Ci sono cose che bisogna fare. Se si è appassionati di musica, se si ama il rock, si si pensa di avere ancora bisogno di parole, di sentimenti, di ricordi, di pensieri, di cervello, di passione, di anima, di rock. Ebbene dovete prendere una sedia, mettervi comodi, spegnere il cellulare e ascoltate il “keynote” di Bruce Springsteen all’SXSW di Austin, Texas. Springsteen racconta di se, ma parla di noi, parla della musica, delle musiche, del rock di ieri e di oggi, di sogni speranze e realtà. E’ il “Presidente” della nostra ipotetica repubblica e fa l’immancabile “discorso alla nazione”. E racconta perché la musica di ieri era fantastica, perché la musica di oggi è fantastica, perché la musica è fantastica. Racconta cosa fanno le canzoni, cosa ci fanno, cosa ci hanno fatto, perché sono importanti, spesso più dei libri, spesso più di ogni altra cosa. Racconta perché gente come me e voi è al mondo oggi e fa quello che fa, ed è quello che è.
E se non capite l’inglese ecco alcuni estratti del discorso, dal pezzo che Giampiero DI Carlo, il boss di Rockol che, fortunato, è ad Austin, ha pubblicato sul sui sito
15 mar 2012 – Tocca a Bruce Springsteen il keynote dell’edizione 2012 del “South by SouthWest” in corso a Austin. All’interno della stipatissima Ballroom D dell’Austin Convention Center, preceduto da una breve esibizione della figlia di Woody Guthrie (del quale il SXSW celebra il centenario della nascita) e del colombiano Juanes, Springsteen (che stasera si esibirà ad Austin in un concerto riservato a 2.500 spettatori, serata di riscaldamento dell’imminente tour che partirà da Atlanta due giorni dopo, domenica 17 marzo), ha preso il palco alle 12.30, accolto da un boato da parte del pubblico.
“Keynote? Non so che ci faccio qui a quest’ora, qualsiasi musicista decoroso dovrebbe essere addormentato – come probabilmente sarò io tra poco”. La versione di Bruce Springsteen di un keynote, si capirà immediatamente, è un misto tra un sermone, un rock and roll show e una lezione di storia della musica. In un discorso inframezzato da brevi pezzi alla chitarra acustica, il Boss traccia in 50 minuti la traiettoria della sua carriera, pescando a piene mani dai ricordi, facendo uso abbondante di autoironia e con un solo obiettivo: svelare al pubblico il potere e l’importanza della musica a prescindere da stili, generi, epoche e interpreti.
“Quando nel ‘64 presi in mano la mia prima vera chitarra, c’erano in giro poche chitarre (non credo che ne avessro costruite abbastanza) e poche band: avevamo alle spalle solo dieci anni di storia del rock, un’inezia, come dal 2002 a oggi. Gli stili si confondevano e sovrapponevano, non c’era l’abbondanza che troviamo oggi nelle vie di Austin”. Springsteen inizia a elencare una sequenza di generi, sottogeneri, nicchie, tag e categorie che dopo pochi minuti diventa esilarante per la sua stessa esistenza e il suo nonsenso (”‘Nintendo Core’?!? Ma che sarebbe?”), ed è l’introduzione che gli serve per ricondurre la sua idea di musica a pochi fondamentali concetti e tappe della sua vicenda artistica. “Voi avete i vostri eroi, io ho i miei” è l’incipit di una serie di una dozzina di istantanee di prima mano. “Ricordate che in decenni di musica, l’unico elemento di coerenza rimane il potere della creatività, la purezza dell’espressione: vale per il punk e per la dance, gli strumenti che utilizziamo non sono rilevanti. Viviamo in un mondo post-autentico, dove ciò che conta alla fine della giornata è ciò che resta quando spegni la luce per andare a dormire”. La catena dei ricordi comincia negli anni ‘50: “Ogni musicista ha il suo momento di genesi: il mio fu Elvis in tv all’Ed Sullivan Show. Con Elvis mi fu chiaro che si poteva usare il potere dell’immaginazione per trasformare se stessi, per trascendere le origini e le costrizioni dalle quali provenivi. La televisione e l’informazione visiva hanno cambiato tutto. Quando Elvis si muoveva, all’improvviso potevi capire cosa stava succedendo nei suoi pantaloni. Elvis e la TV ci diedero pieno accesso a una nuova forma di linguaggio e un nuovo modo di pensare al sesso, alla vita, alla politica. Una volta comparso Elvis, il genio non potè più essere infilato nella lampada. Presi a imitarlo. Allo specchio, naturalmente. Lo faccio ancora (perché, voi no…?)”