Curzio Maltese (La Repubblica del 29/05/2012)
martedì 29 maggio 2012
Formigoni incompatibile
giovedì 24 maggio 2012
A Palermo
mercoledì 23 maggio 2012
Per chi suona la campana Beppe Grillo
La questione non è Grillo. È la richiesta esasperata di cambiamento che i cittadini rivolgono alla politica dopo anni di occasioni perdute che hanno divorato la fiducia nei partiti e nel Parlamento, portandola al livello più basso d'Europa. La crisi fa il resto, erodendo le basi stesse della democrazia, come accade quando la perdita del lavoro si rivela perdita della libertà materiale, senza la quale non c'è libertà civile. Ci si può stupire, a questo punto, se il voto diventa un ciclone in grado di cambiare il panorama politico italiano?
In realtà siamo solo all'inizio. Non ci sono più strutture politiche e culturali in grado di reggere (si chiamavano partiti), lo Stato è indebolito, la democrazia infragilita. Mezzo Paese, addirittura, non crede più nel voto, come se scegliere chi ci governa non fosse importante. Come se il cambiamento fosse impossibile, o peggio, inutile. È facile prevedere che in questa crisi acuta di rappresentanza ogni voto diventerà un redde rationem, ogni antagonista al sistema verrà applaudito, ogni semplificazione sarà premiata. Non si capisce per quale strada e con quali strumenti si potrà costruire una nuova classe dirigente del Paese, perché la protesta non lascia intravvedere nessuna proposta. Ma si capisce benissimo che per la classe dirigente attuale sta suonando il segnale dell'ultimo giro.
Grillo è la spia di tutto questo, ed è una valvola di sfogo. L'impoverimento progressivo della politica, la sua perdita di efficienza, la sua separatezza dai cittadini ha prodotto negli ultimi anni solitudini civiche sparse, smarrimenti individuali del sentimento di cittadinanza, secessioni personali: la platea italiana ideale per essere radunata ogni volta che la politica si riduce ad uno show, quando la battuta di un comico cortocircuita in una risata una situazione complessa, mentre il cittadino è trasformato in spettatore, la partecipazione diventa audience, la condivisione prende la forma di un applauso.
È questa la nuova politica, o è la sua caricatura estrema e paradossale? E tuttavia quanti cittadini delusi e comunque interessati alla cosa pubblica accettano questo elettrochoc per desiderio di cambiamento, per una sacrosanta voglia di facce nuove, di criteri di selezione aperti e trasparenti? Per una domanda - ecco il punto - di autonomia e libertà della politica, aperta alla società e alla sua disponibilità a trovare nuove forme di coinvolgimento, di responsabilità e di impegno?
Il paradosso è vedere ciò che resta dell'armata berlusconiana votare Monti alla Camera, con il rigore e l'austerità, e votare nello stesso tempo Grillo a Parma, con il vaffa e lo sberleffo. Come l'impiccato che compra la corda per il suo boia. Forse il Pdl pensa che i populismi siano tutti uguali, interscambiabili, perché parlano alla pancia degli elettori, ne sollecitano gli istinti, si presentano come alieni al potere, come esclusi, o almeno come outsider. Grillo ha favorito questa scelta, senza mai distinguere tra destra e sinistra, anzi facendo di Parma una questione nazionale ha trasformato il Pd nel suo principale avversario.
Ma questo non basta per spiegare la nemesi del grande populista italiano che va politicamente a morire in braccio ad un comico scegliendolo per disperazione come leader-rifugio, mentre qualche anno fa gli avrebbe offerto tutt'al più un ingaggio serale in qualche drive-in.
In realtà il Pdl cammina barcollante come un partito cieco, senza rotta e senza guida, polverizzato nel voto dei cittadini e nel consenso dei gruppi sociali: non esiste più. La crepa che gli scandali privati (in realtà tutti politici) di Berlusconi hanno aperto tre anni fa nel suo rapporto con gli italiani si è allungata fin qui, fino a decretare dentro le urne municipali quella sconfitta definitiva che l'ex premier e i suoi cantori cercano di dissimulare nella larga coalizione che sostiene Monti.
Berlusconi ha perso il vero piffero magico che aveva nel '94, quando è sceso in campo, e che ha conservato in tutti questi anni: il potere di coalizione. Oggi non coalizza più a destra, con la Lega spappolata dagli scandali contronatura, e nemmeno al centro, dove Casini ogni giorno chiude la porta in faccia ad Alfano, perché non intende tornare sotto padrone, finché Berlusconi rimarrà proprietario dei resti del suo partito.
