giovedì 30 giugno 2011

Gli italiani e la povertà nata dalla ricchezza

Questa storia che gli italiani stiano diventando poveri, di una povertà insopportabile, mi convince fino a un certo punto. Nei ’50, a parte una sottile striscia di alta borghesia che si guardava bene dall’ostentare, eravamo tutti più poveri della media di coloro che oggi sono considerati tali.
Certo, avevamo molte meno esigenze. I bambini non venivano iscritti ai corsi di tennis, di nuoto, di danza. Noi ragazzini giocavamo a pallone nei terrain vague dove anche ci scazzottavamo allegramente (era la nostra “educazione sentimentale”) e tornavamo a casa la sera con le ginocchia nere e sbucciate (chi mai riesce, oggi, a vedere un bambino, vestito col suo paltoncino, come un cane di lusso, con le ginocchia sbucciate?). A nuotare (parlo di Milano) si andava all’Idroscalo oppure, durante le vacanze scolastiche, accompagnati dalla mamma (il padre rimaneva in città, perché allora per mantenere la famiglia bastava uno solo) sulla Riviera di Ponente. Gli adulti non sognavano i Caraibi, non sapevamo nemmeno che esistessero. Vivevamo in un mondo circoscritto. La fabbrica o l’ufficio, a Milano, erano quasi sempre vicino a casa. In altre zone del Paese invece si doveva fare anche 30 chilometri. Allora si inforcava la bicicletta, che a quei tempi era un mezzo di locomozione (negli anni Trenta avevano la targa, come le automobili) e non un gadget per tipi snob.
In compenso non c’era bisogno di fare jogging. Eppoi la povertà aiuta la povertà. Passava lo strascè (“strascè, strasciaio”) e gli buttavi dalla finestra qualche vecchio lenzuolo bucato. Passava l’arrotino e ti affilava i coltelli per poche lire. Veniva il contadino (la città era ancora compenetrata con la campagna) e ti portava le uova, i pomodori, la frutta. Essere poveri dove tutti, più o meno, lo sono non è un dramma e nemmeno un problema. Quando uno ha da abitare, da vestire, da mangiare (nessuno nei ’50 moriva di fame, anche se la minaccia paterna, dopo la marachella, “Stasera vai a letto senza cena”, non era da prendere sottogamba), gli amici, la ragazza e, più tardi, una moglie e dei figli, cosa gli manca per essere non dico felice (parola proibita, che non dovrebbe essere mai pronunciata), ma almeno sereno?
La povertà nasce con la ricchezza. Quando una fetta consistente della popolazione la raggiunge. Innanzitutto per la concreta ragione che tutti i prezzi dei beni essenziali si alzano. Lo si vede bene nella Russia di oggi dove accanto agli Abramovich ci sono professori universitari che col loro stipendio ci comprano un mezzo pollo. Nei ‘50 e nei primi ‘60, in Italia, un pasto completo in trattoria con una bottiglia di buon Barbera costava 250 lire che, anche fatta la tara dell’inflazione, non hanno nulla a che vedere con i 25/30 euro con cui si paga oggi una pizza. Gli affitti erano abbordabili, oggi bisogna strangolarsi di mutui per andare ad abitare nell’anonimato dell’hinterland.
Inoltre scatta il meccanismo dell’emulazione, dell’invidia, su cui del resto si basa l’intero nostro modello di sviluppo. Raggiunto un obiettivo bisogna inseguirne immediatamente un altro e poi un altro ancora – a ciò costretti dall’ineludibile meccanismo produttivo, che ci sovrasta – e, sempre inappagati, non possiamo mai raggiungere un momento di equilibrio, di quiete, di serenità. Ludwig von Mises, il più estremo ma anche coerente teorico dell’industrial-capitalismo, rovesciando venti secoli di pensiero occidentale e orientale, ha affermato: “Non è bene accontentarsi di ciò che si ha”. Ha interpretato lo spirito del tempo coniugato con le esigenze del sistema. Ma poiché “ciò che non si ha” non ha limiti abbiamo creato il meccanismo perfetto dell’infelicità.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2011)

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