martedì 8 marzo 2011

Conseguenze

Ho esposto un percorso, cercherò di esporre alcune riflessioni che ne sono derivate, un po' "allo stato degli atti", e cioè tenendo conto che si è sempre in viaggio: si fanno dei passi avanti, si può tornare indietro, non si riesce sempre a comprendere tutto e forse non si arriva mai alla fine. Cerco quindi di comunicare lo stato dei miei pensieri, ponendo soprattutto una serie di interrogativi, per quanto possibile sistematizzati.
Volendo parlare di regole, credo che un punto di partenza sia quello di cercare di riflettere sull'uomo e quindi su ciascuno di noi, perché qualche volta succede di spersonalizzare a tal punto che i concetti diventano vuoti.
Per esempio, quando si parla di mafia, è importante riempire il termine: di persone, di coloro che della mafia fanno parte, di coloro che hanno una lunghezza d'onda cerebrale che consente di farvi parte o che, quantomeno, consente di essere indifferenti ai comportamenti mafiosi. Partire dall'uomo.
È opportuno chiedersi come mai i poteri criminali hanno tanta forza mentre il potere legittimo, quello che almeno sulla carta è scelto da tutti, insieme, è così debole, anche nei confronti dei poteri criminali. La risposta a questo interrogativo coinvolge l'esistenza di convinzioni. I poteri criminali sono forti perché alla fine, sotto sotto, godono di un consenso notevolmente maggiore di quanto potrebbe apparire. Coloro che partecipano, ma anche coloro che rimangono indifferenti, in qualche misura ammettono, giustificano, danno legittimazione.
Perché danno legittimazione ai poteri criminali piuttosto che al potere che deriva dall'accordo, dal cosiddetto patto sociale? Propongo una possibile chiave di lettura. Credo si tratti soprattutto di modelli culturali, e cioè di proposte di soluzione dei propri problemi contingenti, del proprio modo di essere e di esistere su questa terra, di essere uomo, in una parola di proposte di vita.
Se si cerca di valutare le differenze tra il sistema di regole che si è costruito legittimamente e il sistema delle regole che comunque esistono anche nelle società criminali, si scopre che spesso queste ultime sono più rigorose, più severe, più applicate. Nella mafia, per esempio, esiste la pena di morte, e la sentenza sarà comunque eseguita, anche a distanza di anni: è ineluttabile.
Personalmente, sono stato convinto per molto tempo che ciò che trascinava verso il potere criminale fosse rappresentato dall'insofferenza verso le regole, dalla voglia di trasgressione. Non credo più che sia così. Ciò che attrae è altro si identifica nella finalità per raggiungere la quale le regole vengono introdotte. è a causa del fine proposto che le regole delle società criminali vengono volontariamente e liberamente accettate, comunque non contrastate. La questione è lì. L'adesione alle regole dipende da quel che viene proposto come risultato della loro osservanza.
Quanto viene proposto in una società criminale è l'ottenimento di privilegi.
La differenza tra società basate sul patto secondo il quale tutti coloro che vi partecipano possono godere degli stessi diritti in cambio della sottomissione alle stesse limitazioni e società che operano attraverso sistemi criminali consiste in questo: le prime tendono all'uguaglianza, le seconde al privilegio, nei rapporti interni dei capi rispetto ai gregari, nei rapporti esterni degli aderenti rispetto agli estranei, a tutti coloro che di quella società non fanno parte. Le prime dunque tendono all'armonia, le seconde al conflitto.
Si può togliere consenso alle seconde e darlo alle prime? Credo si tratti soprattutto di proporre modelli culturali accettabili, più accettabili di quelli proposti dalle società criminali. Ciò non è facile in una società come la nostra, nella quale pare prevalere nettamente il principio dell'affermazione dell'individuo a tutti i costi, e quindi a discapito di chiunque e di qualunque altro principio confliggente.
Nella società attuale, infatti, il dogma dell'assoluta espansione individuale a discapito degli altri è talmente radicato che persino le parole hanno assunto significati equivoci, o pluralità di significati talora incompatibili tra loro, e quando si perde il significato delle parole è ovviamente più difficile comprendersi, e diventa quasi impossibile comunicare. Al termine libertà, per esempio, si attribuisce frequentemente il contenuto proprio del termine arbitrio.