Il potere di coalizione è invece la vera arma che tiene in piedi il Pd, vittorioso in tutti i calcoli elettorali: ma spesso con candidati altrui, come succede a Palermo e Genova dopo Milano e Napoli. Tuttavia il Pd resiste più degli altri partiti, proprio perché ha una naturale capacità di coalizzare a sinistra, con Di Pietro e Vendola, e un'ipotesi addirittura di allargamento al centro, verso un centrosinistra europeo con Casini. In più, Bersani gode della rendita di posizione di chi vede il suo avversario affondare: anche se dovrebbe domandarsi perché della crisi di Berlusconi beneficia spesso (e clamorosamente) Grillo, mentre dopo l'anomalia berlusconiana in un sistema che funziona dovrebbe essere la sinistra ad avvantaggiarsi direttamente della scomparsa della destra.
Tutto questo dovrebbe consigliare al Pd di non fare sonni tranquilli. La spinta al cambiamento investe di petto anche la sinistra, le domande di rinnovamento sono qui anzi più radicali e più motivate. Perché la grande novità rispetto allo sconvolgimento post-Tangentopoli del '92-94, è che questa volta sono in crisi i valori dell'individualismo, del desiderio, del privato e del liberismo che consentirono a Berlusconi di incanalare a destra il malcontento, di modellarlo sulla sua figura, di ricostruirlo come struttura doppia di ribellione e di consenso per una leadership fortemente anomala rispetto ai partiti moderati e conservatori occidentali.
Oggi questa stagione è tramontata, sepolta in Italia dalla prova di malgoverno e dagli abusi, nel mondo dalla crisi. Il sentimento dominante è quello della percezione della disuguaglianza, con il rifiuto della sproporzione di questi anni, della dismisura, con la richiesta di equità, di giustizia sociale. La vera domanda è una domanda di lavoro, e cioè di obbligazione reciproca davanti alla necessità, di legame sociale, di dignità e di responsabilità. Ecco perché la sinistra è direttamente interpellata dall'esigenza di cambiamento, a cui in questi anni non ha saputo rispondere ma a cui non può più sottrarsi oggi.
O si cambia, semplicemente, o si muore. Bisogna ridare un senso alla politica, alla funzione democratica dei partiti, rendendoli forti perché contendibili, sicuri perché scalabili, finalmente aperti. Bisogna recuperare "l'onore sociale" dei vecchi servitori dello Stato, il potere in forza della legalità, in forza della "disposizione all'obbedienza", nell'adempimento di doveri conformi ad una regola. Il senso dello Stato e del suo servizio: separandosi - e già il ritardo è colpevole - dagli abusi dei costi troppo alti della politica, dai riti esibiti del potere, da tutto ciò che rende la classe politica "casta", cioè qualcosa di indistinguibile, che nel privilegio e nella lontananza annulla opzioni, voti e scelte diverse, che pure esistono, e contano.
Se il Pd pensasse che la domanda di cambiamento radicale della politica non lo riguarda, si suiciderebbe consegnando il campo all'antipolitica. Anche perché la geografia dell'Italia che andrà al voto non sarà quella di oggi. Il vuoto e i voti in libertà a destra cercano un autore, un padrone, un idolo, magari anche soltanto un leader: e qualche nuovo pifferaio sta sicuramente preparando il suo strumento. Se il Pd non cambia, rischia di risultare vecchio davanti a qualche incarnazione post-berlusconiana spacciata come novità.
L'antipolitica genera storie più che biografie, personaggi più che uomini di Stato, semplificazioni più che progetti. Ma un Paese disorientato e disancorato da ogni tradizione politica e culturale occidentale, può finir preda di qualsiasi illusione. Perché l'antipolitica è sempre la spia dell'indebolimento di un sentimento pubblico e di una coscienza nazionale.
Per questo l'establishment italiano (che prepara la corsa ad ereditare qualche spazio politico di supplenza dal vuoto dei partiti) non può ritenersi assolto gettando tutte le colpe sulla politica: ma deve rendere conto di questo deficit complessivo di rappresentanza, di questo improverimento del sistema-Italia, dello smarrimento di ogni spirito repubblicano condiviso. O si cambia, o la campana suona per tutti.
