domenica 18 marzo 2012

In Italia l'ingresso in magistratura avviene attraverso una procedura assai semplice

In Italia l'ingresso in magistratura avviene attraverso una procedura assai semplice, in qualche misura singolare. È necessario, avendo i requisiti di base (laurea in giurisprudenza, età, assenza di precedenti penali significativi), vincere un concorso per esami ai posti che di volta in volta il Consiglio superiore della magistratura pone a disposizione, essendo venuta meno, per le più svariate ragioni, la relativa copertura. Il concorso si articola in tre prove scritte (diritto civile, penale e amministrativo, con riferimenti di diritto romano per il primo tema, e delle relative procedure per tutti) e in una lunghissima prova orale, che comprende una decina di materie, cui può accedere soltanto chi ha superato gli scritti.
La selezione è rigorosissima, perché a ogni concorso, tramite il quale sono banditi ogni volta circa duecento posti, partecipano migliaia di candidati. I giochi si decidono in massima parte nella prova scritta, assolutamente anonima, perché le commissioni, composte di magistrati e professori di diritto, di regola sono orientate ad ammettere agli orali un numero di candidati pari, o solo leggermente superiore a quello dei posti disponibili. Questo non esclude che varie persone siano dichiarate non idonee nel corso degli orali, ragion per cui può capitare che i vincitori del con-corso non coprano tutti i posti disponibili.
I magistrati sono circa ottomila e ormai - esauritisi, per raggiunti limiti di età, i cosiddetti togliattini, assunti poco dopo la fine della guerra per reclutamento straordinario e così chiamati dal nome del ministro della giustizia dell'epoca - tutti diventati tali a seguito di concorso.
La semplicità della procedura è evidente. La singolarità è duplice: da una parte sta proprio nella semplicità, perché basta il concorso per diventare magistrati (al contrario di quel che avviene in molte altre parti d'Europa e del mondo); dall'altra è nella assoluta indipendenza del metodo, che non consente selezioni basate su altro che non sia la capacità. L'anonimato che caratterizza le prove scritte costituisce una garanzia notevole, anche se non assoluta, di impermeabilità a condizionamenti esterni della commissione esaminatrice.
Il concorso è interminabile, dura in media intorno ai tre anni.
Ho iniziato l'iter per diventare magistrato nel 1971 e l'ho terminato nel 1974. Che il concorso richiedesse un impegno e una preparazione fuori dal comune l'avevo capito già prima di affrontarlo. Convinto di poter mettere a punto la mia preparazione contemporaneamente lavorando, ero riuscito a farmi assumere da una compagnia di assicurazioni, dove ero incaricato di controllare, insieme ad altri colleghi, il lavoro dei liquidatori, e cioè di coloro che constatano i danni e materialmente li risarciscono a chi li ha subiti.
Non essendo capace - credo per natura - di svolgere l'attività con distacco, uscivo dall'ufficio tutte le sere distrutto e disgustato. Distrutto perché i ritmi di lavoro erano frenetici, disgustato perché la bravura consisteva nel rinvenire sistemi che potessero consentire alla compagnia di non risarcire il danno: mi è sempre piaciuto essere bravo, ma mi metteva in conflitto esserlo, come accadeva, a discapito delle persone più deboli.
Insomma, l'intenzione di studiare la sera non era mai diventata concreta, e l'esperimento, che pure avevo tentato, di partecipare al concorso avvalendomi delle sole conoscenze universitarie, completamente fallito.
Quindi mi dimetto, e passo il mio tempo a studiare fino agli scritti del concorso successivo, sbarcando il lunario, la mia moglie di allora e io, con i lavori più strani e più saltuari (e con un non trascurabile aiuto dei rispettivi genitori). Fatti gli scritti (che li avevo superati lo saprò un anno dopo), inizio a frequentare il palazzo.
Erano gli anni delle bombe e degli scontri di piazza.
Dal dicembre 1969, da piazza Fontana, una continua escalation: il 31 maggio 1972 una bomba inserita nel cofano di una Cinquecento fa saltare per aria alcuni carabinieri a Peteano, vicino a Trieste, provocando la morte di tre persone; il 17 maggio 1973 sulla porta della Questura di Milano un altro eccidio, un'altra bomba, e i morti sono quattro; il 28 maggio 1974 a Brescia un ordigno, collocato in un cestino della carta straccia in piazza della Loggia, fa un'altra strage nel corso di una manifestazione sindacale, otto morti; il 4 agosto dello stesso anno un'ennesima bomba, piazzata su un treno, stronca la vita di dodici persone in una delle gallerie che uniscono Firenze a Bologna. Oltre agli attentati che falliscono, alle bombe che fortunatamente non esplodono, o non provocano danni, su altre tratte ferroviarie, sempre intorno Firenze.
