Il Washington Post avanza l’ipotesi che la morte di Osama bin Laden possa favorire le trattative con i talebani afghani guidati dal Mullah Omar. Sarebbe finalmente una cosa di buon senso dopo dieci anni di inutile guerra all’Afghanistan che ha causato 60 mila morti fra i civili, 35 mila fra i guerriglieri talebani e 2441 caduti fra i soldati della Coalizione. È un’ipotesi plausibile e fattibile, anche se per motivi diversi da quelli avanzati dal giornale americano secondo il quale la morte del Califfo saudita potrebbe indurre i talebani afghani a rompere definitivamente con al Qaeda e il terrorismo internazionale.
Omar e Osama erano ai ferri corti già nel 1998 dopo gli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania, attribuiti a Bin Laden, che provocarono 223 morti e 4000 feriti. Poco dopo 75 missili Cruise si abbatterono sulle montagne di Khost, dove gli americani ritenevano che si trovasse Bin Laden con i suoi campi di addestramento. Non centrarono il bersaglio, ma fecero un bel po’ di morti. I bombardamenti proseguirono per qualche mese. Bin Laden era quindi diventato un problema per il governo talebano. Così quando il presidente Clinton propose al Mullah Omar di eliminare fisicamente Bin Laden, il leader dei talebani, attraverso il suo ministro degli Esteri, Wakil Muttawakil, inviato a Washington alla fine di quell’anno, si dichiarò d’accordo. Ma quando la cosa sembrava ormai fatta, Clinton si tirò inspiegabilmente indietro.
E venne l’11 settembre. Mentre le folle di tutti i Paesi del mondo arabo scendevano in piazza per manifestare la loro gioia, fra i tanti attestati di solidarietà e di cordoglio che arrivarono agli Stati Uniti ce n’era anche uno del governo talebano. Un comunicato ufficiale che diceva: “Bismullah ar-Rabman ar Rabim (nel nome di Allah, della grazia e della compassione). Noi condanniamo fortemente i fatti che sono avvenuti negli Stati Uniti al World Trade Center e al Pentagono. Condividiamo il dolore di tutti coloro che hanno perso i loro familiari e i loro cari in questi incidenti. Tutti i responsabili devono essere assicurati alla giustizia. Noi vogliamo che siano puniti e ci auguriamo che l’America sia paziente e prudente nelle sue azioni”.
E allora perché il Mullah Omar si rifiutò di estradare Bin Laden come volevano gli Stati Uniti? Perché Omar, che a suo modo, anche se ciò può suonar strano ad orecchie occidentali, è un legalista, chiedeva che ci fosse una seria inchiesta sugli attentati dell’11 settembre e delle prove che alle spalle ci fosse davvero Osama bin Laden. Gli americani, che avevano già ammassato bombardieri e truppe in Pakistan, risposero arrogantemente: “Le prove le abbiamo date ai nostri alleati”. A questa risposta il governo dei talebani replicò come avrebbe fatto qualsiasi altro governo del mondo: che a quelle condizioni, senza un’inchiesta, senza prove non poteva consegnare una persona, che non aveva la nazionalità americane né quella afghana, che era comunque un ospite del loro Paese e sotto la loro tutela, così, al buio, alla giustizia degli Stati Uniti. Il Mullah Omar si è giocato un Paese e la sua vita stessa non per difendere Bin Laden, di cui poco o nulla gli importava, che anzi si sarebbe tolto volentieri dai piedi, ma per una questione di principio e dignità.
Comunque sia, sono anni che al Qaeda non è più in Afghanistan. La Cia ha calcolato che su circa 50 mila guerriglieri che combattono gli occupanti occidentali solo 359 sono stranieri. Ma sono ceceni, uzbechi, turchi, non arabi wahabiti che hanno in testa il jihad universale contro l’Occidente. Gli insurgents, gli insorti come li definiscono la stessa Cia e il Pentagono (solo La Russa e Frattini li chiamano ancora “terroristi”), sono solo gente che, con l’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione, vogliono che le truppe straniere se ne vadano dall’Afghanistan. La morte di Bin Laden non serve a rompere i legami fra i talebani e i terroristi internazionali che non ci sono più da tempo, serve all’America per quella exit strategy dignitosa che sta cercando da almeno un paio d’anni.
