardiamo al tema della rappresentanza. Le donne elette in tutte le istituzioni sono ancora pochissime, manca una legge sul riequilibrio della rappresentanza fra uomini e donne ad ogni livello nella vita pubblica. L’articolo 51 della Costituzione parla chiaro, ma ha bisogno di strumenti applicativi. Siamo lontanissimi da una democrazia paritaria, ma anche quella delle pari opportunità non è vicina. Questo tema interpella direttamente un partito che ha l’ambizione di essere nuovo per davvero. Per le donne serve una parola in più: il coraggio. Il coraggio di investire sulle donne come forza di cambiamento della società. Il coraggio di riconoscere la donna come essenziale per una cultura laica, aperta alla convivenza, che riconosce, accoglie, e valorizza le differenze. La responsabilità politica delle donne sta nella capacità di essere squadra, nell’incontro e non nello scontro fra le generazioni, nella trasmissione dell’esperienza e nell’ascolto delle novità. Sta nella capacità di mettere in discussione certezze per comprendere il punto di vista altro, nella caparbietà di far divenire le debolezze punti di forza, nel conflitto positivo che genera qualità della rappresentanza. Le donne hanno cambiato il volto della politica, hanno criticato il potere fine a se stesso, hanno cercato di finalizzarlo alle conquiste civili e alla crescita di valori condivisi. La politica italiana ha bisogno di più donne. Pensiamo a come ricostruire luoghi plurali delle donne nel PD, inventando forme e modi, affinché sia possibile far vivere una nuova autonomia femminile che ha nell’incontro con la parte maschile del partito il compimento di un disegno, di una visione credibile da proporre al paese. Allora il rinnovamento che auspichiamo sarà davvero il frutto di una storia in cammino, in cui tutti, uomini e donne insieme, saranno protagonisti nella solidarietà, nella distinzione non gerarchica dei ruoli, nella comune passione di una nuova politica per il nostro paese.
Ma la libertà delle donne si misura anche e soprattutto in politiche attive. Per questo proponiamo misure di sostegno all'occupazione femminile, dirette alla condivisione dei ruoli nella famiglia e alla conciliazione fra lavoro e vita personale, e proponiamo un credito fiscale ai genitori che lavorano per le spese relative alla crescita e al mantenimento dei figli. E sono queste le basi su cui vogliamo costruire un nuovo patto fra generazioni e generi. Un patto che riguardi anche il sistema previdenziale. Oggi è possibile e giusto chiedere la disponibilità ai genitori di lavorare qualche anno di più, se viene data a loro la certezza che questo serve non per finanziare sprechi, ma per dare ai propri figli più ammortizzatori sociali e più certezze sul loro futuro previdenziale. La nostra proposta è di recuperare il principio della flessibilità del pensionamento proprio della legge Dini del 1995: in particolare fissando una fascia di età comune per uomini e donne, all'interno della quale ciascuno possa scegliere il pensionamento sulla base delle proprie condizioni di lavoro e di vita familiare e personale. L'equiparazione del sistema nel caso delle donne deve essere accompagnata da misure che considerino i periodi di maternità e il lavoro di cura ancora prevalentemente svolto dalle donne, ad esempio riconoscendo, come avviene in altri paesi europei, un certo ammontare di contributi figurativi in corrispondenza di tali periodi. Serve un patto che allarghi le opportunità per tutti i cittadini nelle diverse fasi della vita, rispettandone e valorizzandone le diversità. La promozione dell’eguaglianza implica valorizzare il lavoro come manifestazione essenziale della creatività e della dignità dell’autonomia delle persone. Vogliamo valorizzare il lavoro in tutte le sue forme come richiede la Costituzione, anche quello autonomo e imprenditoriale. Questo non significa ignorare le diversità di posizioni fra lavoro subordinato e impresa, né la possibilità di conflitto. Ma occorre riconoscere che oggi impresa e lavoratori sono esposti a sfide competitive comuni senza precedenti, che sono simili più di un tempo i bisogni di protezione dai rischi del futuro. Queste sfide non si vincono senza un impegno congiunto: il che implica non solo di mettere da parte le ideologie della lotta di classe ma anche superare condizioni riduttive dei patti fra produttori, cioè fra soggetti che restano fondamentalmente divisi anche se occasionalmente disposti al compromesso. Si tratta di ricercare forme di partecipazione sia su obiettivi specifici sia istituzionali, con la presenza dei lavoratori nei consigli di sorveglianza. Il test di questa partecipazione deve essere la capacità di servire alla crescita comune, non solo dei prodotti, ma della loro qualità, di promuovere una competitività basata non sulla precarietà del breve periodo, ma sulla valorizzazione delle risorse personali di tutti, dipendenti, manager, professionisti, sull’uso intelligente delle innovazioni tecnologiche e produttive.