Ezio Mauro (La Repubblica - 23 maggio 2012)
La lotta a Cosa nostra? Una questione di metodo
Una delle offese più sanguinose che si possono infliggere alla memoria di Giovanni Falcone è quella di immaginare, dopo la sua morte, che cosa avrebbe fatto o detto. Eppure questo estremo oltraggio è stato per vent’anni lo sport preferito di molti politici e commentatori, che hanno tentato di usare la sua salma come arma contundente per colpire i magistrati antimafia vivi. “Falcone non avrebbe fatto il processo Andreotti, indagato su Dell’Utri, né sulle trattative Stato-mafia”.
Nessuno può sapere quel che avrebbe fatto Falcone, dinanzi ai nuovi sconvolgenti scenari che si sono aperti dopo la strage di Capaci, quando finalmente centinaia di collaboratori di giustizia si decisero a oltrepassare la soglia che, lui vivo, nessuno aveva mai osato valicare: quella dei rapporti fra mafia e classi dirigenti. Sappiamo però come operava Falcone: basta leggere gli atti delle sue indagini e dei suoi processi, per farsene un’idea. Chi conosce quelle carte, sa bene che nessun magistrato degno di questo nome avrebbe potuto esimersi dal dovere costituzionale di indagare sulle collusioni emerse nell’ultimo ventennio. Ma sa anche che, negli ultimi vent’anni, la soglia probatoria richiesta dai giudici per condannare i colletti bianchi, si è paurosamente alzata. Oggi per inchiodare un intoccabile occorrono prove dieci volte superiori a quelle ritenute sufficienti per gli imputati comuni.
INTOCCABILI & PICCIOTTI - Qualche anno fa, su Micromega, Enrico Bellavia si domandò: “E se Andreotti non fosse Andreotti, ma un Calogero Picciotto qualunque?”. E raccontò la storia di Giovanni Vitale, accusato da un pentito de relato (per sentito dire) di un delitto del 1994 e condannato all’ergastolo per un omicidio che sostiene di non avere mai commesso: “Il pentito – narra Bellavia – è Pasquale Di Filippo, che racconta ai giudici dell’assassinio di un tale Armando Vinciguerra che fu punito per avere messo in giro la voce, falsa, che il boss di San Giuseppe Jato, Bernardo Brusca, stava per pentirsi. Di Filippo dice che di quell’omicidio gli parlò uno che lo aveva fatto, Vincenzo Buccafusca. E quest’ultimo gli avrebbe parlato anche di Vitale.
Giovanni Brusca, figlio di Bernardo, da pentito, racconta soltanto di aver saputo che al delitto partecipò anche un ragazzo. È Vitale? Non è chiaro, ma è lui che finisce nell’elenco di quelli che prendono la condanna a vita. Nessuno quasi se ne accorge. Per ben altro ci si è occupati di quel processo. È il primo nel quale è stato condannato per mafia Vittorio Mangano, lo ‘stalliere di Arcore’. È quello nel quale Marcello Dell’Utri è venuto ad avvalersi della facoltà di non rispondere”. Conclusione: “Chi ci pensa a un Vitale? E se Andreotti non fosse Andreotti, ma Vitale, o Maiorana, insomma uno dei tanti Picciotto, ci si sarebbe arrovellati su un bacio? Oppure lo si sarebbe liquidato come possibile e probabile declinando la gamma dell’ospitalità sicula, così avara di convenevoli, ma gelosa dei propri riti? […] ‘Non poteva non sapere’, ripetono i colpevolisti, spargendo non solo il seme del dubbio, ma evocando un principio in base al quale la gran parte dei processi di mafia a carico dei componenti della Cupola ha ricevuto il bollo in Cassazione.
Un principio in base al quale sono state pronunciate le venti condanne a carico di Totò Riina, che certo non ha firmato alcun ordine di servizio per alcuno dei cento omicidi di cui lo si è accusato. ‘I riscontri, i riscontri, sono mancati i riscontri’, hanno urlato sui giornali i più prudenti, quelli che si sono provati in un’analisi che non fosse la solita filastrocca sulle toghe rosse pronte a porre un sigillo giustizialista sulla storia. Ma in un processo per mafia, che ruota intorno alla necessità di provare ciò che è coperto da un vincolo di segretezza, cos’è un riscontro? È un fatto, quando c’è, ma anche una serie di indizi che costituiscono una prova logica…”.
