giovedì 9 febbraio 2012

La vecchiaia sul lavoro comincia a 45 anni

Fino a quando gli italiani sono materia plasmabile nelle mani di aziende-pigmalioni, bramose di sfruttarne i talenti? «Fino a 50-55 anni», si sarebbe risposto fino a pochi anni fa. Poi si diventa obsoleti come un Commodore 64. La novità è che questa età si è via via erosa. Per i responsabili del personale oggi cominci a essere vecchio già a 45 anni. Addirittura a 40. E questo vale per chi ha l’ormai mitico posto fisso. Quelli che sono fuori, a caccia di un impiego, il problema lo sentono ancora di più.

Chi lo dice? Un po’ tutti. Dai direttori del personale alle società di selezione. E anche il sindacato. Per chi avesse ancora qualche dubbio, il fenomeno è certificato da un’indagine che sarà presentata oggi dall’osservatorio sul Diversity management della Sda Bocconi. I ricercatori dell’università milanese hanno indagato le cause di discriminazione in azienda. Dall’aspetto fisico alla provenienza etnica. Pensavano che, come al solito, il problema principale sarebbe stato la discriminazione di genere, a svantaggio delle donne. Invece, sorpresa: la maggior fonte di disagio è diventata l’età.

«I lavoratori dipendenti dopo i 45 anni mostrano un’evidente difficoltà. Si sentono inascoltati. E sempre più esclusi. Difficile dar loro torto: le nostre verifiche ci dicono che le carriere si fanno entro i 40 anni. Dopo i 45 le imprese smettono di investire su di te. Basta incentivi alla valutazione della persona. Basta programmi di sviluppo dedicato», è la spietata constatazione di Simona Cuomo, a capo dell’osservatorio sul Diversity Management della Sda Bocconi. «Eppure parliamo di persone che rappresentano oltre il 30% degli occupati del nostro Paese — continua Cuomo —. Le politiche del lavoro del governo e quelle delle singole aziende dovrebbero tenerne conto. Anche perché si tratta di gente che ha ancora voglia di dare».

La sorpresa dei ricercatori Bocconi deriva dal fatto che la stessa indagine viene ripetuta da tre anni e mai si era rilevato che l’età fosse un problema per il 52% dei dipendenti mentre il genere «solo» per il 44%. Seguono altri motivi di disagio come il tipo di laurea: mortificati, nel 32% dei casi, soprattutto i possessori di lauree umanistiche. Per finire, l’aspetto fisico (27% dei casi).

Perché questa tendenza ha subìto un’accelerazione negli ultimi due-tre anni?

Ha una spiegazione il presidente di Gidp, associazione dei direttori del personale, Paolo Citterio: «La crisi ha contribuito. Prima della riforma delle pensioni targata governo Monti si sono utilizzate dosi massicce di prepensionamenti. Con “scivoli” verso il ritiro. Così i 45enni si sono resi conto in un colpo solo di aver perso il treno della carriera e di avere il fiato sul collo di giovani trentenni valorizzati per la disinvoltura con le tecnologie».

Ed eccoci alla seconda motivazione del fenomeno. Le tecnologie, appunto. «Spesso si tratta di un alibi — osserva Enrico Finzi, sociologo e presidente di AstraRicerche —. Le nostre indagini constatano ogni giorno come l’utilizzo di Internet stia diventando familiare anche in classi d’età elevate, ben oltre i quarant’anni. La ragione non detta spesso è un’altra. Gli stipendi dei lavoratori maturi sono più pesanti. E le imprese si fanno tentare. Ma quello a cui stiamo assistendo è un fenomeno drammatico e iniquo. Per di più dannoso per il Paese: si sprecano risorse professionali».

La situazione delle donne merita una postilla. «Qui la frustrazione è massima — aggiunge il sociologo —. Perché spesso si tratta di signore che hanno faticato per guadagnarsi un posto al sole, poi hanno gestito la difficile fase della maternità in azienda. E quando cominciano a sentirsi un po’ più libere perché hanno i figli preadolescenti vengono messe da parte».

Come si diceva all’inizio, il problema riguarda tutti, a tutti i livelli. «Capita che si licenzi un dirigente, a volte anche un quadro, per affidare le sue responsabilità a una persona più giovane e con un inquadramento inferiore che costa meno. Spesso si tratta anche di quarantenni», constata tra gli altri Guido Carella, presidente di Manageritalia, associazione dei dirigenti dei servizi.

Per quanto riguarda i posti da commesso, impiegato o cassiera, basta dare un’occhiata alle inserzioni di ricerca personale. Qui l’età è messa nero su bianco, nonostante sia proibito. E sempre si legge: «Massimo trentenne». «È vero, pochi in Italia rispettano la legge — ammette Gilberto Marchi, presidente di Assores, associazione delle società di selezione —. Va detto, però, che ci sono quarantenni con inglese elementare e scarsa dimestichezza con l’informatica che entrano in crisi appena l’azienda chiede di cambiare città nel raggio di 50 chilometri».

In effetti quella dei quarantenni di oggi è l’ultima generazione salita sul treno del posto fisso. Dopo di loro il diluvio (di contratti a termine e collaborazioni). Ma è anche vero che se fino a 30 anni rischi di fare l’apprendista e dai 40 sei già da buttare, il tempo del fulgore professionale risulta limitato a un batter di ciglia. E allora sorge un dubbio.

Non sarebbe più utile a tutti (anche alle imprese) se invece della carta d’identità si guardasse il merito?

Rita Querzè (Corriere della Sera - 9 febbraio 2012)

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