La partecipazione diventa così uno strumento della eguaglianza delle opportunità economiche e sociali. Uguaglianza significa infatti tener conto delle diversità, anche di quelle interne al mondo del lavoro dipendente. Non vogliamo appiattirle ma vogliamo garantire a tutti i lavoratori una base comune di tutele e opportunità. Vogliamo contrastare la precarietà, non occuparcene soltanto per l'assenza di ammortizzatori sociali quando il lavoro è ormai perduto. Vogliamo contrastare l'abuso dei contratti a termine, rendere conveniente le assunzioni a tempo indeterminato con misure di incentivo/disincentivo, facilitare i percorsi di passaggio dal lavoro precario a quello stabile, anche sperimentando forme di contratti a tutele crescenti nel tempo, che riducano la pletora degli attuali strumenti di accesso, estendendo i diritti e facilitando l'entrata al lavoro stabile soprattutto dei soggetti più deboli. Le nostre proposte indicano chiaramente diverse misure: dal superamento delle forme di collaborazione professionale che coprono rapporti di lavoro subordinato alla estensione modulata dei fondamentali diritti e tutele alle collaborazioni genuine, con la progressiva parificazione degli oneri sociali rispetto al lavoro standard, agli ammortizzatori sociali universali per tutte le imprese e i lavoratori, compresa una tutela per chi non ha i requisiti assicurativi o ha esaurito gli ammortizzatori. Sino alla previsione di una soglia minima di salario, comune a tutti i tipi di contratto di lavoro. Questo zoccolo sociale comune costituisce la base per una buona occupazione e per una flessibilità sostenibile. In coerenza con la nostra idea occorrono servizi efficienti per il sostegno dei lavoratori; e nello stesso tempo bisogna rendere effettiva la perdita di tutela per chi non accetta congrue offerte di lavoro e formazione.
L’eguaglianza in tema di lavoro richiede politiche per ampliare le opportunità di occupazione; necessarie anche oggi nella crisi, perché l’ampliamento del mondo del lavoro è altrettanto importante della sua riunificazione e la precarietà va combattuta anzitutto promuovendo la buona occupazione. Per questo vogliamo sostenere con politiche attive l’innalzamento del tasso di occupazione ai livelli europei, a cominciare da sostegni specifici per i gruppi che sono più lontani dagli obiettivi comunitari. Per le donne servono, come abbiamo detto, misure organiche che incidano nell’organizzazione dei servizi di cura e nella distribuzione dei ruoli. Per questo sono destinate non solo alle donne ma anzitutto alla equilibrata ripartizione delle responsabilità. Politiche specifiche sono necessarie per sostenere l’occupazione e l’autonomia dei giovani: potenziamento degli obblighi/diritti di formazione, da quella di base a quella professionale e continua, rafforzamento dei contenuti formativi dell’apprendistato, che deve diventare lo strumento essenziale per la transizione tra scuola e lavoro; fondo per la dotazione di capitale per i giovani. Un’analoga politica promozionale è necessaria per alzare il tasso di occupazione dei lavoratori over 55, anch’esso troppo basso. Questi interventi sono particolarmente urgenti nel nostro paese che presenta un rapido invecchiamento della popolazione e un basso tasso di natalità e sono necessari per allargare la nostra base occupazionale anche ai fini pensionistici.
La promozione del lavoro, come di uno sviluppo più equo, richiede l’impegno comune delle forze sociali e politiche pur in una rigorosa autonomia reciproca. Richiede la finalizzazione della concertazione sociale a migliorare la qualità e la produttività del nostro sistema produttivo, e alla valorizzazione professionale e retributiva del lavoro. Deve basarsi su una autoriforma delle relazioni industriali, nel segno di un fecondo pluralismo sindacale, che dia seguito a un modello contrattuale condiviso articolato su due livelli, nazionale e decentrato, capace di tutelare il potere d’acquisto delle retribuzioni attraverso un’effettiva redistribuzione della produttività e di promuovere l’innovazione organizzativa, la qualità dei rapporti e la partecipazione dei lavoratori in azienda. L'uguaglianza infine deve essere la parola chiave anche nei rapporti internazionali, con nuove forme di governance multilaterali, che contrastino l'azione di un mercato e di un commercio senza regole e che diano voce a tutti i paesi, compresi quelli più svantaggiati. Per questo vigileremo che vengano mantenuti gli impegni presi dal nostro governo al G8 in materia di cooperazione allo sviluppo, la grande tradita di questo anno di governo.
