«Chi è Giorgio Gaber e perché parla male di tutti?». Così, parafrasando un celebre film americano, l’Unità del 24 novembre '78 titolava la mia recensione di Polli d’allevamento. Avevo già visto gli altri spettacoli di Gaber, ma era la prima volta che ne scrivevo: e fu un articolo piuttosto faticoso. Ero diviso tra l’ammirazione per la bravura dell’interprete, per la perfezione formale dello spettacolo, e la forte perplessità sui contenuti. «Parlare male di tutti» mi sembrava un esercizio troppo facile, troppo ovvio per un artista in possesso di mezzi espressivi così efficaci e così fuori dalla norma. E, sotto sotto, mi influenzava ancora il famigerato «cui prodest?» che portava – in tempi ormai remoti, per carità – i critici comunisti a confondere le ragioni di bandiera con le ragioni dell’arte. Mi seccava, insomma, che uno strumento così implacabile quale mi appariva Gaber sul palcoscenico non fosse al servizio di quella che ritenevo – e ritengo ancora – «la parte giusta».
Avevo ragione e avevo torto. Ragione perché intuivo che la fase del rifiuto, dell’invettiva, dell’analisi negativa non poteva esaurire il potenziale artistico di Gaber, giunto ormai, con Polli d’allevamento, all’estrema codificazione scenica del suo gran rifiuto nei confronti dei miti degli anni Settanta. Torto perché un contenutismo pedestre influenzava il mio giudizio impedendomi di risolvere il mio rapporto con la scena nell’unico modo che consente di interpretare serenamente e correttamente uno spettacolo ed il suo interprete: partendo, cioè dalla struttura, dall’individuazione di un linguaggio e del modo di intenderlo. Ma l’errore non era solo mio: gli spettacoli di Gaber, infatti, sono stati quasi sempre interpretati a partire dal cosiddetto «messaggio», il temibile cancro che ha portato alla metastasi, negli anni Settanta, l’immaginario collettivo della sinistra.
In questa chiave, il teatro di Gaber è stato visto come un’ininterrotta metafora dell’impotenza. Un uomo solo, pallido e vestito di blu, monologante e refrattario ai cori, nega sulla scena quanto gli altri affermano fuori dalle quinte. Un naufrago afasico nel mare dei discorsi, incapace di riconoscersi nel comune senso delle parole, nei gesti quotidiani, nelle idee che attraversano le nostre strade. Questa immagine abituale, pure abbastanza somigliante ai contenuti dell’arte di Gaber, impedisce di coglierne il significato più profondo e affascinante, appunto quello «formale». Solo mettendo a fuoco quest’ultimo – e cioè accostandosi al lavoro di Gaber come a una continua ricerca di un linguaggio autonomo, assoluto e soggettivo – si riesce a risolvere la contraddizione apparente tra la «positività» dell’attore Gaber e la «negatività» di quanto va affermando; a spiegare, in parole povere, la straordinaria facilità di comunicazione da parte di un interprete così «isolato» e ostile, l’enorme successo di una serie di spettacoli così imbarazzanti, decifrando uno dei discorsi artistici più originali di questi ultimi anni. Finiremo per accorgerci alla fine, che il contrasto tra impotenza dei contenuti e potenza della forma è un falso problema: nel teatro di Gaber l’impossibilità di muoversi e pensare in sintonia con «la società» è direttamente proporzionale alla necessità di esprimersi in modo rigorosamente autonomo, di ricercare una dimensione nella quale sia finalmente possibile «essere fedeli a se stessi». Questa dimensione è il palcoscenico.
Non a caso, fuori dal palcoscenico, Gaber non ama parlare di se stesso; e non ama che si parli di lui. Quasi interamente sottratta all’eco riflessa dei mass-media, la sua storia di artista è interamente scritta nei suoi spettacoli: ed è a questo cosciente auto confinarsi nel proprio lavoro che Gaber, da sempre, rimanda giornalisti, critici ed esegeti, negandosi alle interviste, dubitando delle dichiarazioni, diffidando delle conversazioni. E pentendosi per le rare occasioni in cui, sollecitato da amici o nemici, ha accettato di affidare alla penna degli altri qualche frammento di sé. Qualcuno ha voluto ravvisare nella meticolosa parsimonia con cui Gaber amministra le sue pubbliche relazioni un segno caratteriale, di aristocratica misantropia quando non di stizzoso narcisismo. Ma lo spinoso silenzio che, da dodici anni a questa parte, circonda il palcoscenico di Gaber, è parte integrante e condizione indispensabile del suo lavoro. L’uomo solo sulla scena chiede uno sfondo scuro, spento, che isola l’attore dal convulso panorama che lo circonda e lo riconosce unico responsabile di quanto avviene in teatro.