Ciò nonostante, vale comunque la pena di approfondire il discorso.
Nell'ambito delle moderne democrazie (nei regimi totalitari o dittatoriali la questione è diversa) forse non esiste altro paese come l'Italia in cui lo stesso concetto di regola richiami quello di sofferenza così marcatamente. La regola quasi per tutti, rappresenta un limite e basta, qualche cosa che toglie qualcos'altro, soprattutto quando essa non tende a riconoscere privilegi a discapito degli altri. Le regole di un'associazione criminale, per quanto pesanti, obbligatorie spietate, sono accettate perché consentono di prevaricare e di porsi in una situazione di dominio sugli altri, su coloro che a tale associazione non partecipano. Consentono, quelle regole, di taglieggiare, di appropriarsi dei beni altrui, di vendicarsi di torti veri o pretesi, di ammazzare. Certo, anche quelle regole richiamano la sofferenza, ma si tratta di una sofferenza molto ben retribuita, e quindi assai più sopportabile rispetto alla "sofferenza e basta" che pare essere il contenuto della regola della società civile.
Ma è proprio così? Le regole dirette all'uguaglianza e non al privilegio non danno proprio nulla in cambio? Che sarebbe come dire: sono utili soltanto le regole che introducono privilegi? L'affetto o l'insofferenza nei confronti della legalità dipendono - a mio parere quasi esclusivamente - dalla risposta che si dà a questa domanda.
Pur limitandosi a discorsi schematici, bisogna partire da lontano, mettendo in conto per di più il rischio che alcuni passaggi possano risultare, per qualcuno, ovvi o addirittura banali.
Essendo gli uomini molto imperfetti, e quindi assai limitati, hanno molti bisogni.
Le principali necessità fisiche sono evidenti. L'uomo deve sfamarsi (e quindi ha bisogno di cibo), dissetarsi (ha bisogno di acqua), ritemprarsi (ha bisogno di sonno).
È esposto agli attacchi delle intemperie, deve coprirsi per vincere il freddo, difendersi dai raggi del sole, ripararsi dal vento e dalla pioggia. Può ammalarsi.
Non sa muoversi rapidamente né volare; la sua voce e il suo udito sono deboli, e può comunicare soltanto da vicino; ha bisogno di luce, e di una buona vista.
È molto difficile rendersi conto di tutti questi limiti, e del fatto che ci sono bisogni che non possono essere soddisfatti. Ma soltanto ammettendoli si entra nella propria dimensione umana. Se ci si paragona a qualcosa che uomo non è, per esempio un essere immortale, capace di volare, di leggere nel pensiero, di essere contemporaneamente in più posti, ci si identifica in qualche cosa che non si è. Non c'è nulla di più inutile e dannoso dell'identificarsi in qualche cosa che, come uomini, non si può essere. Anche il progresso, la realizzazione di ciò che soltanto poco tempo prima sa-rebbe stata considerata un'utopia, parte dall'esatta percezione di sé. Peraltro, è danno-so anche considerare intollerabile la stessa esistenza del limite.
Ciò vale anche per il fatto di dover morire. L'angoscia esistenziale deriva dall'essere estremamente precari e sicuramente a termine: non è negando di essere mortali che quell'angoscia può essere superata.
Oltre a questi bisogni fondamentali l'uomo ha, anche fisicamente, esigenze di affetto. Dipende dalla madre e dal padre nei primi mesi di vita, non soltanto perché lo accudiscano, ma anche perché gli comunichino appunto l'affetto, del quale si nutre quasi come del cibo. Crescendo, il bisogno d'affetto non scompare ma è un elemento decisivo nel determinare le scelte, e quindi i comportamenti, dell'uomo: affetto verso un partner, verso gli eventuali figli, verso gli amici e i conoscenti.
Il bisogno, peraltro, non si esaurisce nelle esigenze d'affetto, perché vanno soddisfatte anche le esigenze connesse alle nostre parti invisibili, all'anima o all'energia di cui siamo dotati, a seconda dei punti di vista.