La quarta parola è MERITO. Una parola profondamente legata a quella precedente, a uguaglianza Per sottrarsi alla retorica della meritocrazia occorre che il merito divenga la chiave della vita sociale e sia concepito come la leva fondamentale per superare molte delle ingiustizie sociali che opprimono la nostra società, per rimettere in moto la mobilità sociale. Merito per noi significa riconoscere e valorizzare le capacità delle persone, significa avere la speranza di migliorare la propria vita e quella dei propri figli. Merito non vuol dire competizione sfrenata ma riconoscimento dei talenti, dell'impegno, del valore del lavoro. Non si contrappone ai bisogni. L'egualitarismo indifferenziato ha prodotto nel corso dei decenni più recenti, gravi e profonde ingiustizie sociali. Per questo l'affermazione del merito può tradursi, se declinato con rigore, in un fattore di forte discontinuità culturale, in una battaglia profondamente democratica. Per questo le nostre proposte si rivolgono a tutti, alle componenti più dinamiche della società, che non devono temere di essere penalizzate e a quelle più esposte ai rischi di emarginazione, che vanno sostenute nella loro crescita. Oggi la società italiana è prevalentemente organizzata su sistemi di cooptazione basati su relazioni familiari, professionali, politiche, sindacali, associative o di altro genere. Relazioni che condizionano l'accesso a carriere pubbliche e private, alle professioni come allo svolgimento di attività di impresa in una serie di settori protetti da potenti barriere. La nostra battaglia deve rompere questo immobilismo, settore per settore. Deve innestare radicali cambiamenti per aprire tutti i campi e per investire sulla intelligenza e la creatività dei ragazzi italiani. La creatività e i talenti si sviluppano a cominciare dalla scuola. Per questo occorre investire di più in educazione, a cominciare dalla prima infanzia e poi ai vari livelli della scuola, fino alla formazione permanente. Servono più risorse, non tagli. Risorse che tengano conto dei bisogni, ma anche della qualità dell’insegnamento per stimolare tutti, insegnanti e studenti a migliorare, per responsabilizzare ciascuno a mettere a frutto il tempo preziosissimo della scuola. La scuola è un luogo di servizio, di apprendimento e di responsabilità, non un parcheggio. Vogliamo una scuola autonoma, responsabile e valutabile nei risultati. Una scuola aperta al mondo esterno, non chiusa su se stessa, che favorisce la crescita sia delle conoscenze sia delle esperienze. Una scuola aperta e moderna deve investire nelle nuove tecnologie, insegnare la confidenza con i nuovi mezzi tecnologici pc, programmi, internet, da cui nascono nuove professioni. Occorre anche rilanciare le scuole dell’arte e le facoltà connesse alla cultura, all’arte, alla sua conservazione e recupero ed insieme ad esse anche le facoltà scientifiche. Il criterio del merito, associato a quello del dovere, deve riguardare in primo luogo la scuola e le università, gli studenti e le loro famiglie. Ma deve poi riguardare anche la progressione di carriera dei docenti e deve diventare il criterio per il trasferimento di risorse da parte dello Stato alle singole università, con certificazione di qualità in base a parametri europei. Solo praticando i principi del merito, dell'innovazione, della responsabilità, siamo credibili nel pretendere più autonomia alla nostra scuola e alla ricerca, nel chiedere maggiori investimenti in questi settori per portarli ai livelli di qualità necessari a competere nel mondo, a ridare prospettive ai giovani e a formare la futura classe dirigente del paese. L’università deve essere all’avanguardia nella valorizzazione dei talenti dei giovani. Quindi occorre combattere chiusure corporative e clientelari, introdurre criteri di merito nella selezione per gli accessi, per i ricercatori, nella valutazione dei docenti, delle università e dei loro dipartimenti. Ai giovani meritevoli vanno offerte, sulla base di valutazioni severe, borse di studio e poi contratti di ricerca di ammontare e durata adeguati, come in altri paesi. A chi mostra di avere capacità scientifica vanno offerte prospettive controllabili di carriera, cominciando da subito con il reclutamento “in campo aperto” di giovani ricercatori. Così si offrono vere opportunità e autonomia ai giovani che vogliono investire nell’educazione e nella ricerca di cui il nostro paese ha estremo bisogno. E per questo si possono anche far pagare più tasse universitarie a chi se lo può permettere. Questa impostazione mirata alla valorizzazione del merito va adottata in tutto il settore pubblico dove l'ottica attuale deve essere corretta: mettersi non soltanto dalla parte dei dipendenti o degli amministratori pubblici ma dalla parte dei cittadini. Non si può più attribuire le inefficienze solo e sempre alla mancanza di risorse. Non è vero che più soldi generano sempre più qualità. Molto dipende da una migliore organizzazione, da procedure semplificate, dall'impegno di chi vi opera. E chi opera bene va riconosciuto e premiato. Per migliorare il lavoro dei pubblici dipendenti non bastano i proclami e neppure le minacce. E’ importante motivare il personale con politiche incentivanti le buone pratiche, gestire con imparzialità i rapporti sindacali e di lavoro, assegnare alle unità amministrative obiettivi di qualità fornendo strumenti necessari. Per andare in queste direzioni non basta la legge, tanto meno leggine invasive della contrattazione dei vari contenuti del rapporto di lavoro. Le esperienze passate mostrano come questo uso legislativo sia stato distorsivo della buona amministrazione. Occorre invece responsabilizzare la dirigenza valorizzandone i poteri organizzativi, le responsabilità nella gestione dei rapporti di lavoro, e l’autonomia nell’interlocuzione con il sindacato, ma anche difendendoli