Più o meno in quel lasso di tempo, nel corso delle manifestazioni di piazza organizzate dalle destre estreme, dagli eredi del fascismo, piuttosto che dalle sinistre anarchiche e pseudorivoluzionarie, muoiono a Milano il giovane Saverio Saltarelli, colpito dalle forze dell'ordine, Antonio Marino, agente di polizia dilaniato da una bomba a mano, Giannino Zibecchi, travolto da un camion dei carabinieri. Il giovane Sergio Ramelli, estremista di destra, viene sprangato a morte da rivali dell'opposta fazione.
Il 17 maggio 1972 è stato freddato a colpi di pistola Luigi Calabresi, commissario di polizia, quasi un'esecuzione per la pretesa responsabilità della morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, ingiustamente coinvolto nelle indagini per la strage di piazza Fontana. E tanti, tanti altri perdono la vita in scontri di piazza, attentati, agguati, a Milano, a Roma, a Pisa, un po' ovunque.
Prima ancora, nel dicembre 1968, la polizia aveva sparato sui braccianti ad Avola, in Sicilia, causando due morti, e un episodio analogo si era verificato poco dopo, nell'aprile 1969, a Battipaglia, in occasione di uno sciopero del tabacchificio locale. La violenza, "politica e non", non avrebbe più lasciato l'Italia e l'Italia cominciava (o continuava) allora a dividersi.
Forse più del Sessantotto, erede del maggio francese, influenzavano quegli anni l'atteggiamento e la forza dei sindacati, che avevano portato in piazza non soltanto gli operai e per rivendicazioni non soltanto economiche. Il progredire delle parti più de-boli della società era osteggiato pesantemente dall'estrema destra, protetta da consistenti parti deviate dei servizi di sicurezza, ed era reso difficile dagli sbandamenti della sinistra anarcoide sempre più violenta.
Sempre in quegli anni le piazze cominciavano a essere frequentate anche da cortei di borghesi, che si autodefinivano "maggioranza silenziosa", e avevano buone possibilità di inserirsi tra i vari estremismi e rivendicare, pur non avendone titolo, di rappresentare la maggioranza del paese. Questi borghesi si facevano credere, pur senza esserlo, "il centro politico" della nazione, la maggioranza dei cittadini, e lamentavano di non essere considerati perché meno "rumorosi" delle forze che fino ad allora erano scese in piazza.
Il fermento, le assurdità, qualche volta persino i fanatismi dell'epoca si riflettevano all'interno della magistratura.
Nella vita della repubblica la magistratura italiana ha avuto una storia a dir poco vivace. Monolitica e impregnata di una cultura formale dell'indipendenza ma, dal punto di vista sostanziale, spesso inconsapevolmente ossequiente nei confronti degli altri poteri, sottomessa economicamente (si dice non fosse raro, negli anni cinquanta, incontrare giudici con i buchi nelle scarpe), all'inizio, nella stragrande maggioranza dei suoi componenti, viveva isolata nella torre d'avorio che si era costruita e spesso si rifiutava di conoscere la realtà che la circondava.
Gli alti gradi mantenevano atteggiamenti ispirati al modello gerarchico, così forte in epoca fascista, facilitati dalla lentezza esasperante dell'adeguamento delle leggi esistenti alla Costituzione. La possibilità di progredire nella carriera soltanto attraverso esami e ulteriori concorsi uniformava i personali convincimenti giuridici a quelli della Cassazione, e cioè a quelli dei giudici più anziani che, pur non piegandosi, ave-vano consentito che la loro professione convivesse col fascismo.
La storia della magistratura italiana, di molti dei suoi componenti, si è sviluppata attraverso le modificazioni interiori di coloro che ne fanno e ne hanno fatto parte e attraverso il "rimpiazzo" delle idee e dei modi di essere di coloro che se ne sono allontanati per aver raggiunto la pensione, per morte, per aver cambiato lavoro, con le idee e i modi di coloro che via via sono subentrati. È la storia di una tensione crescente, benché contraddittoria, discontinua, non sempre univoca, verso la realizzazione dell'indipendenza sostanziale dagli altri poteri: istituzionali (come il legislativo e l'esecutivo) e non, come il consenso, il denaro, il potere. Un cammino che ancora oggi non è compiuto fino in fondo, perché molti, e da parte di molti, sono i passi da fare per giungere alla completa emancipazione; un cammino che nei primi anni settanta viveva contemporaneamente le maggiori accelerazioni e le maggiori difficoltà.