Alcuni di questi bisogni possono essere soddisfatti esclusivamente vivendo con altri; alcuni si soddisfano meglio se si sta con gli altri; alcuni non possono essere completamente soddisfatti, ma insieme agli altri sono meno gravosi o meno intrinseci. L'uomo si è dato un linguaggio con il quale comunicare e attraverso la divisione del lavoro è riuscito a progredire come altrimenti non avrebbe potuto fare, dotandosi di mezzi e strumenti per muoversi più rapidamente, comunicare a distanza, curare molte malattie, e così via. Stare con gli altri, e cioè vivere insieme, è dunque per l'uomo, nella stragrande maggioranza dei casi, positivo: lo aiuta a vivere meglio. La società, quindi, è un valore per l'uomo.
O meglio, la società è un valore a certe condizioni Dovendo servire l'uomo, è un valore soltanto se raggiunge questo scopo; ed è un valore soltanto se rispetta l'essenza di ciascuno degli uomini in funzione del cui soddisfacimento è creata. Insomma, la società ha una valenza positiva in quanto è in grado di soddisfare le esigenze di coloro che ne fanno parte senza, per questo, umiliare qualcuno di loro.
Il concetto di società è indivisibile dal concetto di regola. Qualsiasi tipo di associazione presuppone delle convenzioni perché altrimenti non potrebbe esistere. Talora le convenzioni, le regole, sono talmente radicate, e talmente ovvie, che si è persa la percezione della loro esistenza. Per esempio, normalmente sfugge che quando due persone si danno appuntamento, il fatto di incontrarsi dipende dall'osservanza di almeno due regole: quella relativa alla misurazione del tempo in giorni e ore, e quella dell'affidabilità delle parole pronunciate.
Quanto si è detto per la società vale per le regole. Le regole in sé sono neutre, e la loro valenza dipende dal contenuto. Le regole che governano le società criminali hanno valenza negativa non per ragioni morali, etiche o di principio, ma perché non soddisfano le esigenze dell'uomo, ma le esigenze di alcuni uomini a scapito di tutti gli altri.
Le regole, dunque, hanno valenza positiva quando organizzano la società in modo che questa possa servire l'uomo e cioè il complesso degli uomini, ovvero ciascuno degli uomini che vi fanno parte, senza che alcuno sia sacrificato alle esigenze degli altri. Anche qui, non per motivi etici, morali o di principio, ma perché risponde alla funzione della società che le regole abbiano tali contenuti.
Credo che di ciò possano essere dati spunti di dimostrazione.
Se la società è un valore, è positivo quanto tende a conservarla e a consolidarla, ed è negativo quanto tende a disgregarla. L'impostazione del rapporto sociale sul privilegio è elemento di disgregazione, perché ha come presupposto e come risultato la creazione di conflitti. E i conflitti comportano emarginazione e spirito di rivincita. L'emarginazione ha come conseguenza l'inutilizzabilità delle capacità di coloro che vengono messi da parte; lo spirito di rivincita ha come conseguenza l'instabilità e la violenza.
Storicamente, credo si possa affermare che le aggregazioni sociali basate sul privilegio abbiano alimentato da sé la propria disgregazione. Certo, regimi dittatoriali, stati assoluti o organizzazioni di casta, ordinamenti che dividevano le persone tra liberi e schiavi hanno anche avuto vita lunga, ma paradossalmente il loro progredire, l'avvicinarsi allo scopo sociale è stato proprio il motivo della loro fine.
Dal punto di vista evolutivo, il cammino dell'uomo è coinciso - pur tra mille contraddizioni, ripensamenti, arretramenti - con un progressivo ampliamento di confini. Si è transitati, passo dopo passo, dal considerare nemico chiunque non facesse parte del proprio gruppo, della propria tribù, al riconoscere, almeno formalmente, un'appartenenza comune a tutti gli uomini, quella appunto al genere umano. Ciò è dipeso, a mio parere, anche dalla continua modificazione del rapporto tra le diverse parti che convivono dentro di noi: via via che la parte che caratterizza l'uomo rispetto a tutti gli altri viventi (essere razionale e ragionevole, avere memoria, avere capacità di progettazione) è andata rinsaldandosi e prevalendo, senza soffocarla, sulla parte che l'uomo ha in comune con gli altri (l'istinto, le paure ancestrali), si è contemporaneamente allargato il senso della comune appartenenza.