dall’invadenza della politica che con questo governo è molto cresciuta. Sono le debolezze e la scarsa autorevolezza dell’interlocutore pubblico che hanno ridotto l’efficienza della Pubblica amministrazione, frustrato molti tentativi di riforma, e alterato il valore della contrattazione collettiva come strumento di regolazione e di riforma del lavoro pubblico. Noi siamo interessati a rafforzare la contrattazione, mantendone il compito essenziale di regolazione consensuale dei rapporti di lavoro, senza sconfinamenti nella responsabilità della dirigenza, ma difendendolo dalle incursioni legislative. Vogliamo migliorare i processi negoziali secondo le proposte da noi avanzate in parlamento. Il merito deve affermarsi anche nello spazio dell'attività economica privata. Un'idea meritocratica del mercato non vuol dire affatto liberismo. Vuol dire affermare, anche nei rapporti economici una nuova etica della responsabilità, regole dei mercati e trasparenza a tutela delle imprese e dei cittadini. Valorizzare il merito nelle imprese vuol dire anche superare le prassi scandalose che vedono stipendi d’oro per molti dirigenti e speculatori convivere con stipendi ingiustamente bassi di tanti collaboratori, giovani e meno giovani. Sta alle forze progressiste mostrare che la risposta conservatrice, apparentemente protettiva e tranquillizzante, in realtà non crea un nuovo ordine ma cerca solo di rinviare il problema e di tenere tutto drammaticamente immobile.
La quinta e ultima parola è QUALITA'. Nel mondo globalizzato ogni paese, ogni economia nazionale dovrà rinunciare ad essere competitiva su tutto e dovrà puntare sui terreni su cui è più forte e vincente. Alcune nazioni punteranno sul basso costo della mano d'opera, altre sulle grandi estensioni territoriali, altre sulle materie prime. L'Italia dovrà puntare sulla qualità. L'economia di qualità basata sulla conoscenza è la strada indicata dall'Europa e adottata ormai anche dai paesi emergenti. L’Italia deve imboccare questa strada, e anzi primeggiare. L'economia di qualità fa leva sulle risorse delle persone contro l'egemonia del consumismo di massa, sull'utilità di uso dei prodotti piuttosto che sul loro valore di mercato e sulla loro ostentazione, che tiene conto della sostenibilità ambientale e di tutte le scelte e utilizza le conoscenze scientifiche per migliorare gli equilibri ecologici. Puntare sulla qualità indica una nuova direzione dello sviluppo, che supera l'idea della crescita quantitativa fine se stessa, dimostratasi spesso distorsiva e illusoria. Comporta un diverso modo di concepire il successo economico. Questo non può consistere solo nella crescita del Pil ma deve risultare da indicatori più complessi che misurino lo "sviluppo umano": la qualità delle relazioni personali e dell'ambiente, la distribuzione delle ricchezze e delle opportunità, l'accesso ai saperi e alla mobilità sociale, le aspettative di vita, le possibilità effettive delle persone di realizzare le proprie aspirazioni. Nella nostra concezione la qualità economica si congiunge e si rafforza con la qualità sociale. La crescita si deve basare non sullo sfruttamento indiscriminato dei fattori produttivi, ma su una elevata qualificazione professionale del lavoro, su condizioni produttive e normative rispettose delle persone e delle comunità. Questi sono gli orizzonti con cui vogliamo che il nostro paese si misuri. Puntare sulla qualità significa puntare sull'eccellenza, sulla parte alta della filiera produttiva, dove contano di più la creatività e il capitale umano. Significa investire in conoscenza. Scuola, scuola, scuola e poi università, ricerca, innovazione, cultura. Significa valorizzare la capacità di produrre o di inventare cose che piacciono a un mondo voglioso di qualità. Alle Olimpiadi di Pechino erano piemontesi le pavimentazioni degli impianti sportivi, bresciani i fucili che hanno vinto medaglie, marchigiane le macchine elettriche, lombarde le piscine, toscani gli scafi del canottaggio, del CNR la centrale di monitoraggio ambientale più grande al mondo. Qualità significa valorizzare la bellezza del proprio territorio, delle coste, delle nostre montagne, delle città e dei borghi italiani, della loro storia e del loro patrimonio culturale. Valorizzare un tessuto di piccole e medie imprese legate al territorio e attente alla qualità. Valorizzare le radici e le nostre tradizioni, un intreccio unico di storia e cultura, di agricoltura e prodotti tipici, di buona cucina, di coesione sociale e qualità della vita. Tornare a investire in beni culturali invece di tagliare le risorse come fa il governo. E promuovere una politica moderna del turismo, che valorizzi le sue grandi potenzialità per il Paese. L'Italia è la risorsa dell'economia italiana. Difenderla dalla devastazione e dal saccheggio è come per l'economia di un paese arabo tutelare le proprie risorse petrolifere. Anche per questo valorizzare e investire sull'ambiente e l'economia verde deve essere la nostra priorità. La green economy sarà nel prossimo decennio ciò che è stata la rivoluzione informatica negli anni 80, il nuovo motore dell'economia mondiale. Chi raccoglierà questa sfida sarà protagonista, chi si attarderà è destinato a rimanere ai margini. I risultati del recente G8 hanno segnato una timida inversione di tendenza nell'impegno per le energie rinnovabili e contro il riscaldamento globale. Occorre fare di più. Noi vogliamo che l'Italia faccia proprio il programma della presidenza Svedese dell'Unione europea e per questo proponiamo che si alleggeriscano le tasse sulle imprese che mettono in atto comportamenti meno inquinanti. Noi vogliamo che l'Italia guidi una rivoluzione verde, vogliamo estenderne le grandi opportunità a tutti i territori, a cominciare da quelli del Sud, che su questi temi potrebbe riscoprire una vocazione che traini il suo sviluppo.