Superati gli scritti, tramite amici comuni ho conosciuto i primi futuri colleghi. Le mie idee sulla vita erano abbastanza chiare, e mi era abbastanza chiaro come avrei interpretato la mia professione: avevo, e mantengo, un paio di convinzioni profonde - uguaglianza e proporzione - che coincidevano esattamente con l'ispirazione di fondo della Costituzione della repubblica.
I magistrati, associati in una loro organizzazione nazionale contemporaneamente sindacale e culturale, erano allora divisi in quattro correnti, "scuole di pensiero" sul modo di intendere la professione e altro, e io ritenni di frequentare fin da subito Magistratura democratica, quella definita più a sinistra, perché immediatamente mi parve, dopo averla conosciuta dall'esterno attraverso gli scritti dell'epoca (articoli, riviste, pubblicazioni), esprimere i contenuti più vicini alle mie idee. Ciononostante, è stato quasi casuale che i primi futuri colleghi incontrati aderissero a Magistratura democratica. Conoscere qualcuno, e cominciare a frequentare le assemblee, e cioè le riunioni in cui gli iscritti e i simpatizzanti discutevano degli argomenti più vari, è stato tutt'uno. Ed è stato tutt'uno constatarne immediatamente la profondità e gli eccessi.
Anche la nascita delle correnti è il risultato della crescita della magistratura dal fascismo ai giorni nostri. All'inizio non ne esistevano, mentre esistevano due associazioni distinte e separate a livello nazionale, l'Unione magistrati italiani e l'Associazione nazionale magistrati italiani.
Della prima non ha neanche senso parlare perché, raccogliendo i magistrati più anziani, si è prima assottigliata ed è poi scomparsa con il venir meno dei suoi componenti originari, che non hanno avuto che occasionali e sporadicissimi ricambi. L'altra, l'associazione, raduna ormai tutti i magistrati che hanno ritenuto opportuno aderire a un organismo rappresentativo. Essa ha avuto e ha tuttora una vita interna travagliata, ma assai intensa, perché la continua evoluzione del costume e del modo di intendere la magistratura ha creato aggregazioni di magistrati (appunto le correnti) assai mutevoli, in quanto frutto di scissioni, unificazioni, ulteriori scissioni e altre unificazioni e così via, fenomeni legati al cambiare delle idee, degli interessi sindacali, qualche volta del modo di intendere il mondo, raramente (ma è successo anche quello) delle ambizioni dei relativi esponenti di maggior spicco.
Allora, nei primi anni settanta, la mappa delle correnti era la seguente. Magistratura indipendente, la più conservatrice, aggregava al proprio interno soprattutto gli eredi dell'UMI. Un suo leader sarebbe stato espulso dalla magistratura a seguito della scoperta della P2, mentre un altro avrebbe preferito dimettersi ed evitare così il giudizio (lo scandalo avrebbe coinvolto altri colleghi, anche uno appartenente a Magistratura democratica, ma a livello meno grave). Magistratura indipendente era allora maggioritaria e, dato il sistema elettorale esistente a quel tempo, i suoi componenti detenevano la maggioranza assoluta nel Consiglio superiore della magistratura. C'erano poi Terzo Potere, più caratterizzato per la natura sindacale che non per le idee; Impegno costituzionale, dalla natura molto ideale ma anche, per certi aspetti, assai tradizionale; e, ovviamente, Magistratura democratica. Ciascuna corrente aveva vita propria, scandita soprattutto dalle assemblee, nel caso delle più caratterizzate dal dibattito delle idee, piuttosto che da costosi convegni, nel caso delle più conservatrici o sindacalizzate.
Profondità ed eccessi, senso dello stato e interessi di casta, o solo di ceto sociale: com'erano diverse, allora, le correnti!