Nel quadro delineato è possibile interpretare rapporti sociali e rapporti interpersonali in modo dinamico. Mentre il principio di supremazia porta a una concezione statica (è possibile che cambi la supremazia, ma il rapporto è sempre quello, c'è chi sta sopra e può e comanda, c'è chi sta sotto e non può e ubbidisce), il riconoscimento di appartenenza allo stesso genere porta a una concezione dinamica, perché la supremazia, quando c'è, è occasionale e reversibile. Con macroscopiche conseguenze non solo concettuali. Solidarietà, per esempio, cessa di essere sinonimo di carità e riacquista il significato di collante del tessuto sociale, disponibilità nei confronti di chi si
trovi in momenti difficili non come sottolineatura della differenza esistente, ma come riconoscimento dell'appartenenza alla stessa comunità, e quindi della reciprocità del comportamento anche a parti invertite.
L'Assemblea costituente, nel ridisegnare il quadro di riferimento dell'ordinamento giuridico italiano appena usciti dal modello autoritario fascista, vi ha posto a base un principio, ovvero una constatazione, che coincide assolutamente con il concetto di società armonica. Se si analizza la Costituzione, ci si accorge che una sola regola è causa e giustificazione di tutte le altre, quella che sancisce l'uguaglianza tra tutti i cittadini. Riconoscere l'uguaglianza vuole dire optare per una società al servi-zio dell'uomo alla quale è vietato, per il perseguimento del fine di servire l'uomo, contraddire i diritti fondamentali di ogni singolo uomo che compone la società. Tutte le altre regole, che non si risolvano in una semplice affermazione di principio (tipo la norma sulla bandiera), sono strumento di realizzazione dell'uguaglianza, e quindi della società a valenza positiva. Così la tutela del lavoro, dello studio e della salute sono strumentali all'uguaglianza perché soltanto se sono garantiti lavoro, istruzione e salute si può essere uguali.
Lo stesso vale per le norme che appaiono limitative. Quando si afferma, per esempio, che l'iniziativa economica privata non può contrastare con l'utilità sociale e non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, si applica il principio di uguaglianza (e quindi di rispetto del singolo) alle materie di cui la Costituzione si occupa concretamente in quel punto, perché si stabilisce che nessuna iniziativa può entrare in conflitto con la promozione, o la possibilità di vita, di ciascuno dei componenti la società. Apparentemente limitative, dicevo, perché il limite appare o scompare a seconda del punto di osservazione. Per intendersi: dato per scontato che l'uomo ha bisogno di preservare aria, acqua, la natura che lo circonda, perché dovendo respirare, bere, mangiare, ritemprarsi, l'aria, l'acqua e la natura sono per lui un bene, costituisce un limite impedire che tali beni siano compromessi, o non è invece una prevaricazione (e in questo caso sì un limite per tutti coloro che devono sopportarla) consentirne la compromissione?
Lo stesso vale anche per le norme procedurali, quelle che fissano la strada attraverso la quale formare le leggi, individuare chi le può formare, individuare chi governa, stabilire come deve essere amministrata la giustizia e così via. Perché se queste ultime norme consentissero fratture nella cittadinanza, e quindi riconoscessero maggiori o minori poteri ad alcuni rispetto agli altri, nella formazione e nella gestione delle regole, l'uguaglianza verrebbe irrimediabilmente infranta nella sua concretezza. Certo, non è detto che le regole di procedura inserite nella Costituzione siano le uniche possibili, che siano immodificabili. Qualunque modifica però, stravolgerebbe il senso della carta fondamentale dello stato se trascurasse di realizzare, anche in tale campo, l'uguaglianza.
Poiché il sistema costituzionale italiano è rigido e gerarchico, e le leggi ordinarie e tutti i provvedimenti normativi non possono entrare in conflitto con la Costituzione, pena la loro esclusione dall'ordinamento, ne consegue che qualsiasi legge,
qualsiasi norma deve essere indirizzata all'attuazione dell'uguaglianza: il complessivo sistema giuridico italiano coincide dunque con il concetto di società armonica al quale ho fatto riferimento. Almeno formalmente, perché spesso il legislatore non è stato capace, o non ha voluto tradurre nel prodotto della sua attività il principio fondamentale su cui si basa lo stare insieme degli italiani.