La ricerca della qualità nella sua dimensione più ampia deve riguardare tutte le condizioni materiali e ambientali che determinano la vita delle persone e la convivenza civile: dagli assetti del territorio e delle città, alla fruizione dei beni e delle occasioni culturali, all'accesso ai servizi personali e collettivi (mobilità, assistenza, abitazione). Politica e amministrazione sono chiamate in causa per creare le condizioni di contesto necessarie a sostenere queste scelte di qualità. Lo insegnano le esperienze di altri paesi e di grandi città i cui amministratori sono intervenuti attivamente su questi terreni, fino ai dettagli del vivere quotidiano, dalla qualità dei trasporti pubblici, agli asili per bambini, al recupero dei centri storici, alla cura delle aree verdi e dei luoghi del vivere comune. Per centrare questo obiettivo serve un Partito Democratico più coraggioso e più netto nei suoi sì e nei suoi no. Sì a una radicale riconversione del nostro sistema energetico verso l'efficienza, il risparmio, le fonti rinnovabili. No al nucleare del passato, pericoloso e costosissimo. Sì a una rivoluzione fiscale che alleggerisca il prelievo su lavoro e imprese che inquinano e consumano meno. No all'abusivismo e al consumo spregiudicato di territorio. Sì all'edilizia di qualità, alla sicurezza antisismica e al recupero e alla riqualificazione del patrimonio edilizio esistente. No a tutte le forme di illegalità ambientale, cominciando da una lotta senza quartiere alle ecomafie e dall'inserimento dei reati ambientali nel codice penale. Sì a uno sviluppo locale e urbano che scelga una mobilità più sostenibile e meno soffocata dal trasporto su strada, che opti per sistemi moderni di smaltimento dei rifiuti. E' su questa rotta che oggi deve muoversi l'Italia. Dobbiamo avere fiducia nei nostri talenti. Abbiamo territori ricchi di saperi, di creatività, di comunità che conservano qualità della vita e forte coesione sociale. Dobbiamo valorizzare questi talenti con l'innovazione, sfruttando le grandissime opportunità offerte dalle nuove tecnologie. Ma dobbiamo farlo. Ricostruire un'identità del nostro campo e farci capire dagli italiani con parole chiare Sarà un lavoro lungo e difficile. Serviranno passione e tempo. Un lavoro importante anche perché su questa base poi costruiremo la nuova alleanza con cui candidarci alla guida del Paese e vincere. Vogliamo tornare a vincere e quindi sceglieremo la strada delle alleanze anche per il governo nazionale, come abbiamo fatto nei comuni e nelle province e come faremo il prossimo anno nelle regioni. Ma dobbiamo dire con chiarezza che non torneremo a quella stagione delle coalizioni frammentate e litigiose, costruite con l'unico collante del nemico. Quel tipo di coalizione che ha sempre colpevolmente coperto la qualità dell'azione dei governi di centrosinistra. Formeremo una alleanza che dia agli italiani la garanzia di un programma condiviso e realizzabile. Credibile non solo per vincere ma anche per poi riuscire a governare. E difenderemo i principi del bipolarismo e dell'alternanza tanto faticosamente conquistati. Non torneremo indietro, ad un centro-sinistra col trattino, basato su una divisione di compiti nel raccogliere consenso o nel rappresentare pezzi di società e che circoscriva la nostra capacità espansiva. Solo ipotizzarlo significa dichiarare fallita l'esperienza del Pd, che è nato proprio sul superamento di quella divisione di compiti e significa non avere capito che quello schema si trascina forse in pezzi di classe dirigente ma non esiste più da tempo nel nostro popolo. Un unico popolo fin da prima che nascesse il Partito democratico.
