Forse avrà qualche ragione Umberto Bossi, che nella sua deriva neo-dorotea dichiara "oggi è un buon giorno per la maggioranza". Ma una cosa è certa: l'ulteriore compravendita di parlamentari appena conclusa dalla coalizione forzaleghista è una giornata nera per la democrazia. Ce n'erano state già tante altre, in questi mesi nei quali il berlusconismo da combattimento non ci ha risparmiato proprio nulla: dall'attacco contro lo Stato al killeraggio contro gli avversari. Ma ora il quadro si completa con l'accusa di Gianfranco Fini, che per la prima volta denuncia a viso aperto quanto già era evidente nel chiuso dei giochi di Palazzo: la tenuta di questo centrodestra si deve anche e soprattutto al "potere mediatico e finanziario" del presidente del Consiglio.
Fini, com'è evidente, parla prima di tutto da "parte lesa". Il calcio-mercato dei senatori e dei deputati si gioca soprattutto dentro la sua metà campo, già terremotata dalle lotte intestine esplose al congresso di Milano di domenica scorsa. Una battaglia di retroguardia che ha il sapore amaro della peggiore Prima Repubblica, e che restituisce al Paese un'immagine penosa: un progetto politico che aveva idee e ragioni per alzarsi in piedi e ribellarsi alla corte muta o plaudente del Cavaliere, ma che non ha ancora gambe e muscoli per correre e affrancarsi dalla signoria berlusconiana. Un disegno "alto", che insegue il traguardo di un "altro" centrodestra compiutamente europeo, cioè costituzionale, repubblicano, laico, immiserito e alla fine compromesso dalla solita, indecente guerra tra i colonnelli. Futuro e Libertà, in queste ore, ricorda il profilo scisso dell'uomo di Ferdinando Pessoa: un pozzo che guarda il cielo.
Nelle parole aspre di Fini, e quindi nel suo duro attacco al premier, risuona dunque anche l'eco di questa amarezza e di questa debolezza. Ma Fini è anche presidente della Camera. E il fatto che la terza carica dello Stato denunci con tanta durezza il vergognoso suk degli onorevoli messo in piedi dal capo del governo è anche e soprattutto un clamoroso scandalo della democrazia. L'istituzione che presiede uno dei due rami del Parlamento sta dicendo esplicitamente al Paese che il presidente del Consiglio "allarga" la sua maggioranza non solo grazie alla "moral suasion", cioè alla promessa di qualche strapuntino richiesto nel sottogoverno o alla minaccia di qualche giro non richiesto sulla macchina del fango. Ma anche grazie alla "money suasion", cioè alla forza della sua immensa ricchezza economica.
Sappiamo bene che un'accusa del genere, anche o forse proprio perché promana da un'istituzione della Repubblica, dovrebbe essere maneggiata con tutta la cura e la prudenza del caso. Sappiamo bene che non può essere gettata in pasto agli italiani senza un riscontro oggettivo: per sostenerla occorrono prove tangibili, e chi le possiede ha il dovere civile di inoltrarle alla Procura di competenza, prima ancora che di pubblicarle sul "Secolo d'Italia". Ma il fatto stesso che la si evochi dimostra la gravità del momento. In questi ultimi mesi fior di parlamentari "in transito", in interviste su giornali radio e televisioni, hanno parlato di promesse di soldi e di mutui da pagare, in cambio di eventuali transumanze dall'opposizione. Massimo Calearo, poi effettivamente "transitato" nel gruppo delle anime perse dei cosiddetti Responsabili (che sarebbe più proprio definire Disponibili) si è spinto addirittura a render noto il "tariffario". E "Repubblica", solo due mesi fa, ha a sua volta pubblicato copia del doppio "contratto" che a inizio legislatura fu offerto e fatto firmare a due leghisti all'epoca indecisi, ai quali si proponeva (in caso di mancata elezione) un "co. co. pro" della durata dell'intera legislatura, pagato con un compenso pari allo stipendio di un parlamentare.
Nulla è stato mai smentito. Né le interviste, né i contratti. Ce n'è abbastanza per parlare di uno scandalo politico, che evidentemente si sta perpetuando. Fini ha fatto bene a rompere il silenzio, riaffondando il bisturi nella ferita, mortale e mai sanata, del gigantesco conflitto di interessi berlusconiano. Ma all'ex co-fondatore del Pdl, una cosa si può e si deve dire. Avrebbe fatto ancora meglio se questa denuncia l'avesse lanciata non già nella posizione "terza" e super partes di presidente della Camera, ma in quella libera e legittima di leader del suo partito nascente. Se si fosse dimesso dal suo incarico istituzionale, e avesse accettato il suggerimento che questo giornale gli aveva dato fin dalla scorsa estate, quando i "guastatori" del Cavaliere gli scatenarono contro la campagna violenta sulla casa di Montecarlo, oggi il "j'accuse" di Fini avrebbe ben altra valenza politica, e ben'altra rilevanza mediatica. Non l'ha fatto. E ora, suo malgrado e certamente su tutt'altro piano, finisce per esser parte anche lui di questa brutta pagina della democrazia.
Massimo Giannini (La Repubblica - 18 febbraio 2011)
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