Chi non coglie o non vuole cogliere questo aspetto ha preferito in questi anni contrapporre il “metodo Falcone” al “metodo Caselli” o più recentemente al “metodo Ingroia”: il primo serio, rigoroso, prudente, fondato su prove granitiche e pentiti “veri”, “garantista” con tutti i crismi e i riscontri, dunque foriero di grandi successi processuali; gli altri due disinvolti, irruenti, “emergenziali”, fondati su teoremi evanescenti e su pentiti falsi o bugiardi, senza prove né riscontri, “giustizialisti” e dunque votati al fallimento. Ma è davvero così? Se fosse così, Caselli e Ingroia non avrebbero raccolto molte condanne nemmeno nei processi all’ala militare di Cosa Nostra: lì, invece, non ne hanno mancata una. E allora?
IL POOL DA TORINO A PALERMO - Fu proprio Caselli, insieme con un pugno di colleghi torinesi impegnati contro il terrorismo, a inventare il lavoro in pool, dal quale poi impararono Chinnici e Caponnetto trapiantando quel modello a Palermo nelle indagini di mafia con Falcone, Borsellino e gli altri. Fu Caponnetto a telefonare a Caselli per chiedergli spiegazioni sul metodo del pool di Torino: “Come fate ad affidare a più giudici istruttori una stessa inchiesta, visto che per il nostro codice il giudice istruttore è monocratico?”. Caselli ricorda tutt’oggi con emozione quella telefonata: “Le primissime inchieste sulle Br, di competenza di Torino, erano state assegnate tutte a un solo giudice istruttore, che ero io: erano le inchieste che avevano al centro i sequestri Labate, Amerio e Sossi, operati dal nucleo storico delle Brigate rosse. L’idea di formare un pool ci venne in mente dopo l’assassinio delprocuratore generale di Genova, Francesco Coco, ucciso nel 1976 con la sua scorta. Mi chiamò nel suo studio il capo dell’Ufficio Istruzione di Torino, Mario Carassi, che mi affidò l’inchiesta Coco dicendomi che però, da quel momento, tutte le inchieste di terrorismo sarebbero state assegnate con me anche ad altri colleghi: ‘È bene che tu non sia più solo, l’estensione del terrorismo è sempre maggiore, per cui è necessario che vi siano in campo più risorse per contrastarlo. E poi, più obiettivi possibili vi sono, minore diventa il rischio per ogni singola persona’. Casomai fosse successo qualcosa a uno di noi, sarebbero restati gli altri ad andare avanti. In quei giorni nacquero i pool. Anche a Palermo decisero di lì a poco di adottare un’interpretazione simile alla nostra”.
Quando nel gennaio 1993 approda a Palermo, avendolo “inventato”, Caselli conosce bene quel metodo. E così i magistrati della Procura, che l’hanno sperimentato per anni lavorando fianco a fianco con Falcone e Borsellino. I tempi sono diversi, ma il sistema è identico. E identici sono gli strumenti – i pentiti, i riscontri, l’associazione mafiosa, il concorso esterno – anche se ora c’è in più la legge sui collaboratori di giustizia, che Falcone e Borsellino avevano chiesto per anni e avevano ottenuto solo dopo la morte.
IL CONCORSO ESTERNO - Anche il contestatissimo concorso esterno in associazione mafiosa era, per Falcone e Borsellino, un reato sacrosanto: l’unica arma per recidere le collusioni politico-istituzionali che garantiscono lunga vita e grande potere alla mafia. I due magistrati lo scrissero nero su bianco – plasmando la figura giuridica (tutt’altro che sconosciuta in passato) del concorso esterno in associazione mafiosa – nella sentenza-ordinanza del processo “maxi-ter” a Cosa Nostra, il 17 luglio 1987: “Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono – eventualmente – realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa”. E – aggiungevano – è proprio questa “convergenza di interessi” col potere mafioso […] che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”.
Collusioni politico-istituzionali che potevano portare anche all’assassinio, come disse ancora Falcone a proposito dei delitti “politici” Mattarella, Dalla Chiesa, Reina e La Torre: “Omicidi in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi e di oscuri interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica, fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti, che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole davvero voltare pagina. Non per nulla, è proprio dal 1987 che si intensifica la guerra politico-mediatica al pool di Falcone e Borsellino, fino a impedir loro di lavorare a Palermo: appena lasciano intendere che le loro indagini stanno per investire i piani alti delle collusioni istituzionali, il pool viene spazzato via da corvi, manovre della politica e dell’ala più retriva della magistratura, dal tritolo.