Non torneremo nemmeno indietro a scelte politiche né accetteremo leggi elettorali che spostino a dopo il voto la scelta delle alleanze, sottraendo ai cittadini il diritto di conoscerle e sceglierle prima. Dopo che gli è stato già tolto il diritto di scegliere le persone da eleggere. Diritto che noi vogliamo venga restituito a loro, con il ritorno ai collegi uninominali, compatibili con diversi modelli di legge elettorale, ma sempre in grado di mantenere il migliore rapporto tra un eletto e il suo territorio. Per preparare una nuova alleanza servono pazienza e lavoro. Oggi caratterizzarsi e scontrarsi nel dibattito congressuale soltanto sulla scelta dei possibili alleati di domani sarebbe prova di una sconcertante povertà di idee. Fare l'opposizione insieme con altri partiti, individuare battaglie comuni, in Parlamento e nel Paese, sui contenuti dell'azione di governo, sarà il terreno migliore per sperimentare la possibilità di formare una alleanza coesa e credibile. Fare l'opposizione. Parliamo troppo poco di questo. Eppure questo oggi è il nostro compito principale. Il compito che dobbiamo svolgere anche in questi mesi di congresso, tenendo distinto il piano del dibattito interno dall'esigenza di rappresentare le posizioni del partito all'esterno in modo unitario e condiviso. Dobbiamo continuare a mettere in campo proposte per risolvere i problemi del Paese ma questo non è in alcun modo in contrasto con quello che fanno le opposizioni in tutte le democrazie del mondo: si oppongono. Criticano l'azione del governo, ne denunciano le omissioni e le colpe. Noi dobbiamo riuscire a farlo con più determinazione. Non dobbiamo farci condizionare dalle parole dei nostri avversari o di quei politologi interessati che ci accusano di antiberlusconismo ad ogni critica che facciamo. Contrastare il governo non è antiberlusconismo. Essere riformisti non significa restare zitti. Un riformista alza la voce, batte i pugni sul tavolo quando vede violentati lo stato di diritto e le istituzioni democratiche, quando vede un governo che nega la crisi e le difficoltà di milioni di italiani, che non approva né riforme strutturali né misure per fronteggiare l'emergenza. Un riformista alza la voce e batte i pugni sul tavolo quando un capo del governo attacca la stampa libera e il diritto di cronaca, quando intimidisce imprenditori e editori, quando offende le istituzioni internazionali, colpevoli solo di dire la verità. La verità. Questa cosa per lui così strana e pericolosa. Fare l'opposizione con fermezza e contemporaneamente mettere in campo proposte per fronteggiare la crisi. E poi fare il partito. Perché il partito lo stiamo ancora costruendo. E il congresso sarà l'occasione per fargli fare un grande passo in avanti. Per questo non dobbiamo temerlo o viverlo come una lacerazione, o addirittura come l'anticamera di una scissione. Qualsiasi cosa accada noi resteremo insieme. Ma abbiamo bisogno di un confronto vero e onesto tra visioni differenti sul futuro e su quello che abbiamo fatto da quando il PD è nato. Ci sono certamente stati limiti e abbiamo fatto errori, abbiamo già attraversato sconfitte e risultati positivi, come sempre è stato e sempre sarà. Ma per una volta vorrei che tutti noi rivendicassimo il lavoro che insieme abbiamo fatto. Rivendicassimo con orgoglio il lavoro straordinario che insieme abbiamo fatto. In venti mesi abbiamo dovuto sciogliere i partiti precedenti, darci regole e statuti, radicare i circoli. Abbiamo fatto le primarie, gestito due campagne elettorali. In venti mesi abbiamo costruito uno dei più grandi partiti del campo progressista. Alle elezioni europee di quel campo siamo diventati il primo partito, il partito che ha preso più voti. Abbiamo cambiato la politica italiana, chiudendo la stagione della frammentazione politica e delle coalizioni contro. Abbiamo fatto nascere oltre 6000 circoli, abbiamo ormai incrociato e mescolato le nostre provenienze, come questo congresso sta dimostrando, abbiamo oltre mezzo milione di iscritti e migliaia di quadri e amministratori. Su questo lavoro oggi possiamo investire. Da questo lavoro, anche dai nostri errori, possiamo ripartire per costruire il partito. Un partito che coltiva le diversità culturali al suo interno come una ricchezza, ma che cerca e trova la sintesi. Diversità non significa galleggiare e non scegliere. Significa dialogare, accettarsi e poi decidere. Nel modo più semplice e antico, quello che per noi sembrava un tabù: votando. In questi quasi cinque mesi da Segretario ho cercato di fare così: su temi che sui giornali sembravano destinati a spaccarci drammaticamente, abbiamo discusso e votato. Dalla scelta sul referendum, alla convocazione del congresso sino alla nascita del nuovo gruppo parlamentare al parlamento europeo, l'Alleanza progressista. E fatemi dire che questa è la nostra vittoria politica più bella. Sul terreno che a tutti sembrava il più insidioso e insormontabile, abbiamo fatto fare un passo enorme a tutte le forze democratiche e socialiste europee verso una nuova casa