venerdì 15 ottobre 2010

Ricercatori di Harvard hanno fotografato cosa accade nel cervello quando pensiamo a un amico.

Il legame inscindibile dell'amicizia fotografato nel cervello. Il meccanismo funziona più o meno così: di fronte a un amico, anche quello più diverso da noi, una parte della mente si "illumina" ed è più pronta a immedesimarsi per comprendere i sentimenti e le azioni dell'altro. Ad attivare la materia grigia, insomma, non sarebbe tanto la somiglianza in fatto di gusti e interessi, quanto piuttosto l'aver condiviso esperienze in passato, belle o brutte che siano. Queste le conclusioni di uno studio dell'Università di Harvard sui processi neuronali che regolano i rapporti sociali e il nostro modo di rapportarci al prossimo. Stando ai risultati, pubblicati sul Journal of Neuroscience, sarebbe proprio la presenza di una relazione già costruita a scatenare i neuroni più di quanto non avvenga al cospetto di uno sconosciuto, anche se costui ci somiglia tantissimo. Le ragioni di questa "scala di valori neuronali", suggeriscono gli autori, potrebbero essere frutto dell'evoluzione di uno dei tratti più distintivi dell'uomo, come sosteneva già il buon vecchio Aristotele: la sua socialità.
Le regioni della mente che ci fanno sociali. Sono più di vent'anni che i neurologi di tutto il mondo collezionano preziose informazioni su quali siano le parti del cervello dedicate all'interpretazione degli altri e ai comportamenti relazionali. Finora si è visto che nell'uomo, come anche nei primati e nei roditori, la zona più direttamente coinvolta nell'elaborazione degli atteggiamenti sociali è quella della corteccia mediale anteriore. Danni in questa parte del cervello, infatti, sono di solito associati a difficoltà nel comprendere le regole di base dell'interazione.
Per questo i ricercatori di Harvard si sono concentrati su questa zona del sistema nervoso, cercando di capire il peso specifico delle due "forze" che guidano la percezione celebrale del prossimo: la somiglianza e la familiarità. Mentre la prima consente al cervello di immedesimarsi nell'altro e dedurre i suoi stati emotivi, la seconda è diretta conseguenza della condivisione di un'esperienza e ha dunque un peso "personale". "Entrambi i meccanismi - spiega a Repubblica.it l'autrice dello studio, Fenna Krienen - hanno una base psicologica ed evolutiva come elementi fondamentali per giudicare il diverso da sé. Il nostro modo di rapportarci con il mondo esterno passa sempre attraverso una valutazione di questi due valori".
L'esperimento: amicizia contro somiglianza. Nello studio i ricercatori hanno scannerizzato, tramite una tecnica di risonanza magnetica funzionale, il cervello di novantotto giovani tra i 18 e i 23 anni alle prese con un test di previsione del comportamento altrui. Il compito consisteva nel provare a mettersi nei panni di un'altra persona e indovinare le sue risposte a una serie di domande. Della rosa di nomi e volti facevano parte sia degli amici (alcuni considerati simili, altri diversi) sia dei perfetti sconosciuti (di cui erano state fornite biografie e foto). Sorprendentemente, in tutti gli esperimenti effettuati a guidare la risposta celebrale nella regione della corteccia mediale anteriore è stata la familiarità, e non la somiglianza in fatto di trascorsi e comportamenti. La presenza o meno di un certo grado di caratteristiche in comune tra soggetto analizzato e protagonista del test non sembrava pesare in modo particolare sull'elaborazione delle inferenze. "Al di là della durata del rapporto e di quanto spesso si frequenti l'amico, la mente entra più rapidamente in empatia con la persona cara, mostrando un pattern di attivazione simile a quello che si osserva nelle decisioni personali", commenta la ricercatrice americana.
Se il cervello "sorride" agli amici. Come osservato da molti studiosi, una delle caratteristiche pressoché uniche dell'uomo è la sua capacità di costruire e mantenere relazioni che vadano oltre la semplice perpetuazione della specie. "Dal nostro studio - sottolinea Krienen - emerge chiaramente come la vicinanza sociale, o familiarità, si sia sviluppata nel cervello lungo circuiti di prima classe e sia il fattore principale di cui la mente si serve per interpretare gli altri". Per gli studiosi di Harvard, dunque, il sistema nervoso processa l'amicizia con un trattamento "speciale": un privilegio che può essere stato accordato agli amici solo grazie all'evoluzione e al vantaggio selettivo della socialità. La tecnica di imaging ha poi permesso un ulteriore passo in avanti: "Per la prima volta - precisa Krienen - siamo riusciti a fotografare questo meccanismo: abbiamo visto cosa accade ai nostri neuroni quando pensiamo a un amico".
La mentalità dell'amicizia. Una delle conseguenze della ricerca americana è l'importanza che la mentalità sociale ricopre nel cervello umano, ovvero l'esistenza di un atteggiamento involontario che ci dispone a comprendere meglio gli individui per cui proviamo una qualche forma di affetto. In questo senso, la presenza o meno di elementi in comune potrebbe non essere necessaria. Come ha mostrato uno studio del MIT di Boston (recentemente pubblicato su Science), quando diverse persone si uniscono per risolvere dei problemi si sviluppa un'intelligenza superiore, una sorta di super-mente sociale. A quanto pare, per funzionare al top questo super-cervello non ha tanto bisogno che tra gli individui ci siano diversi tratti in comune, quanto piuttosto che nel gruppo regni un'elevata "sensibilità sociale". Proprio ciò che c'è tra gli amici, come ricorda anche l'origine latina del termine: amare.

Giulia Belardelli (La Repubblica - 13 ottobre 2010)

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