Tre giorni fa è stato assassinato a Islamabad il ministro per le Minoranze religiose Shabbazz Bhatti. Non è che l’ultimo di una serie di attentati, di matrice talebano-pachistana, che da qualche anno insanguinano il Pakistan. Gli americani inseguendo un pericolo immaginario sono riusciti a creane uno reale. Peraltro questa è una costante della loro politica estera dell’ultimo quarto di secolo. Il talebanismo non è nato in Afghanistan, ma in Pakistan ad opera di Fazlur Rehman leader di un partito fondamentalista Jamat-e-Ulema Islam che reclutava i suoi sostenitori fra gli studenti delle madras (talib vuol dire studente). Ma era un movimento pacifico, tanto è vero che sosteneva il governo di Benazir Bhutto. Diventerà armato in Afghanistan per combattere i “signori della guerra”, i leggendari comandanti che avevano sconfitto il colosso sovietico, Massud, Ismail Khan, Heckmatyar, Dostum, ma che, impegnati in una feroce lotta per il potere, si erano trasformati insieme ai loro sottoposti in bande di taglieggiatori, di stupratori, di assassini, che agivano nel più pieno arbitrio vessando in ogni modo la popolazione. Il Mullah Omar e i suoi giovanissimi “guerrieri di Allah”, con l’appoggio della popolazione che non ne poteva più, in soli due anni sconfiggeranno i “signori della guerra”, li cacceranno oltreconfine e prenderanno il potere.
Dopo l’11 settembre gli americani invadono l’Afghanistan col pretesto di prendere Bin Laden. Per la verità Osama i talebani se lo erano trovati in casa, c’era prima della nascita del loro movimento, lo aveva portato il nobile Massud perché lo aiutasse a sconfiggere il suo eterno nemico Heckmatyar. Ma questo agli americani importava poco. E vinta facilmente la guerra (i talebani si trovano in una situazione militarmente insostenibile: sul terreno hanno di fronte uomini di pari valentia guerriera, i mujaheddin dell’Alleanza del Nord, ma le loro linee sono costantemente spazzate dalle bombe degli irraggiungibili B52) occupano l’Afghanistan. Ma fuggito da solo in moto, il Mullah Omar riesce a organizzare una resistenza che si rivela, di anno in anno, sempre più coriacea. Pur di piegarla gli americani attaccano le aree tribali in territorio pachistano dove sospettano, non a torto, che si nascondano i leader della guerriglia. Ma così sveglieranno il talebanismo pachistano, fino ad allora pacifico, e finiranno per incendiare il Pakistan. Sotto la pressione Usa gli attacchi dell’esercito pachistano alle aree tribali del Balucistan e del Waziristan, cominciano nel 2007. A volte sono gli stessi aerei usa, sconfinando dall’Afghanistan, a bombardare direttamente. Ma la goccia che fa definitivamente tracimare un vaso già colmo è l’offensiva di inaudita violenza che l’esercito pachistano, con la regia occulta del generale David Petraeus, sferra il 5 maggio del 2009 nella popolosissima valle di Swat (con buona pace di chi afferma che il Pakistan sostiene i talebani).
Dopo la prima settimana di bombardamenti i morti non si contano. Si possono invece contare i profughi. Sono un milione. Diventeranno due nei giorni successivi. Dai campi profughi centinaia di giovani pachistani, che non ci avevano mai pensato, si dichiarano pronti a diventare kamikaze. Da allora il Pakistan è in fiamme. Non è ancora l’Afghanistan, ma potrebbe diventarlo. Solo che fra Afghanistan e Pakistan c’è una differenza sostanziale. L’Afghanistan, armato com’è in modo antidiluviano, non costituisce un pericolo per nessuno, anche se al potere tornassero i talebani. Il Pakistan ha l’Atomica. Se gli integralisti pachistani che, a differenza dei talebani afghani il cui orizzonte si ferma a Kabul, hanno, per la storia di potenza regionale del loro Paese, una visuale geopolitica che va oltre i propri confini, dovessero conquistare un giorno Islamabad, sarebbero guai serissimi. Per tutti.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2011)
Dopo l’11 settembre gli americani invadono l’Afghanistan col pretesto di prendere Bin Laden. Per la verità Osama i talebani se lo erano trovati in casa, c’era prima della nascita del loro movimento, lo aveva portato il nobile Massud perché lo aiutasse a sconfiggere il suo eterno nemico Heckmatyar. Ma questo agli americani importava poco. E vinta facilmente la guerra (i talebani si trovano in una situazione militarmente insostenibile: sul terreno hanno di fronte uomini di pari valentia guerriera, i mujaheddin dell’Alleanza del Nord, ma le loro linee sono costantemente spazzate dalle bombe degli irraggiungibili B52) occupano l’Afghanistan. Ma fuggito da solo in moto, il Mullah Omar riesce a organizzare una resistenza che si rivela, di anno in anno, sempre più coriacea. Pur di piegarla gli americani attaccano le aree tribali in territorio pachistano dove sospettano, non a torto, che si nascondano i leader della guerriglia. Ma così sveglieranno il talebanismo pachistano, fino ad allora pacifico, e finiranno per incendiare il Pakistan. Sotto la pressione Usa gli attacchi dell’esercito pachistano alle aree tribali del Balucistan e del Waziristan, cominciano nel 2007. A volte sono gli stessi aerei usa, sconfinando dall’Afghanistan, a bombardare direttamente. Ma la goccia che fa definitivamente tracimare un vaso già colmo è l’offensiva di inaudita violenza che l’esercito pachistano, con la regia occulta del generale David Petraeus, sferra il 5 maggio del 2009 nella popolosissima valle di Swat (con buona pace di chi afferma che il Pakistan sostiene i talebani).
Dopo la prima settimana di bombardamenti i morti non si contano. Si possono invece contare i profughi. Sono un milione. Diventeranno due nei giorni successivi. Dai campi profughi centinaia di giovani pachistani, che non ci avevano mai pensato, si dichiarano pronti a diventare kamikaze. Da allora il Pakistan è in fiamme. Non è ancora l’Afghanistan, ma potrebbe diventarlo. Solo che fra Afghanistan e Pakistan c’è una differenza sostanziale. L’Afghanistan, armato com’è in modo antidiluviano, non costituisce un pericolo per nessuno, anche se al potere tornassero i talebani. Il Pakistan ha l’Atomica. Se gli integralisti pachistani che, a differenza dei talebani afghani il cui orizzonte si ferma a Kabul, hanno, per la storia di potenza regionale del loro Paese, una visuale geopolitica che va oltre i propri confini, dovessero conquistare un giorno Islamabad, sarebbero guai serissimi. Per tutti.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2011)
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