comune. E così continueremo a fare: discutere e decidere, anche sui temi più difficili, a cominciare da quelli eticamente sensibili. Diremo no a chi pensa che su un terreno così nuovo e delicato, che interroga e riempie di paure e di speranze le coscienze di laici e cattolici allo stesso modo, il confronto voglia dire soltanto sbattersi reciprocamente in faccia la propria verità. Ci aspetta alla Camera il lavoro sul testamento biologico. Ci ascolteremo, dialogando. Ma alla fine decideremo la posizione del partito. Rispetteremo fino in fondo chi non si sentirà di condividerla, ma decideremo. Sarà il modo più onesto di interpretare la laicità del nostro partito e di rispettare il principio intoccabile della laicità dello stato. Quello che sta scritto nella nostra Costituzione e che appartiene a tutti noi, laici e cattolici del PD. Lo hanno detto molto chiaramente i 60 parlamentari cattolico- democratici nella lettera con cui due anni fa hanno spiegato il rapporto tra la loro scelta di fede e la laicità nelle scelte politiche e parlamentari. E non dobbiamo cadere nella tentazione di far diventare questo tema il terreno dello scontro e delle divisioni congressuali. Deve essere invece la base condivisa del nostro percorso comune. La laicità oggi non è più soltanto il principio che regola il rapporto tra Chiesa cattolica e Stato. Nella società aperta, nel mondo globale e plurale, il tema della laicità va declinato in modo più ampio. Non si può parlare al singolare: esistono fedi e culture diverse che sono chiamate a convivere. E questo pluralismo è caratterizzato da valori e tradizioni a loro volta diversi, che talvolta possono essere in conflitto. Essere laici nelle società contemporanee significa accettare che nessuna scelta politica sia sottratta alla faticosa strada delle necessarie sintesi. Sapendo con certezza che nessuna legge potrà mai essere l'automatica traduzione di un valore religioso. La laicità, dunque, oggi è la garanzia della libertà di tutti, credenti in una fede o non credenti, nello spazio pubblico, nei loro diritti civili. E non si può pensare ad un baluardo più solido, a difesa dello Stato laico, di un grande partito come il PD. Un partito forte perché radicato nella complessità del popolo italiano, e quindi capace di resistere ad ogni tentativo di condizionarne le scelte. E un partito plurale. Un partito che fa della contaminazione tra le visioni del mondo e le culture politiche al proprio interno, un argine efficace contro tutti gli integralismi e i fondamentalismi, religiosi come ideologici. Poi vogliamo un partito aperto. Che spalanca i propri gruppi dirigenti a quelle persone, soprattutto a quei giovani e quelle donne, che non hanno appartenenze precedenti e che hanno scelto di cominciare il loro impegno politico con il Pd. Quelli che vorrebbero entrare e impegnarsi ma spesso non sanno nemmeno a che porta bussare e invece abbiamo un bisogno enorme della loro freschezza e delle loro energie. Un partito che investe e spende nella formazione politica. Questa cosa preziosa e dimenticata. Indispensabile per spazzare l'idea superficiale che si possano avere responsabilità politiche senza un percorso di preparazione e di studio che comincia dal basso, dalla gavetta. Un partito in cui il rinnovamento necessario dei gruppi dirigenti non ha nulla a che vedere col "nuovismo" scelto dall'alto, ma significa valorizzare e investire sull'esperienza e sul radicamento territoriale di sindaci, di amministratori, di segretari provinciali e coordinatori di circolo, di parlamentari e quadri del partito. Appena eletto segretario ho pensato di dover fare così, ho sciolto i vecchi organi collegiali e ho formato una segreteria costituita da un Sindaco, un Presidente di Provincia e uno di Regione, un segretario regionale e uno provinciale, una parlamentare e un consigliere regionale. Per questo non devo fare promesse, ma soltanto dire che con questi stessi criteri comporrò la mia futura squadra. Un partito che difende come oro la forza dei propri militanti. Tutte quelle persone che hanno scelto, iscrivendosi al partito, di dedicare una parte della propria vita a un ideale, tenendo aperti i circoli, distribuendo volantini e giornali, animando le feste di partito, appassionandosi per la politica. Ma un partito che sa anche che nella società di questo secolo esistono altre forme di partecipazione a un progetto politico, meno stabili ma non per questo meno vere e appassionate. Cambiamo lo statuto dove non funziona. Rivediamo le regole del tesseramento per avere più apertura e più trasparenza insieme. Mettiamo un po' d'ordine nelle regole ma non rinunciamo alla scelta che abbiamo fatto alla nascita del Pd, di affidare agli iscritti le scelte del partito e l'elezione degli organi territoriali, affiancando a loro gli elettori, da chiamare nei momenti delle grandi scelte, com'è certamente l'elezione di un segretario nazionale. Non alziamo barriere. Gli elettori del Pd non sono estranei, sono parte di noi. Sono quelli che arrivano nelle grandi mobilitazioni civili, che