lunedì 7 febbraio 2011

Il re è cotto

Silvio Berlusconi, fatte le debite proporzioni, è nella stessa situazione di Mubarak. Dopo sedici anni di regime personale mascherato da democrazia c’è quasi un intero Paese che non ne può più di lui, di questo energumeno che ha monopolizzato per tre lustri la vita politica, e non solo la vita politica, italiana.
Importanti pezzi della sua coalizione lo hanno abbandonato, prima l’Udc di Casini, poi il “cofondatore” Fini con Futuro e libertà. Anche giornali, Libero, e uomini, Feltri e Belpietro, che lo hanno sempre sostenuto a spada tratta cominciano a prenderne le distanze. Solo tre o quattro anni fa Libero non m’avrebbe mai chiesto di scrivere un articolo, cui è stato dato il posto dell’editoriale, sul tema “Perché sono antiberlusconiano da sempre” (Libero, 29/1). Il ministro dell’Interno Maroni dà chiari segni di insofferenza. La Lega lo sostiene solo perché spera che concluda sul federalismo fiscale (e garantiteglielo voi, sinistre, cretine. È una stronzata? E chi se ne frega, l’importante, al momento, è liberarsi dell’energumeno). Il presidente della Repubblica Napolitano ne sopporta sempre più a fatica le devastanti sortite contro le Istituzioni e la Magistratura (“Bisogna punire i pm”, è solo l’ultima della serie), anche se poi il suo ruolo lo costringe a dichiarazioni generiche tipo “bisogna abbassare i toni” quando c’è uno che urla da mane a sera. L’intera opposizione ne chiede le dimissioni. La Chiesa, che in verità non dovrebbe metter becco ma in Italia conta, è sempre più imbarazzata. Il Cavaliere è inseguito da una serie di processi per reati gravissimi (concussione, corruzione di testimone in giudizio, colossali evasioni fiscali) cui si sottrae cambiando, in corsa, le regole del gioco.
L’uomo è cotto, politicamente, fisicamente, mentalmente, come dicono i dispacci diplomatici riservati degli americani che, dopo averlo sostenuto per anni, come Mubarak, sarebbero ora dispostissimi a mollarlo, come Mubarak, purché il suo sostituto dimostri la consueta fedeltà canina agli Usa e mantenga le nostre inutili truppe in Afghanistan.
Ma, come Mubarak, Berlusconi resiste, asserragliato nel Palazzo, circondato dai suoi giannizzeri. Dopo aver sputato per anni sulle opposizioni adesso “in articulo mortis”, proprio come Mubarak, cerca di blandirle. In alternativa manda in piazza i suoi carri armati, vale a dire i media di cui è proprietario o di cui si è impadronito, costringendo il direttore del Giornale a sparare a salve su Ilda Boccassini perché 28 anni fa ha dato un bacio a un giornalista di Lotta Continua, o un poveraccio, allampanato, dall’aspetto di uno spaventapasseri, a fargli sul Tg1 di Minzolini un’intervista così comicamente servile da risultare inutile se non controproducente anche per il più sprovveduto degli ascoltatori. Anche i carri armati di Berlusconi, come quelli di Mubarak, sembrano avere i cannoni spuntati. Ma lui non se ne va.
In Tunisia sono bastati due giorni di manifestazioni, non armate, ma nient’affatto pacifiche, per cacciare Ben Alì, un dittatore che vi spadroneggiava da ventitré anni. Sarebbe sufficiente una spallata del genere per abbattere Silvio Berlusconi. Ma in Italia non si può. Siamo una democrazia, la violenza, anche minima, è bandita. Basta un cazzotto a Capezzone e siamo già al golpe. Ma qui si pone una domanda. Che difesa ha, in democrazia, il cittadino quando c’è un personaggio che l’ha svuotata di tutti i suoi contenuti e proprio grazie a questo inganno si mantiene al potere?

Meditate, suorine democratiche del Fatto, meditate.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2011)

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