UN PENTITO PIÙ UN PENTITO - Anche sull’uso dei pentiti, il metodo Falcone e il metodo di Caselli e dei suoi allievi coincidono. Basta leggere il mandato di cattura spiccato nel 1984 per i cugini Nino e Ignazio Salvo dopo le rivelazioni di Buscetta. Il pentito aveva raccontato che gli esattori erano “uomini d’onore” e che lo avevano ospitato durante la latitanza nella loro villa di Santa Flavia. Quali riscontri trovarono i giudici del pool alle sue parole? Si fecero descrivere gli ambienti della villa, poi andarono a verificare sul posto se quella descrizione corrispondeva alla realtà. Corrispondeva. Così i Salvo finirono in carcere. Lo stesso metodo fu seguito, spesso con maggiore dovizia di riscontri, dalla Procura di Caselli per verificare le accuse dei pentiti nei vari processi, più o meno eccellenti, celebrati fra il 1993 e il 1999, a carico di Andreotti, Dell’Utri, Contrada, Carnevale, Mannino e tanti altri. E ancora, basta scorrere le ordinanze di rinvio a giudizio e le sentenze dei tre maxiprocessi a Cosa Nostra per rendersi conto che la “convergenza del molteplice” – cioè il valore probatorio delle dichiarazioni incrociate di più pentiti, riconosciuto dall’articolo 192 del codice di procedura penale – stava già alla base delle indagini del vecchio pool di Palermo (che infatti venne accusato di “abuso” dei pentiti, proprio come il nuovo pool).
Gli imputati dei tre maxiprocessi furono condannati su elementi molto meno consistenti di quelli che hanno portato all’assoluzione per insufficienza di prove di vari politici nell’ultimo quindicennio. Il che si spiega, appunto, con quel progressivo “innalzamento della soglia probatoria” che chi vuole giudicare in buona fede non può non notare, confrontando le sentenze degli anni 80 con quelle degli anni 90 e 2000.
LE PAROLE INCROCIATE - Un solo esempio, fra i mille possibili. Nell’ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio del “maxi-uno”, Falcone e Borsellino scrivono: “Le rivelazioni di Buscetta e di Contorno si integrano e completano a vicenda, provenendo da personaggi che hanno vissuto esperienze di mafia da diversi punti di osservazione”. Avendo due soli pentiti a disposizione, bastava l’incrocio fra le loro dichiarazioni per riscontrarle entrambe. E tanto bastò ai giudici per condannare centinaia di mafiosi a pene molto pesanti. Anche quando i pentiti raccontavano notizie di seconda mano (de relato). Sono ancora Falcone e Borsellino a scrivere, nel ricorso contro la scarcerazione di un presunto mafioso chiamato in causa da Totuccio Contorno: “Se un uomo d’onore apprende da un altro consociato che un terzo è un uomo d’onore, quella è la verità. Non importa conoscere fisicamente l’uomo d’onore”. Il giudice diede loro ragione e il presunto mafioso fu riarrestato qualche tempo dopo, in compagnia di un latitante. Il pool commentò: “L’episodio costituisce la più chiara dimostrazione del grado di attendibilità di Contorno e dovrebbe indurre a rifuggire da quell’aprioristico atteggiamento di generalizzata svalutazione delle chiamate in correità da parte dei pentiti in mancanza di altri riscontri”. Per molto meno, oggi, un magistrato antimafia finirebbe sotto procedimento disciplinare, tacciato di giustizialista, golpista e naturalmente toga rossa.
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano - 20 maggio 2012)
lunedì 14 maggio 2012
I tedeschi accusano: l’Italia entrò nell’euro con il trucco
Proprio mentre Monti comincia ad arginare il rigore della Merkel in Europa, dai cassetti della Cancelleria di Berlino escono documenti imbarazzanti, rivelati dallo Spiegel: Kohl non si fidava dei numeri di Prodi e Ciampi (Redazione Il Fatto Quotidiano | 13maggio 2012)
Documenti di fonte governativa tedesca appena resi noti rivelano che molti in seno alla Cancelleria di Helmut Kohl nutrivano seri dubbi sulla moneta comune europea quando nel 1998 si prese la decisione di introdurla. Helmut Kohl disse che tutti avrebbero avvertito il “peso della storia, la decisione di introdurre la moneta unica”. Il 2 maggio 1998, a Bruxelles, Kohl e i suoi colleghi presero una decisione di enorme importanza. Undici Paesi – tra i quali la Germania, la Francia, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo e l’Italia – sarebbero entrati a far parte della nuova moneta unica europea.