Esistono due modi distinti d'intendere le professioni e i mestieri, qualunque essi siano. C'è chi pensa che il proprio lavoro debba servire anche agli altri, e chi ritiene che debba servire soltanto a se stessi. In alcuni mestieri, per le loro stesse caratteristiche la differenza si esaspera: ciò si verifica soprattutto quando la professione consiste nell'esercizio di una funzione pubblica, perché la differenza in questo campo è tra il ritenere di svolgere un servizio, anche tecnicamente, e il pensare di esercitare un'attività a proprio favore. Non vorrei essere frainteso, e che si intendesse il "servizio"
come una specie di missione, lo si facesse coincidere con il sacrificio e la rinuncia: prestare un servizio non esclude, e non è conflittuale, con l'aspirazione a un'adeguata retribuzione, con l'assunzione di incarichi direttivi, con la dignità, anche estetica, del proprio posto di lavoro. Comporta, però, che il proprio personale interesse sia subordinato al servizio. Comporta, cioè, che il compenso e il prestigio che derivano dalla professione, la carriera, non siano in conflitto con il servizio che si rende tramite la professione stessa.
Non credo esista una coincidenza tra la partecipazione all'una piuttosto che all'altra corrente e la presenza, o meno, di spirito di servizio. Certo, in qualche corrente si sono ritrovati più facilmente coloro che hanno cercato nella magistratura la soluzione ai propri problemi di potere, economici, o altro, ma non mi è mai parso che sia la corrente di per sé a determinare tali situazioni.
Piuttosto, esistono diversità forti dipendenti dalle sensibilità: verso la Costituzione e la sua attuazione; verso la persona, anche quando autrice di reati; verso il sistema carcerario, in Italia da sempre, e anche ora, disastroso.
All'epoca gli aderenti a Magistratura democratica erano dai più considerati delle specie di sovversivi, nella stragrande maggioranza dei casi solo a causa della loro sensibilità nei confronti della società. Magistratura democratica era molto organizzata, e cercava di portare avanti una proposta di interpretazione della legge che consentisse la massima attuazione della Costituzione, specialmente nel campo dei diritti della persona e della vivibilità dell'ambiente. Gli eccessi nell'ambito professionale esistevano sia circa l'interpretazione della legge, sia circa l'elaborazione di un sistema che da interpretativo della legge poteva diventare ideologicamente orientato, sia circa le modalità di intervento, ma erano in genere marginali. Anche in Magistratura democratica poteva non esistere, nelle singole persone che vi aderivano, il senso delle istituzioni e dello stato. Chi non l'aveva tendeva a strafare, e poteva succedere che assumesse posizioni, che mantenesse comportamenti non coerenti, se non addirittura in contrasto, con la propria funzione di magistrati.
Soprattutto per questo Magistratura democratica era criticata, e i suoi aderenti erano accusati di essere "politicizzati", cioè di strumentalizzare la propria professione a fini politici. Si coniarono definizioni come "pretori d'assalto", con le quali si indicavano i giudici a volte più disinvolti nell'individuare illeciti in attività consentite anche se dannose per la collettività, ma di solito professionalmente assai preparati e attenti a curare l'applicazione di norme che, ponendo divieti per i ricchi e i potenti, sembravano sovente essere cadute in disuso.
Ed era "politicizzata", Magistratura democratica, perché molti al suo interno pensavano. Non è mai piaciuto, al potere, un magistrato che pensa. Non è mai piaciuto nemmeno a tanti magistrati, pensare. Perché, tante volte, pensare, mette in crisi il proprio operato, toglie l'alibi della norma, che va rispettata e basta, tutto il resto sono problemi che non riguardano né il magistrato né tanto meno la sua coscienza.
Che ironia quell'accusa di politicizzazione rivolta a Magistratura democratica! Consapevolmente o meno, tanti magistrati che le erano estranei avevano fatto politica, non tanto perché frequentassero gli studi, i gabinetti e i salotti di personaggi politici di spicco, le stanze di chi stava al potere, quanto perché le loro decisioni erano influenzate dalla forma mentale, dalle ricadute culturali che quelle frequentazioni causavano, o più spudoratamente uniformavano tout court tali decisioni ai desideri dei potenti.
Un altro termine, "collateralismo", coniato allora e usato a senso unico nei confronti di Magistratura democratica sempre per screditare e in qualche modo minare l'autonomia dei suoi aderenti agli occhi dell'opinione pubblica, sarebbe stato invece perfetto per descrivere quelle situazioni, quegli intrecci, quelle elargizioni di favori, quegli "aggiustamenti" che erano in realtà, all'atto pratico, la specialità di altri colleghi. Colleghi che, ovviamente coloro che traevano vantaggio dai loro comportamenti, chiamavano indipendenti.

Gherardo Colombo (Il Vizio della memoria - 1996 - Feltrinelli)

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