Puntando tutto sul Senato per l'approvazione della legge bavaglio, Berlusconi si è indebolito a Montecitorio.
La telefonata che ha cambiato i rapporti di forza in campo è iniziata così: “Scusa Umberto, ma ti voglio chiedere una cosa. Tu, il testo del Senato, lo hai letto bene? Perché...”. Umberto è Umberto Bossi. E dall’altro capo del telefono c’era Gianfranco Fini. Se Silvio Berlusconi avesse potuto intercettare quella telefonata, molto probabilmente, gli sarebbe venuto un coccolone.
Strategia vietcong. Dietro la miracolosa congiunzione astrale che ha rovesciato i rapporti di forza nel centrodestra e ha impantanato la (apparentemente) trionfale marcia del disegno di legge sulle intercettazioni nei due rami del Parlamento c’è la convergenza, più o meno simultanea, di quattro fattori decisivi. Il primo è un sostanziale ribaltamento strategico di posizione (quello della Lega, che anche ieri in commissione si è smarcata dal Pdl). Il secondo è un piccolo capolavoro tattico del presidente della Camera, che ha saputo, contemporaneamente, fare pressione sulla Lega, e imbrigliare (senza violare la lettera di nessun regolamento parlamentare, anzi, attenendosi in maniera rigorosa) il percorso del provvedimento. Il terzo è stato un grave errore di manovra di Berlusconi nella scelta di tempo. “Se avesse posto la fiducia alla Camera, dopo un lungo dibattito parlamentare al Senato - spiega uno degli uomini più vicini a Fini - come si sarebbe potuto non votarla? Poiché invece Berlusconi ha fatto esattamente il contrario - continua il finiano - era praticamente impossibile non discutere alla Camera”. Poi, ovviamente c’è stata la “moral suasion” di Napolitano. Palazzo Chigi sapeva di rischiare il rinvio alle Camere su almeno tre punti dell’accordo, e in caso di rinvio, i finiani non avrebbero rivotato in nessun caso un testo fotocopia. Insomma, i vietcong dell’ex leader di An hanno atteso gli yankee berlusconiani nella Camera in cui avevano i rapporti di forza migliori. Al Senato non potevano sapere nemmeno cosa accadesse in commissione Giustizia, a Montecitorio contano sulla presidenza della commissione, sulla maggioranza dei commissari e sul presidente della Camera.
La conversione di Bossi. Il primo punto è quello apparentemente più difficile da spiegare. Come mai le argomentazioni di Fini vengono improvvisamente prese in considerazione da Bossi? Da un lato per via della micidiale pressione che i vertici delle forze dell’ordine hanno esercitato in queste ore sul povero Maroni: “Qui mi dicono che metà delle indagini di mafia saltano...”, ha detto il ministro dell’Interno al leader del Carroccio. Il resto del lavoro di convincimento l’ha fatto, senza volerlo, lo stesso Berlusconi. Chiedendo la corsia preferenziale per le intercettazioni ha messo in secondo piano tutto il resto. E il senatùr se ne deve andare domenica prossima di fronte al popolo di Pontida senza poter annunciare quella sul federalismo, con le regioni in rivolta sui tagli della Finanziaria, con molte perplessità che iniziano a manifestarsi, persino tra gli elettori, sul fatto che la legge possa favorire le attività criminali e mettere in crisi il dogma della sicurezza. Troppe cattive notizie, tutte insieme. I voti si pesano. Ma l’errore che è tutto di Berlusconi merita di essere ponderato. Il presidente del Consiglio continua a chiedersi, come Stalin “di quante armate disponga il Papa” (cioè Fini) senza capire che nei passaggi più delicati del confronto parlamentare, i voti non si contano, ma si pesano. Alla Camera i berlusconiani rischiano di ritrovarsi in aula con un testo che passa al buio in commissione. Un rischio troppo grosso. Se ieri anche uno come Maurizio Gasparri si diceva disposto ad accettare delle correzioni, è perché con il riposizionamento della Lega i rapporti di forza sono totalmente cambiati. Certo, quella telefonata ha pesato: “Ma tu lo sai che con questo testo non si potrebbe mettere una cimice nella macchina della moglie di Riina?”. No, Umberto non lo sapeva. Oppure fino a quel momento non lo aveva ritenuto grave.
Entro l’estate? Adesso però la sconfitta in una battaglia ha messo in crisi tutta la strategia della blitzkrieg, della guerra lampo pianificata da Berlusconi (se non l’esito complessivo di tutta la guerra). Spiega ancora l’anonimo finiano: “Io credo che a questo punto sia molto difficile pensare che sia possibile votare il testo prima dell’estate”. E se non passa prima dell’estate, sarà quasi impossibile che lo stesso testo passi dopo. Certo, al Senato gli uomini del presidente della Camera erano stati quasi spiazzati, presi di sorpresa. Ma, per paradosso, quella prima vittoria ha illuso Berlusconi di aver portato in porto il provvedimento.
Soviet supremo. Adesso, racconta il nostro confidente con una nota di ironia nella voce, sarà riunito di nuovo il Soviet supremo del Pdl, per una nuova parata muscolare. Con quale risultato? Altro sorriso: “Nessuno. Perché la partita poi si gioca in ogni caso in Parlamento”. Già. E alla Camera, ormai lo sanno anche i sassi, i rapporti di forza e i contrappesi politico-istituzionali, giocano tutti contro la linea ufficiale del Pdl. Certo, non tutte le carte sono state ancora girate. Ma se non si rompe l’asse tattico fra gli ex An e Lega, la strategia della guerra-lampo non ha nessuna possibilità di riuscire.