Il peso della storia A 14 anni di distanza “il peso della storia” si fa sentire più che mai. Per ragioni politiche furono accolti nell’euro Paesi che all’epoca non erano pronti. Il governo tedesco ha messo a disposizione centinaia di documenti che vanno dal 1994 al 1998 e riguardano l’introduzione dell’euro e la decisione di accogliere l’Italia nell’Eurozona. A leggerli si capisce che l’Italia non avrebbe dovuto essere accolta nell’Eurozona. La decisione di accoglierla si fondò esclusivamente su considerazioni politiche. La decisione creò un precedente per un errore più grave due anni dopo: far entrare la Grecia. Ma Kohl preferì dimostrare che la Germania, anche dopo la riunificazione, rimaneva profondamente europeista, definiva la moneta comune “una garanzia di pace”.
Operazione Auto-inganno I documenti dimostrano che Berlino conosceva bene il reale stato dei conti pubblici italiani. L’operazione “auto-inganno” ebbe inizio nel 1991 a Maastricht. I capi di Stato e di governo europei si erano riuniti per prendere la decisione del secolo: l’introduzione dell’euro entro il 1999. Per garantire la stabilità della nuova moneta furono concordati severissimi criteri di accesso. La Commissione europea e l’Istituto monetario europeo avevano compiti di controllo e i leader europei dovevano prendere una decisione definitiva nella primavera del 1998. L’Italia raggiunse, almeno sulla carta, i parametri alla vigilia della scadenza. Ma esponenti della Cancelleria tedesca a Bonn avevano qualche dubbio. Nel febbraio del 1997, dopo un vertice italo-tedesco, un funzionario osservò che il governo di Roma aveva dichiarato, “con grande sorpresa dei tedeschi”, che il deficit di bilancio era inferiore a quanto indicato dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dall’Ocse (Ocse). Ma poco prima del vertice un funzionario tedesco d’alto grado aveva scritto in un promemoria che secondo le nuove regole per il calcolo degli interessi, la riduzione del deficit italiano era stata dello 0,26 per cento appena. Pochi mesi dopo Jürgen Stark, sottosegretario alle Finanze, riferì che i governi di Italia e Belgio avevano “esercitato pressioni sui governatori delle rispettive Banche centrali violando l’impegno di autonomia degli istituti centrali” per evitare che gli ispettori dell’Ime non affrontassero “con un approccio eccessivamente critico” il tema del debito sovrano dei due Paesi.
I dubbi sui tagli A Maastricht, Kohl e gli altri leader avevano fissato al 60 per cento del Pil il tetto massimo del debito “a meno che il rapporto non evidenzi un sufficiente grado di decremento avvicinandosi rapidamente al valore di riferimento”. Il debito italiano era pari al doppio e tra il 1994 e il 1997 il debito era diminuito di appena tre punti. “Un debito del 120 per cento significava che questo criterio di convergenza non poteva essere soddisfatto – dice Stark oggi – Ma la domanda politicamente rilevante era: possiamo lasciare fuori dall’euro paesi fondatori della Cee?”. “Fino al 1997 inoltrato noi del ministero delle Finanze non credevamo che l’Italia sarebbe riuscita a soddisfare i criteri di convergenza”, dice Klaus Regling, all’epoca direttore generale delle Relazioni finanziarie e internazionali del ministero delle Finanze. Oggi Regling presiede il Fondo Salva Stati EFSF. Il 3 febbraio 1997, il ministro tedesco delle Finanze osservava che a Roma “erano state completamente tralasciate misure strutturali di taglio della spesa pubblica per evitare ricadute negative sul consenso sociale”. Il 22 aprile in un appunto del portavoce della Cancelleria si affermava che era “quasi impossibile” che “l’Italia potesse soddisfare i parametri”. Il 5 giugno il dipartimento dell’economia della Cancelleria riferiva che le prospettive di crescita dell’Italia erano “modeste” e che i progressi compiuti in materia di consolidamento dei conti pubblici erano “sopravvaluta-ti”.