Ogni parola spesa al di fuori della dimensione assoluta e veritiera della scena appare a Gaber come un’interferenza: «Non riesco mai a riconoscermi nelle parole che mi mettono in bocca». E all’opposto: «Il mio mestiere è il più bello del mondo perché mi consente di dire solo quello che penso veramente, senza intermediazioni di sorta». Allo stesso modo, in un catalogo di presentazione di una propria mostra di quadri, Sandro Luporini, coautore degli spettacoli di Gaber e suo fedele compagno di viaggio attraverso la lunga avventura teatrale, scrive: «Per chi si sottometta seriamente alla disciplina di un’arte, alla sua legge di linguaggio, la riserva del carattere puramente soggettivo della propria esperienza si dissolve. Ed ogni passo che egli compie all’interno della cosa (grazie ad una sensibilità estremamente soggettiva) può avere una forza oggettiva incomparabile». Questa ostinata ricerca di autonomia espressiva e di «unicità» e purezza della rappresentazione – in una società che tende a negare all’opera d’arte un valore esemplare e ad affidargliene uno rituale – è il cardine attorno al quale ruotano annidi lavoro; ed è – credo – la chiave per capire come possa essere accaduto che un «cantante», modificando profondamente e strutturalmente il proprio linguaggio, sia riuscito a ritagliarsi, con la sola forza delle sue capacità, uno spazio scenico così intenso e singolare, e sia arrivato – proprio facendo leva su una «sensibilità estremamente soggettiva» – a superare quella fase di tenace anoressia che tanto preoccupava i suoi critici.
Chi ha già visto il suo nuovo spettacolo Anni affollati se ne sarà già accorto: dopo tanto assaggiare e tanto vomitare sotto i riflettori, dopo le disperate indigestioni di un’epoca onnivora e avvelenata dalle sofisticazioni, l’uomo pallido e vestito di blu ha ritrovato il bandolo di un’illogica speranza. Una speranza chiamata attore.
Michele Serra (Giorgio Gaber: La canzone a teatro - 1982 - Il Saggiatore)
Avevo ragione e avevo torto. Ragione perché intuivo che la fase del rifiuto, dell’invettiva, dell’analisi negativa non poteva esaurire il potenziale artistico di Gaber, giunto ormai, con Polli d’allevamento, all’estrema codificazione scenica del suo gran rifiuto nei confronti dei miti degli anni Settanta. Torto perché un contenutismo pedestre influenzava il mio giudizio impedendomi di risolvere il mio rapporto con la scena nell’unico modo che consente di interpretare serenamente e correttamente uno spettacolo ed il suo interprete: partendo, cioè dalla struttura, dall’individuazione di un linguaggio e del modo di intenderlo. Ma l’errore non era solo mio: gli spettacoli di Gaber, infatti, sono stati quasi sempre interpretati a partire dal cosiddetto «messaggio», il temibile cancro che ha portato alla metastasi, negli anni Settanta, l’immaginario collettivo della sinistra.