ci sostengono nelle campagne elettorali, che riempiono le piazze e i comitati. Ecco perché difendo questo equilibrio e perché penso che le primarie del 25 ottobre saranno un'altra momento importante per noi e per la democrazia italiana. Io voglio un partito solido. Ma fare un partito solido nel 2009 non significa rispolverare i modelli di cinquant'anni fa. Poi un partito nazionale e federale insieme che, dentro una missione unitaria, lasci ai partiti regionali autonomia politica e statutaria nella scelta del modello organizzativo, delle alleanze, dei candidati, delle priorità programmatiche. Partiti regionali che, come prevede il nostro statuto, possano decidere di aggregarsi per aree geografiche omogenee, nel nord o nel sud del paese, per dare più forza, organizzativa e politica alla nostra azione, tenendo conto delle specificità dei territori e degli attori istituzionali e politici che vi operano. Un partito che valorizzi i suoi legami con le comunità italiane nel mondo e che metta in campo strumenti nuovi per potenziare il collegamento e il coinvolgimento strategico di quelle realtà. Un partito infine radicato sul territorio, che vuole avere un circolo in ogni paese, in ogni quartiere con una sede aperta. Circoli che non siano solo luoghi per misurare i rapporti di forza nei congressi o per comporre organi e giunte, ma che si occupino del territorio e dei problemi delle comunità locali in cui sono. Questo è il radicamento. Circoli come antenne per ascoltare e capire l'Italia. Ce ne sono migliaia che sono nati così e che vogliono restare così. Li ho incontrati dappertutto girando città e comuni, prima e durante la campagna elettorale. Circoli e iscritti che rifiutano di appartenere a tizio o a caio, a un capo o all'altro. Che sono nati liberi e vogliono restare liberi. Che al congresso voteranno il Segretario nazionale non in base all'indicazione ricevuta da qualcuno che conta ma secondo coscienza, scegliendo il candidato per pensano farà meglio per il loro partito. Guardando non da dove viene ma dove vuole andare. Un Patto con i Circoli. Questa è la mia proposta per il congresso. Un Patto che rispetti la pluralità di culture che arricchiscono il partito. Che non le teme. Che non cerca di fare prevalere una identità sulle altre. Avere scelto di fare un grande partito significa necessariamente imparare ad accettare le diversità che ci sono ancora tra noi. Sentirsi come un fiume, come un grande fiume che raccoglie e mescola le acque di tanti affluenti e le porta verso il mare lontano. L'arcipelago di storie e provenienze che sostengono la mia candidatura non è un limite è una ricchezza. Sarà mia la responsabilità di fare sintesi, e di trasformare in un messaggio condiviso e unico questa varietà di posizioni. Che sono però, voglio dirlo con chiarezza, la migliore garanzia che il Partito Democratico resterà fedele all'idea che l'ha fatto nascere. Che non torneremo indietro. Che non torneremo a riconoscerci nelle provenienze che abbiamo scelto liberamente e consapevolmente di lasciare alle nostre spalle. Ci vuole sempre più coraggio quando si sceglie di andare avanti. Fermarsi o tornare indietro può essere più tranquillo e rassicurante, soprattutto in un tempo di paure e incertezze. Ma noi vogliamo un partito che ha il coraggio di rischiare. Un partito che ha coraggio nel costruire se stesso e il proprio radicamento con pulizia e con rigore, che ha coraggio sia nell'ammettere i propri errori che nel rivendicare con orgoglio i risultati della sua giovane storia. Un partito che ha coraggio nel fare l'opposizione, sfidando la prepotenza e il potere di questa destra con la forza delle ideali, della voce, delle mani e delle braccia di migliaia di donne e di uomini. Un partito che ha coraggio nello svegliare la coscienza civile di un paese che sotto la crosta è pieno di forza e di energia positiva, di talenti e di voglia di futuro. Un partito che propone all'Italia il cambiamento contro la conservazione. Oggi, davanti a voi, assumo l'impegno di mettercela tutta. Ho cominciato ad amare la politica a 16 anni, in una assemblea studentesca che non potrò mai dimenticare, piena di giovani che si infuocavano di amore per le loro idee, così lontane, così diverse, così assolute. Credevamo tutti che la politica fosse la chiave per cambiare il mondo. Da allora ho incrociato speranze e amarezze, ho iniziato a 20 anni in consiglio comunale e mi sono trovato segretario del partito che ho sempre sognato, ho fatto errori, ho conosciuto l'entusiasmo e la disillusione. Ma sono ancora convinto che la politica sia quella chiave per cambiare il mondo, sia la chiave per costruire il giorno che viene. "Ogni mattina -ha scritto David Maria Turoldo- quando si leva il sole, inizia un giorno che non ha mai vissuto nessuno". Abbiamo davanti a noi un tempo che vale la pena vivere. Sarà un tempo di sfide dure e bellissime. Sarà il nostro nuovo giorno. E noi lo vivremo.
Dario Franceschini (Corriere della Sera - 19 ottobre 2009)
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