L’inganno di Kohl I documenti appena resi noti inducono a ritenere che Kohl abbia ingannato sia l’opinione pubblica che la Corte costituzionale tedesca. All’epoca quattro professori si erano rivolti alla Corte costituzionale per impedire l’introduzione dell’euro. La richiesta era “chiaramente infondata”, dichiarò il governo dinanzi alla Corte sostenendo che sarebbe stata giustificata solo nel caso di un “sostanziale scostamento” rispetto ai criteri di Maastricht e che tale scostamento “non c’era né era prevedibile”. Davvero? Dopo un incontro tra il Cancelliere, il ministro delle Finanze Theo Waigel e il presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, il direttore della Divisione per l’economia della Cancelleria, Sighart Nehring, osservò verso la metà di marzo del 1998 che “l’elevatissimo debito” dell’Italia poneva “enormi rischi”. Ma il promemoria non ebbe ripercussioni. I funzionari di Bonn affidavano le loro speranze a due uomini che avevano iniziato a rimettere le cose a posto in Italia: il primo ministro Romano Prodi e il suo ascetico ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, già governatore per molti anni della Banca d’Italia. “Senza Ciampi l’Italia non sarebbe mai riuscita ad entrare nell’Eurozona”, dice l’ex ministro delle Finanze Waigel. Ciampi e Prodi ottennero risultati relativamente positivi rispetto ai loro predecessori. Grazie alle riforme e ai tagli di spesa riuscirono a ridurre il ricorso al credito e ad abbassare il tasso di inflazione. Ma il paese aveva problemi ben maggiori e il governo ne era consapevole. Infatti gli italiani nel 1997 proposero in due circostanze di rinviare il varo dell’euro. Ma i tedeschi non accettarono. L’ex consigliere di Kohl, Bitterlich, ricorda che i tedeschi avevano affidato a Ciampi le loro speranze: “Tutti lo ritenevano il garante dell’Italia e in un certo senso pensavano che sarebbe riuscito a sistemare le cose”.
Equilibrio creativo È anche chiaro, ovviamente, che Kohl era deciso ad arrivare all’unione monetaria prima delle elezioni del 1998. La sua rielezione era a rischio e il suo sfidante, il socialdemocratico Schroeder, era noto per essere un euroscettico. Alla fine gli italiani riuscirono a soddisfare, almeno formalmente, i criteri di Maastricht grazie a qualche trucco e ad alcune circostanze fortunate. Il paese trasse vantaggio da tassi di interesse bassissimi e Ciampi si rivelò un creativo giocoliere della finanza pubblica. Introdusse, ad esempio, l’Eurotassa e ideò un intelligente trucco contabile consistente nel vendere le riserve auree del paese alla Banca centrale tassando i profitti. Il deficit di bilancio di conseguenza diminuì. Anche se in ultima analisi Eurostat non avallò questi stratagemmi, simbolicamente si ebbe la conferma di quello che era il fondamentale problema italiano: il bilancio non era in equilibrio, ma gli effetti speciali avevano prodotto conseguenze positive.
“Ingresso inaccettabile” Questa realtà non sfuggì ai funzionari della Cancelleria. In un promemoria datato 19 gennaio 1998, Bitterlich sottolineava che la riduzione del deficit si fondava essenzialmente sull’Eurotassa e sui tassi di interesse che erano diminuiti molto più che in altri Paesi. Poche settimane dopo, alcuni rappresentanti del governo olandese si misero in contatto con la Cancelleria e chiesero un “incontro riservato”. Il segretario generale del primo ministro olandese e il sottosegretario alle Finanze volevano esercitare pressioni su Roma. “Senza misure aggiuntive da parte dell’Italia tali da dare prova della sostenibilità sul lungo periodo del consolidamento, allo stato attuale l’ingresso dell’Italia nell’Eurozona è inaccettabile”, sostenevano i funzionari olandesi. Kohl, temendo che fallisse il suo più importante progetto dopo la riunificazione, respinse queste obiezioni. Disse agli olandesi che il governo francese lo aveva avvertito che la Francia, in caso di esclusione dell’Italia, si sarebbe ritirata dall’unione monetaria.