In questa chiave, il teatro di Gaber è stato visto come un’ininterrotta metafora dell’impotenza. Un uomo solo, pallido e vestito di blu, monologante e refrattario ai cori, nega sulla scena quanto gli altri affermano fuori dalle quinte. Un naufrago afasico nel mare dei discorsi, incapace di riconoscersi nel comune senso delle parole, nei gesti quotidiani, nelle idee che attraversano le nostre strade. Questa immagine abituale, pure abbastanza somigliante ai contenuti dell’arte di Gaber, impedisce di coglierne il significato più profondo e affascinante, appunto quello «formale». Solo mettendo a fuoco quest’ultimo – e cioè accostandosi al lavoro di Gaber come a una continua ricerca di un linguaggio autonomo, assoluto e soggettivo – si riesce a risolvere la contraddizione apparente tra la «positività» dell’attore Gaber e la «negatività» di quanto va affermando; a spiegare, in parole povere, la straordinaria facilità di comunicazione da parte di un interprete così «isolato» e ostile, l’enorme successo di una serie di spettacoli così imbarazzanti, decifrando uno dei discorsi artistici più originali di questi ultimi anni. Finiremo per accorgerci alla fine, che il contrasto tra impotenza dei contenuti e potenza della forma è un falso problema: nel teatro di Gaber l’impossibilità di muoversi e pensare in sintonia con «la società» è direttamente proporzionale alla necessità di esprimersi in modo rigorosamente autonomo, di ricercare una dimensione nella quale sia finalmente possibile «essere fedeli a se stessi». Questa dimensione è il palcoscenico.
Non a caso, fuori dal palcoscenico, Gaber non ama parlare di se stesso; e non ama che si parli di lui. Quasi interamente sottratta all’eco riflessa dei mass-media, la sua storia di artista è interamente scritta nei suoi spettacoli: ed è a questo cosciente auto confinarsi nel proprio lavoro che Gaber, da sempre, rimanda giornalisti, critici ed esegeti, negandosi alle interviste, dubitando delle dichiarazioni, diffidando delle conversazioni. E pentendosi per le rare occasioni in cui, sollecitato da amici o nemici, ha accettato di affidare alla penna degli altri qualche frammento di sé. Qualcuno ha voluto ravvisare nella meticolosa parsimonia con cui Gaber amministra le sue pubbliche relazioni un segno caratteriale, di aristocratica misantropia quando non di stizzoso narcisismo. Ma lo spinoso silenzio che, da dodici anni a questa parte, circonda il palcoscenico di Gaber, è parte integrante e condizione indispensabile del suo lavoro. L’uomo solo sulla scena chiede uno sfondo scuro, spento, che isola l’attore dal convulso panorama che lo circonda e lo riconosce unico responsabile di quanto avviene in teatro.
Ogni parola spesa al di fuori della dimensione assoluta e veritiera della scena appare a Gaber come un’interferenza: «Non riesco mai a riconoscermi nelle parole che mi mettono in bocca». E all’opposto: «Il mio mestiere è il più bello del mondo perché mi consente di dire solo quello che penso veramente, senza intermediazioni di sorta». Allo stesso modo, in un catalogo di presentazione di una propria mostra di quadri, Sandro Luporini, coautore degli spettacoli di Gaber e suo fedele compagno di viaggio attraverso la lunga avventura teatrale, scrive: «Per chi si sottometta seriamente alla disciplina di un’arte, alla sua legge di linguaggio, la riserva del carattere puramente soggettivo della propria esperienza si dissolve. Ed ogni passo che egli compie all’interno della cosa (grazie ad una sensibilità estremamente soggettiva) può avere una forza oggettiva incomparabile». Questa ostinata ricerca di autonomia espressiva e di «unicità» e purezza della rappresentazione – in una società che tende a negare all’opera d’arte un valore esemplare e ad affidargliene uno rituale – è il cardine attorno al quale ruotano annidi lavoro; ed è – credo – la chiave per capire come possa essere accaduto che un «cantante», modificando profondamente e strutturalmente il proprio linguaggio, sia riuscito a ritagliarsi, con la sola forza delle sue capacità, uno spazio scenico così intenso e singolare, e sia arrivato – proprio facendo leva su una «sensibilità estremamente soggettiva» – a superare quella fase di tenace anoressia che tanto preoccupava i suoi critici.
Chi ha già visto il suo nuovo spettacolo Anni affollati se ne sarà già accorto: dopo tanto assaggiare e tanto vomitare sotto i riflettori, dopo le disperate indigestioni di un’epoca onnivora e avvelenata dalle sofisticazioni, l’uomo pallido e vestito di blu ha ritrovato il bandolo di un’illogica speranza. Una speranza chiamata attore.
Michele Serra (Giorgio Gaber: La canzone a teatro - 1982 - Il Saggiatore)
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