. Qui Springsteen comincia a cucire gli stili e a ripercorrere le sue influenze fondamentali. “Prima di Elvis c’era il doo wop, lo ascoltavio sulla radiolina a transistor in cima al frigo. Il doo wop, la musica più semplice, sesso allo stato puro, come ascoltare il suono dei reggiseni che venivano sganciati in tutta l’America, il ricordo delle palle livide di dolore dopo avere ballato un lento – ma era un dolore meraviglioso”. Chitarra acustica in mano, Springsteen si produce nella tipica progressione degli accordi doo wop che trascende in un suono che è tanto springsteeniano, giusto per dimostrare dove ha “rubato” la sua musica. “Poi vennero gli anni Sessanta, ma prima ecco Roy Orbison. Lo sfigato più figo che abbiate mai incontrato. Uno che affondava il coltello nel ventre dell’insicurezza adolescenziale. Bastavano certi suoi titoli e certe sue parole… ‘Running scared’… ‘Paranoia’. Roy Orbison mi fece capire che la vita è una tragedia intervallata da momenti di gloria. Quei momenti non sono la vita, ma la pop music… Ed ecco Phil Spector, il wall of sound: i suoi dischi suonavano quasi come caos, il rumore che sprigionava… Se Roy era l’opera, Phil era la sinfonia. Tre minuti di orgasmo seguiti dall’oblio”. La cronaca del rock continua: “Nei primi anni Sessanta arrivò il momento della British Invasion. Era tutto diverso da Elvis e dagli altri. Erano i Beatles, quattro ragazzi che si scrivevano e suonavano da soli le proprie canzoni. Erano cool, classici e formali. Sembravano irraggiungibili. Poi un giorno vidi le loro foto ai tempi del Cavern, avevano capelli impomatati e giubbotti di pelle, visti così non erano più tanto diversi da noi. Erano ragazzi. Per me fu illuminante, mi dissi: allora c’è un modo per arrivare da qua a là. Mi interessa, voglio lavorarci. Ma il mio gruppo fondamentale di quel periodo furono gli Animals: energia, coscienza di classe, era la prima volta che mi imbattevo in qualcosa di simile. ‘We’ve gotta get out of this place’, sentite (e lo suona con l’acustica): era tutto quello che serviva. Mi colpirono profondamente. E poi erano un gruppo senza membri carini, erano la band più brutta del mondo. Nessuna simpatia. Tipo: è la mia vita e faccio quello che mi pare. Eric Burdon non credo abbia mai avuto la faccia da giovane, non sapeva ballare, sembrava un gorilla vestito, non capivi come quella voce potesse uscire dal corpo di un diciassettenne. Gli Animals furono la band più meno apologetica fino all’avvento dei Sex Pistols. A proposito, i Sex Pistols erano spaventosi, non scioccanti – è una cosa diversa. Spaventosi. Comprai un mucchio di dischi punk all’epoca”. Ma prima di addentrarsi nel ‘77 e dintorni, Springsteen fa un passo indietro, fondamentale per il suono della E Street Band. “La musica soul. Gente che cantava ‘ho imparato a fare l’amore prima di imparare a mangiare’… Non era il mio caso, eh. Era musica da adulti, che era cantata da soul men e da soul women, non da teen idols. Dalla Motown al genere più impegnato di Curtis Mayfield. E’ dal soul che ho tratto la mia arte, ho imparato da loro a cantare, a suonare, ad arrangiare, a stare sul palco, a condurre una band”. E’ una sequela di aneddoti, ormai: “A un certo punto io e altri come Elliott Murphy eravamo tutti ‘nuovi Dylan’. E Dylan aveva solo 30 anni! Non volevo essere un nuovo Dylan, ero concentrato a suonare notte dopo notte dopo notte. E’ così che la gente impara a riconoscerti, il tuo biglietto è la tua stretta di mano”. E James Brown? “Il più grande di sempre sul palco, al T.A.M.I. Show sfondò il culo agli Stones. Ma dico, come fai a salire sul palco dopo James Brown? E io adoro gli Stones, ma devi essere un pazzo. Sul palco dopo James Brown? Ma no, vai a casa! James Brown è sottovalutato tuttora”. Tocca a Bob Dylan: “Quando arrivò Bob, ci diede finalmente le parole che mancavano. Sapevamo che c’era