La situazione sul campo della Nato è divenuta insostenibile. Secondo le stime più recenti, i talebani occupano l’80% del Paese e con una strategia avvolgente stanno bloccando, a est, a sud, a ovest, tutte le vie di rifornimento alle truppe occidentali (l’unica sicura rimane quella da nord, dalla Russia via Turkmenistan e dipende dalla benevolenza di Putin). D’altro canto i talebani non sono in grado di dare la spallata decisiva nelle grandi città – Kabul, Mazar i-Sharif, Herat – perché troppa è la sproporzione con gli armamenti della Nato. La situazione è di stallo. Più volte gli americani hanno cercato di avviare trattative, nemmeno tanto segrete, con i talebani così detti moderati per uscirne. Nell’ottobre del 2010 hanno istituito un Alto consiglio di pace in cui sostenevano di aver coinvolto anche alcuni importanti esponenti talebani. In realtà erano solo delle scartine raccattate per le strade di Kabul. Si sono sempre rifiutati di trattare con il Mullah Omar ritenendolo inadeguato per una pacificazione nazionale. Omar è invece l’unico interlocutore possibile perché è lui che guida, con mano di ferro, la guerriglia. Bin Laden è morto, gli Stati Uniti potrebbero dire: ora che la caccia è finita, il sangue delle Twin Towers vendicato, si può trattare anche con il Mullah Omar ponendo come condizione, tanto per salvare la faccia, che il leader dei talebani dichiari di rinunciare ai legami con al Qaeda. Omar accetterebbe?
Se la condizione è questa, certamente, così come accetterebbe, credo, ispezioni Onu che accertino che su suolo afghano non ci sono campi di addestramento per qaedisti. Se costoro dovessero rifarsi vivi, sarebbe lui il primo a cacciarli visto che è a causa loro che ha perso il Paese che governava. Se invece le condizioni di Obama o di chi per lui fossero: dopo Karzai un altro Quisling in salsa americana, come Naiisbullah lo era stato per i sovietici, basi Nato nel Paese e truppe Yankee, sia pur ridotte, su suolo afghano, direbbe di no. Non ha combattuto 30 dei suoi 49 anni di vita per la libertà del suo Paese, sacrificandogli l’intera esistenza, per vedersi imporre alla fine una “pax americana”.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2011)
Omar e Osama erano ai ferri corti già nel 1998 dopo gli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania, attribuiti a Bin Laden, che provocarono 223 morti e 4000 feriti. Poco dopo 75 missili Cruise si abbatterono sulle montagne di Khost, dove gli americani ritenevano che si trovasse Bin Laden con i suoi campi di addestramento. Non centrarono il bersaglio, ma fecero un bel po’ di morti. I bombardamenti proseguirono per qualche mese. Bin Laden era quindi diventato un problema per il governo talebano. Così quando il presidente Clinton propose al Mullah Omar di eliminare fisicamente Bin Laden, il leader dei talebani, attraverso il suo ministro degli Esteri, Wakil Muttawakil, inviato a Washington alla fine di quell’anno, si dichiarò d’accordo. Ma quando la cosa sembrava ormai fatta, Clinton si tirò inspiegabilmente indietro.
E venne l’11 settembre. Mentre le folle di tutti i Paesi del mondo arabo scendevano in piazza per manifestare la loro gioia, fra i tanti attestati di solidarietà e di cordoglio che arrivarono agli Stati Uniti ce n’era anche uno del governo talebano. Un comunicato ufficiale che diceva: “Bismullah ar-Rabman ar Rabim (nel nome di Allah, della grazia e della compassione). Noi condanniamo fortemente i fatti che sono avvenuti negli Stati Uniti al World Trade Center e al Pentagono. Condividiamo il dolore di tutti coloro che hanno perso i loro familiari e i loro cari in questi incidenti. Tutti i responsabili devono essere assicurati alla giustizia. Noi vogliamo che siano puniti e ci auguriamo che l’America sia paziente e prudente nelle sue azioni”.
