sabato 6 novembre 2010

Le colpe di Pier Paolo

Ho incontrato per la prima volta, nel settembre del 1974, Pier Paolo Pasolini, di cui ricorre in questi giorni, mi pare senza particolari celebrazioni, il 35° anno dalla tragica morte, una morte molto pasoliniana. Lo andai a trovare nella sua casa romana, all’Eur, per intervistarlo sul “Fiore delle Mille e una notte” uscito da poco. Non c’era intorno a lui alcun odore di zolfo. Normale, piccolo borghese, era il quartiere dove abitava, così come la sua casa, con i centrini sotto i vasi di fiori, i ninnoli, i comodini e tutto quanto. Una casa piccolo borghese. Mentre parlavamo sulla terrazza, in un dolce mattino di fine estate, lo osservavo con attenzione. Non aveva, Pasolini, a differenza di tanti altri intellettuali italiani (parlo di quelli di allora, s’intende), la conversazione spumeggiante, il linguaggio pirotecnico, la citazione seducente, ma il modo di parlare piano, pacato, rettilineo, modesto di chi è profondamente consapevole della propria cultura e perciò non la esibisce. E in questa atmosfera anche le cose che diceva, le stesse che scritte suscitavano scandalo, irritavano o entusiasmavano, parevano cose normali, elementari e quasi banali. I gesti erano misurati, tranquilli. Solo il volto di Pasolini era un po’ diverso, un volto profondamente segnato, un volto quasi da Cristo, ma un Cristo molto diverso dal terribile “Cristo putrefatto” di Matias Grünewald o, tanto meno, dal Cristo oleografico dell’iconografia cattolica. Insomma, anch’esso, un Cristo molto normale, un Cristo piccolo borghese.
Pasolini non aveva, nei gesti, nel parlare, nel modo di porgersi, nulla della “checca”. Era anzi piuttosto virile. La scena cambiò quando sulla terrazza entrò la madre e vidi quest’uomo infantilizzarsi, sdilinquirsi in bacini e bacetti, in un puci-puci imbarazzante. Era lì, come sempre, l’origine della sua omosessualità. Mi invitò a pranzo. Per Pasolini infatti l’intervista non era, come di solito, una partita burocratica in cui l’intervistato cerca di stendere sul tappeto le proprie bellurie, disinteressandosi completamente dell’interlocutore. Era un incontro. Mi fece molte domande, su di me, sul mio lavoro, sulla mia vita. Nel pomeriggio arrivò Ninetto Davoli e cominciò a manifestarsi il Pasolini sulfureo. La sera mi caricò sulla sua Bmw e mi portò, come sarebbe accaduto un altro paio di volte, a cena in una bettola di un quartiere periferico, mi pare la Magliana. Ogni tanto si avvicinavano dei ragazzi, le classiche “marchette”, e ci scambiava due chiacchiere. Uno di questi lo avrebbe ucciso. L’intellighentia di sinistra italiana, nella sua ipocrisia, non ha mai accettato che Pasolini fosse morto com’è morto. Come minimo doveva essere stato un complotto dei “fascisti”, fantasticheria cui diede voce per prima la Fallaci che aveva orecchiato qualcosa dal parrucchiere. E invece andò proprio così. “Pino la rana” si ribellò a una richiesta sessuale particolarmente umiliante di Pier Paolo e contando sui suoi diciassette anni, nonostante Pasolini fosse ancora un uomo atletico (giocava a calcio, che gli piaceva moltissimo) lo ha ammazzato. Così come questa intellighenzia non ha mai capito che il fondo oscuro di Pasolini era proprio l’humus necessario al suo essere artista e, soprattutto, un grande, un grandissimo intellettuale.
Non si può trattare qui, in poche righe, l’opera di Pier Paolo Pasolini, mi piace solo ricordarne una frase che scrisse nel 1962 inserita ne “Le belle bandiere”: «Noi ci troviamo alle origini di quella che sarà probabilmente la più brutta epoca della storia dell’uomo: l’epoca dell’alienazione industriale».

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano del 6 novembre 2010)

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