qualcosa da esprimere, ma non esisteva ancora un linguaggio perchè un giovane potesse dare verbo a quello che sentiva. ‘How does it feel to be on your own’… Esattamente: se eri un adolescente negli anni ‘50 e ‘60 eri proprio da solo, era così che ti sentivi, perchè i tuoi genitori non riuscivano a comunicare con te in un mondo che stava cambiando del tutto. Bob ci diede le parole e ci trattò da adulti”. E come si passa da Elvis a Hank Williams? “Quando avevo quasi trent’anni sentii di volere crescere, avevo il desiderio di scrivere su temi da adulti, quindi rivolsi la mia attenzione al country. Passai ore ad ascoltare Hank Williams, e impiegai molto a decodificarlo. All’inizio fu difficile comprenderne la grandezza, ma poi ci arrivai, capii la sua bellissima semplicità e se prima mi suonava solo arcaico, alle mie orecchie diventò meraviglioso. Ero attratto dal fatalismo del country. Era raramente arrabbiato in senso politico, raramente critico in modo diretto. Se il rock and roll era un weekend di 7 giorni, il country era un sabato sera infernale con una domenica mattina da incubo. Jerry Lee Lewis fu rock più country. La ricerca della mia identità per me divenne fondamentale. Il country era provinciale, come me del resto: non sono mai stato un cittadino, ne un bohemien. E Woody Guthrie, la cui musica continua a essere così importante ancora oggi, è il ‘ghost in the machine’ di questa nazione. Perchè? Perchè per tutta la vita è quello che ha cercato di riposndere alla domanda fondamentale di Hank Williams, e cioè: perchè c’è sempre un buco nel mio secchio…?”.
Siamo all’epilogo, il ricordo va a soli quattro anni fa, a “This land is your land” per l’insediamento di Obama a Washington con temperatura sotto zero. Riecco la chitarra acustica, il pubblico ascolta in religioso silenzio. “Veramente questo pezzo era da cantare tutti insieme…”. Così la sala rimbomba in un coro che, proprio come il Boss voleva dimostrare, suona quasi più religioso che patriottico.
“Quel giorno imparai una cosa fondamentale. Imparai che a volte che le cose che arrivano da fuori si fanno strada al tuo interno, e diventano parte del buore che batte nella nazione, e quel giorno quando cantammo insieme quella canzone, americani giovani e vecchi, bianchi e neri, di qualsiasi credo religioso e politico, fummo uniti per un breve momento dalla poesia di Woody”.
E allora, qual è il messaggio da trasferire ai musicisti che assediano a migliaia un Austin giunta al venticinquesimo anno di South by SouthWest? Eccolo, in originale: “So, rumble young musicians, rumble. Open your ears and open your hearts. Don’t take yourselves too seriously and take yourselves as seriously as death itself. Don’t worry. Worry your ass off. Have confidence but doubt, it keeps you awake and alert”.
Ernesto Assante (La Repubblica - 17 marzo 2012)
15 mar 2012 – Tocca a Bruce Springsteen il keynote dell’edizione 2012 del “South by SouthWest” in corso a Austin. All’interno della stipatissima Ballroom D dell’Austin Convention Center, preceduto da una breve esibizione della figlia di Woody Guthrie (del quale il SXSW celebra il centenario della nascita) e del colombiano Juanes, Springsteen (che stasera si esibirà ad Austin in un concerto riservato a 2.500 spettatori, serata di riscaldamento dell’imminente tour che partirà da Atlanta due giorni dopo, domenica 17 marzo), ha preso il palco alle 12.30, accolto da un boato da parte del pubblico.
“Keynote? Non so che ci faccio qui a quest’ora, qualsiasi musicista decoroso dovrebbe essere addormentato – come probabilmente sarò io tra poco”. La versione di Bruce Springsteen di un keynote, si capirà immediatamente, è un misto tra un sermone, un rock and roll show e una lezione di storia della musica. In un discorso inframezzato da brevi pezzi alla chitarra acustica, il Boss traccia in 50 minuti la traiettoria della sua carriera, pescando a piene mani dai ricordi, facendo uso abbondante di autoironia e con un solo obiettivo: svelare al pubblico il potere e l’importanza della musica a prescindere da stili, generi, epoche e interpreti.