Qualcuno intende l'uguaglianza come sinonimo di piattezza, e la interpreta così radicalmente da escluderne la compatibilità con qualsiasi differenza. L'uguaglianza viene così a coincidere con l'oggettività, e in tale impostazione la soggettività assume una valenza negativa. Ora, se una certa dose di oggettività è indispensabile (è necessario per esempio, un linguaggio comune per potersi intendere), il riconoscimento dell'uguaglianza non consiste nel tendere a essere fotocopie uno dell'altro. Riconoscimento dell'uguaglianza e possibilità di essere diversi non contrastano, e anzi l'essere diversi è fondamentale per crescere ed emanciparsi. Tra le possibili diversità vi è anche l'essere "speciali": chi corre più di tutti è speciale rispetto a quelli che vanno più lenti di lui. La linea che divide specialità e privilegio è qualche volta molto evanescente, ed educare se stessi alla ricerca della misura nello stare con gli altri (e prima ancora con se stessi) passa soprattutto attraverso il confrontarsi con tale demarcazione, cercando di coniugare l'uguaglianza con il fatto obiettivo che siamo diversi e abbiamo capacità diverse. Insomma, non è utile radicalizzare il significato delle parole, tenendo conto che il rapporto uguaglianza-diversità costituisce uno dei problemi più rilevanti quanto alla pratica dei propri principi di riferimento. I quali pure possono non essere per tutti gli stessi, purché si convenga su alcuni canoni fondamentali, che in ultima analisi possono essere ricondotti a uno, quello di riconoscersi tutti come facenti parte della stessa specie.
Perché la società serva l'uomo, diversità e specialità non devono generare sperequazioni. Per intendersi, chi corre più veloce non dovrebbe per questo avere maggior diritto alla salute di chi corre più lento. Contemporaneamente, chi corre più veloce dovrebbe avere tante possibilità di farlo quante possibilità ha di dedicarsi alla sua specialità chi eccelle in altri settori (sempre dando per scontata l'intangibilità del rispetto e delle opportunità degli altri).
Se le regole di una società armonica servono all'uomo, danno una risposta positiva alle sue domande esistenziali gli consentono di emanciparsi e di vivere meglio, non si capisce il perché dell'insofferenza nei loro confronti, tanto più se si considera la loro relativa leggerezza rispetto a quelle assai più cogenti che caratterizzano una società criminale o il che fa lo stesso - dittatoriale. Ciò è tanto più incomprensibile quanto più si pone a confronto il trattamento riservato alle regole rispetto a quello rivolto a qualsiasi altro strumento destinato a soddisfare esigenze e bisogni dell'uomo. Il cibo, per esempio, soddisfa il bisogno di sfamarsi tanto quanto la regola soddisfa il bisogno di socialità: ebbene, salvo casi assolutamente eccezionali (che vengono spesso considerati devianti, e quindi riprovati), il cibo gode della massima considerazione tra gli uomini, prepararlo è sovente considerata un'arte, e ci si ingegna a scoprire tipi di cottura, condimenti e quant'altro possa esaltare il rapporto che ogni giorno si instaura con lui. In sintesi, il cibo è bene. Lo stesso vale anche per strumenti con i quali il rapporto è frequentemente doloroso, come la medicina. La medicina è bene.
Per la regola la valutazione è spesso opposta, la regola di una società armonica è male. Ed è male nonostante che, a ben pensarci, sia lo strumento più malleabile da parte dell'uomo, quello sul quale l'uomo può intervenire con maggiore libertà, perché fame, sete, salute e via dicendo sono da soddisfare attraverso modalità più rigide rispetto alla socialità.
È un'osservazione ovvia rilevare che il soddisfacimento delle esigenze del mangiare, del bere, del dormire e del curarsi non necessita generalmente sanzioni. Non è necessaria sanzione perché esiste una convinzione generalizzata secondo cui sfamarsi è bene, dissetarsi è bene, ritemprarsi è bene e così via. Ed è altrettanto ovvio che non necessiterebbero sanzioni per ottenere il rispetto delle regole se le stesse fossero ritenute un bene. Certo, non sarebbe esattamente la stessa cosa: i rapporti sociali sono più complessi dei rapporti con le gli altri strumenti che servono a soddisfare le esigenze fondamentali dell'uomo; le trasgressioni alle regole non hanno sempre conseguenze ineluttabili e immediatamente visibili; la modificabilità delle regole presuppone la loro valutazione, anche negativa, e tutto ciò favorisce la devianza. Una certa dose di costrizione sarebbe pertanto necessaria, contrariamente a quanto si verifica riguardo al cibo, alle bevande, al sonno e così via. Ma le differenze sarebbero marginali, perché la stragrande maggioranza delle persone seguirebbe le regole in quanto convinta che sia utile farlo, e la costrizione, l'imposizione, verrebbero esercitate soltanto nei confronti di minime frange di devianti.
