Nel 1975 mi capitò d' essere uno dei pochissimi testimoni occidentali d' un avvenimento storico che segnò la vita della mia generazione: la fine della guerra in Vietnam. Su quella esperienza, a caldo, con le emozioni ancora a fior di pelle, scrissi un libro che uscì col titolo Giai Phong! La liberazione di Saigon. Il volume che il lettore ha ora fra le mani è la ristampa di quel libro preceduto dal mio diario di corrispondente al fronte pubblicato per la prima volta col titolo Pelle di Leopardo nel novembre 1973. È passato più d' un quarto di secolo da quando quei due volumi videro la luce e il tempo non ha fatto uno dei suoi soliti, strani scherzi: ha cambiato me, ma non i libri. Come una immagine fotografica congelata nell' immobilità dell' istantanea, Giai Phong! in particolare riflette ancora l' entusiasmo di quei giorni, è pieno delle speranze che la rivoluzione aveva suscitato. Io invece, avendo vissuto il resto di quella e altre storie, sono diventato, com' è naturale e giusto, un' altra persona: scettica di tutte le promesse politiche e sospettosa di ogni tipo di rivoluzione. «Allora ti eri sbagliato?» mi si chiede spesso. Al fondo di questa domanda c' è una provocazione che merita una risposta, e la risposta è sostanzialmente: « No». I fatti di poi non possono mutare i fatti di prima e quel che è successo in Vietnam dopo la fine della guerra non può cambiare il giudizio sul significato del conflitto in sé. Per la mia generazione fu soprattutto una questione di moralità. Da una parte c' erano i vietnamiti che combattevano una guerra di indipendenza, la stessa che avevano combattuto da quando, un secolo prima, i francesi erano sbarcati sulle loro coste ed avevano fatto dell' Indocina una colonia; dall' altra c' erano gli americani che avevano rimpiazzato i francesi nel loro tentativo neocolonialista, che non avevano alcuna ragione di immischiarsi negli affari di un Paese così lontano dal loro e che non avevano perciò alcun diritto «di distruggerlo per poterlo salvare ». Ogni generazione cerca degli eroi con cui identificarsi, degli eroi a cui ispirarsi. Per la mia furono i vietcong. Fra gli americani con la loro sofisticata, tecnologicissima macchina da guerra e i contadini-guerriglieri, la scelta era fin troppo facile. I princìpi nei quali credevamo erano semplici: ogni popolo doveva scegliere il proprio destino, ogni società doveva essere soprattutto umana e giusta. La rivoluzione vietnamita prometteva questo. Il Vietnam era esattamente così: da un lato c' era un reale, presentissimo, visibile, oppressivo regime appoggiato dalla potenza militare americana; dall' altro c' era una dura, spartana e moralissima rivoluzione che prometteva pace e una vita migliore per tutti. Per questo lo slogan «Uno, dieci , mille Vietnam» fu per anni sulla bocca di milioni e milioni di giovani che in tutto il mondo manifestavano contro ogni fase della «sporca guerra» americana. La rivoluzione non faceva paura. Anzi. Per giunta, quando arrivò a Saigon e finalmente mise fine alla guerra, la rivoluzione si presentò esattamente con la faccia che molti avevano sognato: era gentile, comprensiva, compassionevole. Alcuni avevano temuto che i guerriglieri, una volta presa Saigon, avrebbero scatenato un bagno di sangue, avrebbero allineato i loro nemici davanti ai plotoni di esecuzione. Non avvenne niente del genere. Invece di chiedere vendetta i nuovi detentori del potere parlarono di fratellanza e di riconciliazione nazionale. I primi rivoluzionari che entrarono a Saigon avevano l' aria di onesti, sinceri combattenti di una causa che improvvisamente sembrò giusta persino ad alcuni dei loro più accaniti avversari. Nei tre mesi in cui mi fu permesso di restare in Vietnam l' esperienza quotidiana della rivoluzione fu incoraggiante, a volte persino