“Quando nel ‘64 presi in mano la mia prima vera chitarra, c’erano in giro poche chitarre (non credo che ne avessro costruite abbastanza) e poche band: avevamo alle spalle solo dieci anni di storia del rock, un’inezia, come dal 2002 a oggi. Gli stili si confondevano e sovrapponevano, non c’era l’abbondanza che troviamo oggi nelle vie di Austin”. Springsteen inizia a elencare una sequenza di generi, sottogeneri, nicchie, tag e categorie che dopo pochi minuti diventa esilarante per la sua stessa esistenza e il suo nonsenso (”‘Nintendo Core’?!? Ma che sarebbe?”), ed è l’introduzione che gli serve per ricondurre la sua idea di musica a pochi fondamentali concetti e tappe della sua vicenda artistica. “Voi avete i vostri eroi, io ho i miei” è l’incipit di una serie di una dozzina di istantanee di prima mano. “Ricordate che in decenni di musica, l’unico elemento di coerenza rimane il potere della creatività, la purezza dell’espressione: vale per il punk e per la dance, gli strumenti che utilizziamo non sono rilevanti. Viviamo in un mondo post-autentico, dove ciò che conta alla fine della giornata è ciò che resta quando spegni la luce per andare a dormire”. La catena dei ricordi comincia negli anni ‘50: “Ogni musicista ha il suo momento di genesi: il mio fu Elvis in tv all’Ed Sullivan Show. Con Elvis mi fu chiaro che si poteva usare il potere dell’immaginazione per trasformare se stessi, per trascendere le origini e le costrizioni dalle quali provenivi. La televisione e l’informazione visiva hanno cambiato tutto. Quando Elvis si muoveva, all’improvviso potevi capire cosa stava succedendo nei suoi pantaloni. Elvis e la TV ci diedero pieno accesso a una nuova forma di linguaggio e un nuovo modo di pensare al sesso, alla vita, alla politica. Una volta comparso Elvis, il genio non potè più essere infilato nella lampada. Presi a imitarlo. Allo specchio, naturalmente. Lo faccio ancora (perché, voi no…?)”. Qui Springsteen comincia a cucire gli stili e a ripercorrere le sue influenze fondamentali. “Prima di Elvis c’era il doo wop, lo ascoltavio sulla radiolina a transistor in cima al frigo. Il doo wop, la musica più semplice, sesso allo stato puro, come ascoltare il suono dei reggiseni che venivano sganciati in tutta l’America, il ricordo delle palle livide di dolore dopo avere ballato un lento – ma era un dolore meraviglioso”. Chitarra acustica in mano, Springsteen si produce nella tipica progressione degli accordi doo wop che trascende in un suono che è tanto springsteeniano, giusto per dimostrare dove ha “rubato” la sua musica. “Poi vennero gli anni Sessanta, ma prima ecco Roy Orbison. Lo sfigato più figo che abbiate mai incontrato. Uno che affondava il coltello nel ventre dell’insicurezza adolescenziale. Bastavano certi suoi titoli e certe sue parole… ‘Running scared’… ‘Paranoia’. Roy Orbison mi fece capire che la vita è una tragedia intervallata da momenti di gloria. Quei momenti non sono la vita, ma la pop music… Ed ecco Phil Spector, il wall of sound: i suoi dischi suonavano quasi come caos, il rumore che sprigionava… Se Roy era l’opera, Phil era la sinfonia. Tre minuti di orgasmo seguiti dall’oblio”. La cronaca del rock continua: “Nei primi anni Sessanta arrivò il momento della British Invasion. Era tutto diverso da Elvis e dagli altri. Erano i Beatles, quattro ragazzi che si scrivevano e suonavano da soli le proprie canzoni. Erano cool, classici e formali. Sembravano irraggiungibili. Poi un giorno vidi le loro foto ai tempi del Cavern, avevano capelli impomatati e giubbotti di pelle, visti così non erano più tanto diversi da noi. Erano ragazzi. Per me fu illuminante, mi dissi: allora c’è un modo per arrivare da qua a là. Mi interessa, voglio lavorarci. Ma il mio gruppo fondamentale di quel periodo furono gli Animals: energia, coscienza di classe, era la prima volta che mi imbattevo in qualcosa di simile. ‘We’ve gotta get out of this place’, sentite (e lo suona con l’acustica): era tutto quello che serviva. Mi colpirono profondamente. E poi erano un gruppo senza membri carini, erano la band più brutta del mondo. Nessuna simpatia. Tipo: è la mia vita e faccio quello che mi pare. Eric Burdon non credo abbia mai avuto la faccia da giovane, non sapeva ballare, sembrava un gorilla vestito, non capivi come quella voce potesse uscire dal corpo di un diciassettenne. Gli