Luca Telese (Il Fatto Quotidiano del 18 giugno 2010)
La telefonata che ha cambiato i rapporti di forza in campo è iniziata così: “Scusa Umberto, ma ti voglio chiedere una cosa. Tu, il testo del Senato, lo hai letto bene? Perché...”. Umberto è Umberto Bossi. E dall’altro capo del telefono c’era Gianfranco Fini. Se Silvio Berlusconi avesse potuto intercettare quella telefonata, molto probabilmente, gli sarebbe venuto un coccolone.
Strategia vietcong. Dietro la miracolosa congiunzione astrale che ha rovesciato i rapporti di forza nel centrodestra e ha impantanato la (apparentemente) trionfale marcia del disegno di legge sulle intercettazioni nei due rami del Parlamento c’è la convergenza, più o meno simultanea, di quattro fattori decisivi. Il primo è un sostanziale ribaltamento strategico di posizione (quello della Lega, che anche ieri in commissione si è smarcata dal Pdl). Il secondo è un piccolo capolavoro tattico del presidente della Camera, che ha saputo, contemporaneamente, fare pressione sulla Lega, e imbrigliare (senza violare la lettera di nessun regolamento parlamentare, anzi, attenendosi in maniera rigorosa) il percorso del provvedimento. Il terzo è stato un grave errore di manovra di Berlusconi nella scelta di tempo. “Se avesse posto la fiducia alla Camera, dopo un lungo dibattito parlamentare al Senato - spiega uno degli uomini più vicini a Fini - come si sarebbe potuto non votarla? Poiché invece Berlusconi ha fatto esattamente il contrario - continua il finiano - era praticamente impossibile non discutere alla Camera”. Poi, ovviamente c’è stata la “moral suasion” di Napolitano. Palazzo Chigi sapeva di rischiare il rinvio alle Camere su almeno tre punti dell’accordo, e in caso di rinvio, i finiani non avrebbero rivotato in nessun caso un testo fotocopia. Insomma, i vietcong dell’ex leader di An hanno atteso gli yankee berlusconiani nella Camera in cui avevano i rapporti di forza migliori. Al Senato non potevano sapere nemmeno cosa accadesse in commissione Giustizia, a Montecitorio contano sulla presidenza della commissione, sulla maggioranza dei commissari e sul presidente della Camera.
La conversione di Bossi. Il primo punto è quello apparentemente più difficile da spiegare. Come mai le argomentazioni di Fini vengono improvvisamente prese in considerazione da Bossi? Da un lato per via della micidiale pressione che i vertici delle forze dell’ordine hanno esercitato in queste ore sul povero Maroni: “Qui mi dicono che metà delle indagini di mafia saltano...”, ha detto il ministro dell’Interno al leader del Carroccio. Il resto del lavoro di convincimento l’ha fatto, senza volerlo, lo stesso Berlusconi. Chiedendo la corsia preferenziale per le intercettazioni ha messo in secondo piano tutto il resto. E il senatùr se ne deve andare domenica prossima di fronte al popolo di Pontida senza poter annunciare quella sul federalismo, con le regioni in rivolta sui tagli della Finanziaria, con molte perplessità che iniziano a manifestarsi, persino tra gli elettori, sul fatto che la legge possa favorire le attività criminali e mettere in crisi il dogma della sicurezza. Troppe cattive notizie, tutte insieme. I voti si pesano. Ma l’errore che è tutto di Berlusconi merita di essere ponderato. Il presidente del Consiglio continua a chiedersi, come Stalin “di quante armate disponga il Papa” (cioè Fini) senza capire che nei passaggi più delicati del confronto parlamentare, i voti non si contano, ma si pesano. Alla Camera i berlusconiani rischiano di ritrovarsi in aula con un testo che passa al buio in commissione. Un rischio troppo grosso. Se ieri anche uno come Maurizio Gasparri si diceva disposto ad accettare delle correzioni, è perché con il riposizionamento della Lega i rapporti di forza sono totalmente cambiati. Certo, quella telefonata ha pesato: “Ma tu lo sai che con questo testo non si potrebbe mettere una cimice nella macchina della moglie di Riina?”. No, Umberto non lo sapeva. Oppure fino a quel momento non lo aveva ritenuto grave.
Entro l’estate? Adesso però la sconfitta in una battaglia ha messo in crisi tutta la strategia della blitzkrieg, della guerra lampo pianificata da Berlusconi (se non l’esito complessivo di tutta la guerra). Spiega ancora l’anonimo finiano: “Io credo che a questo punto sia molto difficile pensare che sia possibile votare il testo prima dell’estate”. E se non passa prima dell’estate, sarà quasi impossibile che lo stesso testo passi dopo. Certo, al Senato gli uomini del presidente della Camera erano stati quasi spiazzati, presi di sorpresa. Ma, per paradosso, quella prima vittoria ha illuso Berlusconi di aver portato in porto il provvedimento.
Soviet supremo. Adesso, racconta il nostro confidente con una nota di ironia nella voce, sarà riunito di nuovo il Soviet supremo del Pdl, per una nuova parata muscolare. Con quale risultato? Altro sorriso: “Nessuno. Perché la partita poi si gioca in ogni caso in Parlamento”. Già. E alla Camera, ormai lo sanno anche i sassi, i rapporti di forza e i contrappesi politico-istituzionali, giocano tutti contro la linea ufficiale del Pdl. Certo, non tutte le carte sono state ancora girate. Ma se non si rompe l’asse tattico fra gli ex An e Lega, la strategia della guerra-lampo non ha nessuna possibilità di riuscire.
Luca Telese (Il Fatto Quotidiano del 18 giugno 2010)
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