Il problema è dunque quello di recuperare la convinzione dell'osservanza delle regole che disciplinano una società armonica. Recuperare il senso dell'utilità delle regole, al punto che il loro uso, così come avviene per qualsiasi altro strumento che soddisfa i bisogni dell'uomo, sia legato più alla gioiosità che alla sofferenza, più alla serenità che alla cupezza.
Come in tutte le cose, per capire come raggiungere io scopo occorre analizzare le cause della situazione attuale. Perché si è perso il senso di utilità delle regole?
Una chiave di interpretazione fa esclusivo riferimento al singolo. Poiché il singolo è assolutamente libero di crearsi le proprie convinzioni, le sue convinzioni personali dipendono esclusivamente da lui. Se le convinzioni sono erronee e contraddittorie, il singolo non può che lamentarsi con se stesso per la propria superficialità, per la scarsità dell'approfondimento, per la sua indisponibilità, insomma, a verificare la coerenza delle proprie convinzioni con il proprio interesse. Si dia pertanto da fare, si analizzi, veda quali sono le sue reali esigenze (ma quelle vere, non quelle apparenti) e si comporti di conseguenza, convinto che quello che fa serve a quello che vuole. Insomma, se l'uomo ha perso il senso di utilità delle regole è perché non ha svolto la sua funzione nei confronti di se stesso, e ha lasciato che altre convinzioni prevalessero. In questa chiave, la regola ha assunto valenza negativa per miopia.
L'interpretazione che ho ora esposto è alimentata dagli atteggiamenti di chi, nel corso di convegni, incontri e dibattiti, è propenso ad addossare completamente la colpa dell'attuale stato delle cose su coloro che gestiscono la cosa pubblica, sui potenti, su chi ha corrotto e si è lasciato corrompere. Costoro si sentono vittime della malvagità altrui, ma il loro atteggiamento è quello dello spettatore impotente, che non partecipa al gioco, che non ha strumenti per incidere, per far pesare il suo punto di vista, per comunicare ad altri (compresi i malvagi potenti) le proprie convinzioni e convincere a sua volta chi gli sta intorno. Un atteggiamento del genere il più delle volte è in contraddizione con la realtà ed è comunque soltanto distruttivo e assolutamente pessimista.
È in contraddizione con la realtà perché qui, in Italia, viviamo in uno stato di diritto, in cui il cittadino, non solo indirettamente, ha la possibilità di partecipare alla gestione della società; perché la cosa pubblica, le istituzioni non sono figure astratte e impersonali, ma sedi riempite da componenti della cittadinanza, che esprimono mediamente quel che la cittadinanza è nel suo complesso; perché non esiste, e non può esistere in nessun luogo che una società di osservanti delle regole esprima come propria dirigenza dei devianti, non avrebbe nemmeno un bacino entro il quale sceglierli, e comunque questi, anziché promossi, verrebbero emarginati e riprovati.
È distruttivo perché comporta un chiamarsi fuori: sono gli altri che possono fare, tutto passa sulla mia testa, io non ho responsabilità. La linea di demarcazione che divide la società dell'armonia e la società del privilegio, benché precisa, può essere facilmente scavalcata: basta non partecipare non assumersi le proprie responsabilità perché si passi, senza bisogno di prevaricazioni e violenze, dalla prima alla seconda.
È pessimista perché non concede alcuna fiducia alla persona.
Ma c'è anche dell'altro. I convincimenti si formano attraverso la sperimentazione e l'emulazione. Si prova a mantenere un comportamento e si constatano le conse-guenze; si osserva il comportamento degli altri e si vede cosa ne segue. Le parole, i discorsi, le affermazioni di principio hanno senso quando sono coerenti con quanto si desume dai fatti, altrimenti, per quanto logiche e consequenziali, rimangono vuote o sono addirittura mistificanti: a lungo andare sono inutili, quando non persino dannose. Ebbene, credo che coloro che si sono genuinamente affidati al ragionamento e alla logica e sono giunti a valutare positivamente la legalità sono stati frequentemente delusi e si sono trovati spesso spiazzati. Hanno constatato che il più delle volte l'osservanza della legge non ha prodotto utilità, e che talora è stata causa di danno.
