venerdì 8 luglio 2011

Nel paese del doppio diritto

Il 19 febbraio del 1998 il Tribunale di Monza mi riconobbe colpevole di diffamazione nei confronti del deputato Teodoro Buontempo perché in un articolo pubblicato per l’Indipendente il 6 febbraio 1996, mentre si preparava un ‘governo ammucchiata’ a guida di Maccanico (tentativo poi abortito), avevo scritto che mi sembrava “un pateracchio dove lo stupratore Buontempo sta con la femminista chic Sandra Bonsanti”. ‘Stupratore’ non lo intendevo in senso letterale, ma ironico evidenziato dalla contrapposizione con la ‘femminista chic’. Peraltro lo stesso Buontempo in un’intervista concessa a Francesco Merlo proprio quel 14 febbraio 1994, e ripresa poi da vari giornali, aveva dichiarato: “Uno di questi giorni prendiamo Casini qui in aula e lo stupriamo. E quando dico stuprare non lo intendo in senso metaforico ma letterale”.

Ma la giudichessa di Monza, che alla parola ‘stupro’ aveva rizzato le sue orecchie femministe, non riconobbe valide le mie ragioni e mi condannò. Nel civile, a differenza del penale, le sentenze sono, in linea di massima, immediatamente esecutive. Prima paghi, poi, se del caso, ti appelli. Così fui condannato a pagare seduta stante, sia pur con la formula della provvisionale, circa venti milioni all’onorevole Buontempo per i danni morali che gli avevo arrecato. Venti milioni, dirà il lettore, non sono poi gran cosa. Dipende. Per un’impresa, certo, sono quasi niente, per un cittadino normale pesano parecchio. Nel mio caso (siamo nel 1998) corrispondevano a quattro mesi di stipendio. Cioè, per quattro mesi io avevo lavorato a vuoto, a favore di ‘er pecora’. Pagai. Col fegato in mano, ma pagai. Com’era doveroso. Poi feci Appello. Con sentenza del 6 febbraio 2004 la Corte d’appello di Milano mi assolse “Perché il fatto non costituisce reato”. Chiesi quindi a Buontempo la restituzione dei miei soldi. Ma l’onorevole, poiché in Italia non c’è mai nulla di definitivo, mise in campo mille gabole pur di non restituirmi denari per cui non aveva più titolo, cavilli fantasiosi e improponibili il cui senso era: “Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato e sempre sia lodato quel fesso che ha pagato”. Furioso, scrissi sul Gazzettino una ‘lettera aperta’ al presidente della Camera, che in quel momento era proprio Pier Ferdinando Casini, dicendo che un comportamento del genere era indegno di un parlamentare della Repubblica (santa ingenuità). E alla fine, poiché le leggi alle volte esistono, sempre che qualcuno non le cambi in corso d’opera, ‘er pecora’ fu costretto a restituire il maltolto. Quando il 3 ottobre 2009 il giudice Raimondo Mesiano (quello tallonato dalle Tv berlusconiane che gli attribuivano evidenti segni di squilibrio mentale perché indossava calzini turchesi e fumava una sigaretta, da solo, sulla panchina di un giardino) condannò la Fininvest a risarcire con 750 milioni di euro la Cir di De Benedetti per il Lodo Mondadori, truccato a favore del Cavaliere dal giudice Metta, rimasi sorpreso nell’apprendere che la quasi automaticità dell’esecutività del giudizio di primo grado valeva solo per i poveri cristi, mentre al di là di certe somme valeva un’automaticità di segno opposto, prima si fa appello poi, forse, si paga.

Il codicillo inserito all’ultimo momento, e di nascosto, dal governo Berlusconi nella Finanziaria spostava l’esecutività delle sentenze civili, sempre quando sono in ballo certe somme, dall’Appello alla Cassazione rimandando così ulteriormente il risarcimento alla Cir (sono passati 21 anni dal Lodo Mondadori). Non è la prima volta che un codicillo che fa l’interesse privato di qualcuno è inserito all’interno di una legge di valore generale senza che con questa abbia nulla a che fare.

Mi ricordo che quando facevo l’impiegato alla Pirelli un collega dell’Ufficio legale mi fece vedere il lungo testo di una legge fortemente voluta dal ministro del Tesoro Bruno Visentini che era anche presidente onorario dell’Olivetti. Il collega mi disse: “Lascia perdere tutto il resto, è messo lì solo per parata, per confondere, leggi solo le quattro righe che ho sottolineato con l’evidenziatore. Leggile con attenzione. Sono le sole che contano”. Quelle quattro righe davano miliardi all’Olivetti. Eravamo nei primissimi anni Settanta. Come si vede il conflitto di interessi, con le relative truffe legalizzate, non nasce oggi. Ma è la prima volta che si è osato inserire un codicillo ‘ad personam’ in una Finanziaria, la legge più importante per un Paese. Mettendo il presidente della Repubblica in una ‘fourchette’: se firmava avallava una mostruosità giuridica, se non lo faceva ritardava di giorni provvedimenti che, soprattutto in un momento di crisi come questo, sono quanto mai urgenti. Se si aggiunge che il codicillo è stato inserito a pochissimi giorni dalla sentenza di Appello che deve decidere sul risarcimento alla Cir il quadro è completo. La manovra è stata così smaccata e maldestra, nascosta agli stessi ministri, che questa volta persino Berlusconi ha dovuto fare un passo indietro e ritirare la leggina ‘ad personam’. Ma si può star sicuri che ci riproverà. Nel frattempo, come Buontempo, troverà tutti i possibili cavilli per non pagare. Poi, passata la buriana, varerà una legge consimile, con validità retroattiva, magari con qualche ritocco di facciata come ha fatto mille volte sotto il naso dello svampito Napolitano. Infatti non ha rinunciato ad affermare, pur nel pieno della tempesta, che “la legge è giusta, sacrosanta, va nella direzione giusta”. E, in un certo senso, ha ragione. La legge va in una direzione presa da tempo nel nostro Paese: quella di un doppio diritto. Uno, implacabile, per i cittadini comuni, e un altro, di manica larghissima, per ‘lorsignori’. Tanto nel civile che nel penale dove per i Vip vige il più peloso ‘ipergarantismo’ e la presunzione d’innocenza è sacra fino a quando siamo tutti morti, mentre per i reati da strada, quelli commessi dai poveracci, vale il principio, espresso soprattutto da un centrodestra alla Santanchè ma anche da molte suorine di sinistra: “In galera subito e buttare via le chiavi”. È la vecchia, cara, schifosa, giustizia di classe. Per questo la legge che tutela i debitori ricchi mentre penalizza quelli poveri, che non possono opporsi a Equitalia, prima o poi si farà.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2011)


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