E allora perché il Mullah Omar si rifiutò di estradare Bin Laden come volevano gli Stati Uniti? Perché Omar, che a suo modo, anche se ciò può suonar strano ad orecchie occidentali, è un legalista, chiedeva che ci fosse una seria inchiesta sugli attentati dell’11 settembre e delle prove che alle spalle ci fosse davvero Osama bin Laden. Gli americani, che avevano già ammassato bombardieri e truppe in Pakistan, risposero arrogantemente: “Le prove le abbiamo date ai nostri alleati”. A questa risposta il governo dei talebani replicò come avrebbe fatto qualsiasi altro governo del mondo: che a quelle condizioni, senza un’inchiesta, senza prove non poteva consegnare una persona, che non aveva la nazionalità americane né quella afghana, che era comunque un ospite del loro Paese e sotto la loro tutela, così, al buio, alla giustizia degli Stati Uniti. Il Mullah Omar si è giocato un Paese e la sua vita stessa non per difendere Bin Laden, di cui poco o nulla gli importava, che anzi si sarebbe tolto volentieri dai piedi, ma per una questione di principio e dignità.
Comunque sia, sono anni che al Qaeda non è più in Afghanistan. La Cia ha calcolato che su circa 50 mila guerriglieri che combattono gli occupanti occidentali solo 359 sono stranieri. Ma sono ceceni, uzbechi, turchi, non arabi wahabiti che hanno in testa il jihad universale contro l’Occidente. Gli insurgents, gli insorti come li definiscono la stessa Cia e il Pentagono (solo La Russa e Frattini li chiamano ancora “terroristi”), sono solo gente che, con l’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione, vogliono che le truppe straniere se ne vadano dall’Afghanistan. La morte di Bin Laden non serve a rompere i legami fra i talebani e i terroristi internazionali che non ci sono più da tempo, serve all’America per quella exit strategy dignitosa che sta cercando da almeno un paio d’anni.
La situazione sul campo della Nato è divenuta insostenibile. Secondo le stime più recenti, i talebani occupano l’80% del Paese e con una strategia avvolgente stanno bloccando, a est, a sud, a ovest, tutte le vie di rifornimento alle truppe occidentali (l’unica sicura rimane quella da nord, dalla Russia via Turkmenistan e dipende dalla benevolenza di Putin). D’altro canto i talebani non sono in grado di dare la spallata decisiva nelle grandi città – Kabul, Mazar i-Sharif, Herat – perché troppa è la sproporzione con gli armamenti della Nato. La situazione è di stallo. Più volte gli americani hanno cercato di avviare trattative, nemmeno tanto segrete, con i talebani così detti moderati per uscirne. Nell’ottobre del 2010 hanno istituito un Alto consiglio di pace in cui sostenevano di aver coinvolto anche alcuni importanti esponenti talebani. In realtà erano solo delle scartine raccattate per le strade di Kabul. Si sono sempre rifiutati di trattare con il Mullah Omar ritenendolo inadeguato per una pacificazione nazionale. Omar è invece l’unico interlocutore possibile perché è lui che guida, con mano di ferro, la guerriglia. Bin Laden è morto, gli Stati Uniti potrebbero dire: ora che la caccia è finita, il sangue delle Twin Towers vendicato, si può trattare anche con il Mullah Omar ponendo come condizione, tanto per salvare la faccia, che il leader dei talebani dichiari di rinunciare ai legami con al Qaeda. Omar accetterebbe?
Se la condizione è questa, certamente, così come accetterebbe, credo, ispezioni Onu che accertino che su suolo afghano non ci sono campi di addestramento per qaedisti. Se costoro dovessero rifarsi vivi, sarebbe lui il primo a cacciarli visto che è a causa loro che ha perso il Paese che governava. Se invece le condizioni di Obama o di chi per lui fossero: dopo Karzai un altro Quisling in salsa americana, come Naiisbullah lo era stato per i sovietici, basi Nato nel Paese e truppe Yankee, sia pur ridotte, su suolo afghano, direbbe di no. Non ha combattuto 30 dei suoi 49 anni di vita per la libertà del suo Paese, sacrificandogli l’intera esistenza, per vedersi imporre alla fine una “pax americana”.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2011)
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