esaltante. Avevo l' impressione di qualcosa di nuovo e affascinante che veniva alla luce, qualcosa di magico come la vita di un neonato. C' era nella rivoluzione un aspetto catartico, purificante, che non poteva lasciare indifferente un osservatore. C' era un senso di «giustizia è fatta» nel vedere una società marcia e corrotta messa sotto sopra, nel vedere i prepotenti di ieri esautorati e la parola data alle vittime. Giai Phong! è il resoconto di quel periodo . Riflette l' atmosfera, lo spirito di quel tempo. Un anno dopo la edizione originale, in Italia il libro venne ristampato in una versione abbreviata da adottare nelle scuole. In Vietnam Giai Phong! venne prima pubblicato a puntate da un quotidiano e poi distribuito come libro fra i quadri del partito comunista e dell' esercito. Una volta, nelle Filippine, telefonai alla famiglia di Ninoy Aquino che era ancora in prigione. Cercavo di presentarmi quando venni interrotto: «La conosciamo. Ninoy non fa che citare il suo libro». Lui stesso, prima di essere assassinato, mi scrisse una nota per dirmi quanto Giai Phong! l' aveva aiutato nel fargli credere nella possibilità di una rivoluzione dal volto umano. Anni dopo, alcuni amici thailandesi mi h an raccontato che molti degli studenti di Bangkok andati a raggiungere la guerriglia comunista avevano il mio libro fra le poche cose che si eran portati nella giungla. Dinanzi alla realtà di ciò che è successo in Vietnam dopo il 1975, mi sono senti to spesso un gran peso sulla coscienza all' idea che Giai Phong! venisse utilizzato per propagare un mito che s' era sgonfiato e che continuasse ad alimentare speranze che s' erano rivelate penose illusioni. La sola cosa che potevo fare era continuar e a scrivere: scrivere su ciò che succedeva in Vietnam, scrivere su come i rivoluzionari si comportano quando sono al potere. L' ho fatto ogni volta che mi si è presentata l' occasione: in Vietnam e altrove. È così che l' essere stato l' autore di Gi ai Phong! non mi impedì di descrivere come la gente, che avevo pensato avesse una sorta di superiorità morale, l' aveva perduta e come i «liberatori» si erano trasformati in oppressori. Nel 1976 le autorità comuniste di Hanoi mi permisero di tornare in Vietnam in occasione del primo anniversario della loro vittoria. Per due settimane viaggiai in macchina da nord a sud attraverso un Paese dove la gente, nonostante la propaganda sulla riunificazione, era ancora profondamente divisa, dove non c' era stata alcuna riconciliazione nazionale, e dove i «perdenti» venivano trattati come paria, mentre i «vincitori» avevano assunto i privilegi, l' arroganza e tutti gli altri difetti di quelli che avevano spodestato. Le così dette «nuove zone economiche» altro non erano che campi di concentramento, mentre la tanto vantata rieducazione s' era rivelata una trappola in cui centinaia di migliaia di potenziali oppositori politici erano stati abilmente attirati. Quando, in visita ufficiale in una prigione, fui messo dinanzi a una orchestrina composta da violinisti ex ufficiali dell' esercito di Thieu che per dimostrare la loro gioia di essere rieducati avrebbero suonato per me un quartetto di Mozart, mi rifiutai di prender parte a quelle farsa e ne l libro dei visitatori scrissi che dovunque ci fossero delle sbarre la mia simpatia andava sempre a quelli che ci stavano dietro. Tornai in Vietnam ancora due volte e ogni volta trovai il Paese in condizioni peggiori. Andando a far visita agli amici e ai conoscenti di un tempo - con tutti che si guardavano costantemente alle spalle per vedere se venivano pedinati o spiati - mi fu facile rendermi conto di tutto quello che non era stato fatto, di tutto quel che era stato sprecato, di tutto quello che era andato storto. I rivoluzionari non avevano portato alcuna giustizia, a