Ci troviamo, infatti, in Italia, in una situazione singolare. Esistono due mondi e due ordinamenti. L'ordinamento disegnato dalla Costituzione appartiene talora al mondo dell'apparenza. Certo, sulla carta il principio di uguaglianza è il cardine, la pietra angolare del sistema, ma il più delle volte soltanto sulla carta. Perché per qualcuno le regole sono diverse. Non per tutti, solo per chi può e vuole, anche soltanto occasionalmente. Non palesemente, perché in linea di principio l'ordinamento è quello ufficiale, ma solo per chi non può, o non vuole, nemmeno occasionalmente. Faccio soltanto tre esempi, in tema di corruzione: se vuoi vincere un appalto la regola espressa è che devi essere il più competitivo, sia sotto il profilo della professionalità che sotto quello dei costi; la regola occulta è "paga il funzionario o il politico e avrai l'appalto"; se hai una controversia civile, la regola espressa per ottenere il miglior ri-sultato è quella di affidarsi a professionisti preparati, mettendo nel conto che la causa si può anche perdere, la regola occulta è "paga il giudice, paga i periti, paga i testimoni e la causa la vincerai anche se hai torto"; se vuoi evitare una contravvenzione stradale, la regola espressa è quella di non infrangere le disposizioni sulla circolazione, la regola occulta è "infilati qualche banconota nella patente, chi ti controllerà farà finta di niente". Certo, non è sempre così, esistono tanti funzionari onesti, tanti giudici onesti, tanti agenti della stradale onesti. Ma troppe volte è così, al punto che le infrazioni alla regola espressa sono diventate, soprattutto in certi ambienti, a loro volta "regola".
Non deve generare equivoci il fatto che ho tratto gli esempi dal fenomeno della corruzione. La doppiezza dell'ordinamento esiste in molti altri aspetti della vita sociale nei quali frequentemente l'occultamento delle regole reali è assai più marcato. Ne è stato un esempio la loggia P2, con la doppia obbedienza degli iscritti: da una parte al partito o all'istituzione di appartenenza, dall'altra al giuramento prestato a un'associazione segreta. Ci si deve chiedere perché nella stragrande maggioranza dei casi, o forse sempre, i funzionari dei servizi segreti che hanno depistato le indagini sulle stragi sono risultati iscritti alla loggia P2.
Se l'analisi è esatta, l'insofferenza verso le regole dipende molto, in Italia, dalla cultura. Nel senso che negli ultimi anni si è imposta una cultura del privilegio da ottenersi attraverso la violenza (come nel caso della mafia) o attraverso il sotterfugio e l'imbroglio. Una cultura che si autoalimenta perché è spesso pagante: dà risultati. Per la verità più apparenti che reali, perché il debito pubblico è impressionante, gli ospedali non funzionano, bisogna monitorare l'aria per vedere se la si può respirare, l'acqua è in molti luoghi imbevibile, le alluvioni sono diventate una costante, e molte opere pubbliche (strade, scuole, piscine, stadi, teatri e così via) rimangono perennemente incompiute. E non solo si rompe la fiducia nelle istituzioni, ma viene meno l'affidabilità tra cittadini, svanisce la solidarietà, il tessuto che tiene insieme una so-cietà. Aumenta impressionantemente la criminalità, perché rubare, ferire, ammazzare costituiscono una scorciatoia per il raggiungimento di quel fine, il privilegio, che è indicato dalle regole reali come il più importante scopo di chi fa parte della società.
Cambiare cultura richiede tempo, e non lo si può fare soltanto con le parole. è necessario che l'esperienza propria e l'emulazione degli altri portino a risultati diversi da quelli attuali. In altre parole che si ricomponga la duplicità delle regole e che quelle reali coincidano con quelle apparenti. è questa la cosa più difficile, perché non credo esista una grande disponibilità ad abbandonare la prassi dell'utilizzazione di sedi separate per la gestione del potere, e quindi per rapportarsi con le istituzioni. Esiste forse volontà di smetterla con la corruzione (non da parte di tutti), ma come rifiuto di uno strumento e non di un sistema.