Animals furono la band più meno apologetica fino all’avvento dei Sex Pistols. A proposito, i Sex Pistols erano spaventosi, non scioccanti – è una cosa diversa. Spaventosi. Comprai un mucchio di dischi punk all’epoca”. Ma prima di addentrarsi nel ‘77 e dintorni, Springsteen fa un passo indietro, fondamentale per il suono della E Street Band. “La musica soul. Gente che cantava ‘ho imparato a fare l’amore prima di imparare a mangiare’… Non era il mio caso, eh. Era musica da adulti, che era cantata da soul men e da soul women, non da teen idols. Dalla Motown al genere più impegnato di Curtis Mayfield. E’ dal soul che ho tratto la mia arte, ho imparato da loro a cantare, a suonare, ad arrangiare, a stare sul palco, a condurre una band”. E’ una sequela di aneddoti, ormai: “A un certo punto io e altri come Elliott Murphy eravamo tutti ‘nuovi Dylan’. E Dylan aveva solo 30 anni! Non volevo essere un nuovo Dylan, ero concentrato a suonare notte dopo notte dopo notte. E’ così che la gente impara a riconoscerti, il tuo biglietto è la tua stretta di mano”. E James Brown? “Il più grande di sempre sul palco, al T.A.M.I. Show sfondò il culo agli Stones. Ma dico, come fai a salire sul palco dopo James Brown? E io adoro gli Stones, ma devi essere un pazzo. Sul palco dopo James Brown? Ma no, vai a casa! James Brown è sottovalutato tuttora”. Tocca a Bob Dylan: “Quando arrivò Bob, ci diede finalmente le parole che mancavano. Sapevamo che c’era qualcosa da esprimere, ma non esisteva ancora un linguaggio perchè un giovane potesse dare verbo a quello che sentiva. ‘How does it feel to be on your own’… Esattamente: se eri un adolescente negli anni ‘50 e ‘60 eri proprio da solo, era così che ti sentivi, perchè i tuoi genitori non riuscivano a comunicare con te in un mondo che stava cambiando del tutto. Bob ci diede le parole e ci trattò da adulti”. E come si passa da Elvis a Hank Williams? “Quando avevo quasi trent’anni sentii di volere crescere, avevo il desiderio di scrivere su temi da adulti, quindi rivolsi la mia attenzione al country. Passai ore ad ascoltare Hank Williams, e impiegai molto a decodificarlo. All’inizio fu difficile comprenderne la grandezza, ma poi ci arrivai, capii la sua bellissima semplicità e se prima mi suonava solo arcaico, alle mie orecchie diventò meraviglioso. Ero attratto dal fatalismo del country. Era raramente arrabbiato in senso politico, raramente critico in modo diretto. Se il rock and roll era un weekend di 7 giorni, il country era un sabato sera infernale con una domenica mattina da incubo. Jerry Lee Lewis fu rock più country. La ricerca della mia identità per me divenne fondamentale. Il country era provinciale, come me del resto: non sono mai stato un cittadino, ne un bohemien. E Woody Guthrie, la cui musica continua a essere così importante ancora oggi, è il ‘ghost in the machine’ di questa nazione. Perchè? Perchè per tutta la vita è quello che ha cercato di riposndere alla domanda fondamentale di Hank Williams, e cioè: perchè c’è sempre un buco nel mio secchio…?”.
Siamo all’epilogo, il ricordo va a soli quattro anni fa, a “This land is your land” per l’insediamento di Obama a Washington con temperatura sotto zero. Riecco la chitarra acustica, il pubblico ascolta in religioso silenzio. “Veramente questo pezzo era da cantare tutti insieme…”. Così la sala rimbomba in un coro che, proprio come il Boss voleva dimostrare, suona quasi più religioso che patriottico.
“Quel giorno imparai una cosa fondamentale. Imparai che a volte che le cose che arrivano da fuori si fanno strada al tuo interno, e diventano parte del buore che batte nella nazione, e quel giorno quando cantammo insieme quella canzone, americani giovani e vecchi, bianchi e neri, di qualsiasi credo religioso e politico, fummo uniti per un breve momento dalla poesia di Woody”.
E allora, qual è il messaggio da trasferire ai musicisti che assediano a migliaia un Austin giunta al venticinquesimo anno di South by SouthWest? Eccolo, in originale: “So, rumble young musicians, rumble. Open your ears and open your hearts. Don’t take yourselves too seriously and take yourselves as seriously as death itself. Don’t worry. Worry your ass off. Have confidence but doubt, it keeps you awake and alert”.
Ernesto Assante (La Repubblica - 17 marzo 2012)
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