meno che questa significasse semplicemente mettere in basso ciò che era in alto e rimpiazzare una dittatura con un' altra. La qualità della vita sembrava peggiorare di volta in volta: povertà, corruzione, inefficienza dilagavano. Su ogni argomento che cercavo di affrontare, dalla Cambogia al numero della gente che arbitrariamente era ancora detenuta, le autorità mentivano con una spudoratezza che rasentava il ridicolo. Il mio migliore amico, Cao Giao, venne arrestato e tenuto per mesi in isolamento in una cella senza luce dove ogni giorno gli veniva data una ciotola di riso piena di formiche che lui si accorgeva di mangiare solo quando nel buio le sentiva correr gli sulla faccia. Il Pen Club internazionale condusse una campagna per la sua liberazione, ma le autorità comuniste lo rilasciarono solo quando era chiaro che stava morendo di cancro e aveva ormai pochissimo da vivere. Cao Giao era uno di quelli che la rivoluzione aveva fatto sognare; ma per lui come per tantissimi altri vietnamiti la polizia rivoluzionaria con le sue tattiche di terrore era diventata un incubo come la polizia del vecchio regime. La rivoluzione non aveva mantenuto nessuna delle sue promesse e governava la gente con una crudeltà che divenne spaventosamente apparente quando migliaia di vietnamiti si buttarono, o vennero buttati, in balia del mare su barche pericolanti in cerca di un rifugio. Scrissi di tutto questo e presto, come era già avvenuto ai tempi di Thieu, venni dichiarato persona non grata e messo sulla lista di quelli a cui venne impedito di entrare nel Paese. Non me ne dispiacque. In Cina, per aver scritto cose simili sul regime comunista, nel 1984 venni arre stato, rieducato per un mese e alla fine espulso. Anche lì la rivoluzione aveva avuto un diverso inizio e giornalisti come l' americano Edgar Snow avevano scritto con grande simpatia di Mao e della presa di potere da parte dei comunisti. Eppure in Cina - come in Vietnam e in verità come ovunque - la rivoluzione era presto andata a male, s' era rivoltata contro la gente, e il bambino che sul nascere era apparso così bello e attraente s' era presto rivelato un mostro dal cuore di pietra. Che libro scriverei oggi se mi capitasse di assistere a quello che vidi nel 1975? Certo non lo stesso libro, visto che oggi non sono più la stessa persona di allora, non sono più quel giovane ottimista, sorridente e speranzoso raffigurato coi sandali di gomma dei vietcong nella foto sul retro della copertina. E come potrei essere lo stesso dopo essere passato - e solo da testimone, fortunatamente - attraverso tutte le disgrazie, i massacri, i tradimenti degli ultimi venticinque anni di storia asiatica, d ai killing fields di Pol Pot, ai giovani cinesi assassinati inermi sulla piazza del Tienanmen, alla delusione della people's power revolution di Cory Aquino nelle Filippine, allo strangolamento della democrazia in Birmania e ora all'ondata di materialismo che spazza via quello che non era ancora stato distrutto dalle bombe e dagli iconoclasti? Io non sono lo stesso uomo di venticinque anni fa, così come il mondo non è lo stesso di allora. La vita di oggi non è più dominata dai conflitti ideologici, non ci sono più contrastanti visioni del futuro e non più diverse interpretazioni della storia. La sola voce che oggi si sente rintronare è quella autoincensantesi dei vincitori della Guerra Fredda. Nessuno marcia più per nulla e niente sembra più rivoltare la coscienza della gente. In questo senso mi fa piacere che Giai Phong! e Pelle di Leopardo, da tempo esauriti e introvabili, tornino a vedere la luce grazie al mio editore Mario Spagnol, che poco prima di morire decise di ristamparli.
Tiziano Terzani (9 ottobre 2000)
Tiziano Terzani (9 ottobre 2000)
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