Negli ultimissimi anni la cittadinanza ha puntato molto sulla magistratura perché venga composta la divaricazione di cui si parla. L'interesse, la solidarietà rivolti all'indagine Mani Pulite dimostrano come il sistema di regole basato sul privilegio sia da molti più sopportato che voluto (insomma ci si comporta così perché è indispensabile se si vuole ottenere un risultato, ma se si potesse fare altrimenti sarebbe meglio). Il consenso verso l'applicazione delle norme penali costituisce esso stesso un inizio di recupero della legalità, ma la strada principale per cambiare non è quella giudiziaria.
I magistrati danno istituzionalmente risposte violente. La repressione consiste esattamente nel collegare una sanzione, che rappresenta comunque una violenza, alle trasgressioni, alle violazioni della legge. Si tratta di risposte che intervengono tutte le volte in cui la convinzione non è stata sufficiente a determinare comportamenti conformi alle regole. L'apparato repressivo entra in gioco, cioè, quando una persona o un insieme di persone, un ambiente, uno strato sociale perdono la convinzione di seguire le regole e vi entrano in conflitto.
Con la violenza si impongono comportamenti, non si creano convinzioni. Anche la repressione è indispensabile ma svolge efficacemente il suo ruolo quando è diretta nei confronti di frange di irriducibili, o di incerti, in una società in cui la stragrande maggioranza dei suoi membri rispetta le regole perché è convinto della loro utilità. In tale situazione serve a reintegrare, a ricomporre le fratture al patto sociale, e contemporaneamente dimostra l'ineluttabilità dell'applicazione della regola e quindi della sanzione alla sua violazione, rendendo reale e credibile l'ordinamento. Ma il presupposto è che le regole siano generalmente condivise. In caso contrario le alternative possibili sono soltanto due: o si cambiano le regole, o si modificano le convinzioni.
Se la società deve servire l'uomo, le sue regole devono essere semplici, comprensibili e non vessatorie. Non credo che la complessità delle società moderne richieda un sistema di regole complicato, anzi. Un sistema legislativo complicato e farraginoso ha in sé la causa della impossibilità di essere compiutamente applicato. In più, la difficoltà di interpretazione delle norme espande a dismisura la discrezionalità dell'interprete ufficiale, con grande esposizione al rischio di indurre nella tentazione di vendere a chi la paga un'interpretazione di comodo.
Se la società deve servire l'uomo, ha rilievo centrale la sostanza, e la forma dev'essere funzionale alla sostanza. La complessità, e la contraddittorietà dell'ordinamento dipendono anche da una spiccata tendenza al bizantinismo, che porta a prevedere forme svincolate dalla sostanza che dovrebbero garantire.
Se la società deve servire l'uomo, gli uomini che impersonano le istituzioni non possono servire se stessi, o una parte soltanto della società. Chi l'ha fatto in passato si è reso incompatibile, non per ragioni morali, etiche o di principio, ma perché si è dimostrato dannoso, e continuerà a essere dannoso.
Soprattutto, se la società deve servire l'uomo, la constatazione d'uguaglianza, principio ispiratore della Costituzione, deve diventare per davvero il cardine dell'ordinamento, la base delle leggi e delle prassi.
Tutto questo va fatto da quegli uomini che occupano i posti di comando e di organizzazione della società.
Gli altri, i cittadini "privati", prendano fiducia in se stessi e nell'ambiente in cui vivono. E tengano a mente che nessun cambiamento può avvenire se non sono loro a volerlo e a praticarlo.
Si dirà che tutto ciò costituisce un costo, perché implica coerenza, partecipazione, iniziativa. E comporta un continuo confronto con se stessi, e la fatica del conoscere e dello scegliere. Più che un costo - secondo il mio punto di vista - si tratta di un impegno. Il raggiungimento di qualsiasi obiettivo comporta un impegno, sicché si torna al punto di partenza: si tratta di identificare i propri obiettivi, di vedere quello che si vuole. Se lo scopo è quello di essere utili a noi stessi, l'impegno non rappresenta un costo, ma diventa esso stesso ragione di vita.

Gherardo Colombo (Il vizio della memoria - 1996 - Feltrinelli)

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