La pausa dopo lo sforzo Nella primavera del 1998, Eurostat certificò che gli italiani erano in linea con i criteri in materia di deficit fissati dal Trattato di Maastricht. Ciò significava che “non c’era più ragione di impedire l’ingresso dell’Italia nell’euro”, ricorda Waigel. Dopo che questo ostacolo era stato superato, “gli italiani potevano rivendicare il diritto giuridico di entrare nell’Eurozona fin dall’inizio”, ricorda oggi Regling. Tre mesi dopo, quando l’Italia si era assicurata l’ingresso nell’euro, il problema venne a galla. Il 10 luglio 1998 l’ambasciatore Kastrup disse ad alcuni funzionari di Bonn che l’Italia era in fase di “stagnazione” e che il governo italiano “si stava prendendo una pausa dopo lo sforzo straordinario fatto per soddisfare i criteri di Maastricht”. La pausa divenne lo status quo.
di Sven Boll, Christian Reiermann, Michael Sauga e Klaus Wiegrefe
sabato 12 maggio 2012
Delio, elogio del cazzotto "una tantum"
Perchè tutti (o quasi) noi maschi abbiamo tifato per Delio Rossi, l'allenatore della Fiorentina che, irriso e sbeffeggiato dal giocatore Adem Liajic, appena sostituito, gli si è gettato addosso colpendolo con tre o quattro cazzotti ben assestati? Perchè, in questo mondo femmineo, abbiamo visto, finalmente, una reazione virile. Ci voleva del coraggio a 52 anni suonati, al limite dell'infarto, per battersi con un ragazzo di vent'anni, un atleta nel pieno della sua forza, per di più serbo, e suonargliele. Con quell'atto Rossi ha perso, forse, la sua autorità di allenatore, ma ha riguadagnato la sua dignità di uomo.
Naturalmente a livello ufficiale e istituzionale c'è stata l'esecrazione generale per Delio Rossi, così come era avvento quando un passante aveva mollato un cazzotto al quarantenne Daniele Capezzone, che invece di restituirglielo era andato a 'chiagne' da mammà.
In Italia si può fare di tutto, farsi pagare la metà della casa, avere frequentazioni mafiose, grassare denaro pubblico, e rimanere all'onore del mondo, ma se uno, preso da comprensibile ira, sferra un cazzotto è irrimediabilmente out.
Il benessere, insieme a suo figlio il 'politically correct', ha compresso innaturalmente tutti i nostri istinti fra cui c'è anche l'aggressività. E un quantum di aggressività è invece necessario perchè fa parte della vitalità. Il nostro atteggiamento tremebondo di fronte agli immigrati deriva proprio da questo: che loro sono vitali, noi non più. Qualche tempo fa mi è capitato di assistere in corso Buenos Aires, una grande strada commerciale di Milano, a questa scena. Due giovani italiani, un ragazzo e una ragazza sui tren'anni, hanno incrociato un albanese che ha squadrato dalla testa ai piedi, con insistenza, la donna, in un modo oggettivamente offensivo. Il ragazzo si è permesso di dire qualcosa all'albanese che lo ha ripagato con un tremendo ceffone. E il ragazzo, tenendosi la guancia: “Ma no, parliamone...”. Parliamone? Doveva riempirlo di botte.
Questo verboten assoluto alla aggressività fisica ha poi un'altra, e più grave, conseguenza. A furia di essere scomunicata l'aggressività, come una molla troppo compressa finisce per esplodere, di colpo e d'improvviso, nelle forme più mostruose: l'automobilista che, armatosi di cacciavite, uccide per un sorpasso o la serie infinita dei feroci delitti delle 'villette a schiera' come li definisce Guiso Ceronetti e di cui son piene le cronache. Tutto procede secondo la norma nelle 'villetta a schiera', non c'è polvere, non c'è calcare nelle lavatrici, lei prende 'activia' per 'aiutare la sua naturale regolarità', ai bambini, dio guardi, non si può dare nemmeno uno scapaccione. Ma viene il momento in cui questo ordine diventa insopportabile e precipita nel più sanguinario disordine. Non si può e non si deve pretendere, come vuole l'astrattezza illuminista, di eliminare totalmente l'aggressività umana, oggi espulsa anche dal mondo del calcio che, nel suo significato più profondo, è una metafora della guerra (adesso la Tv spia anche il labiale per punire un giocatore che, preso un tremendo pestone, si è lasciato andare a una sacrosanta bestemmia).
Come sapevano gli antichi l'aggressività non va eliminata, ma incanalata in modo da essere controllabile cosicchè non superi il livello di guardia. I neri africani, come ho raccontato nel Battibecco di ieri, ricorrevano alla festa orgiastica e alla guerra ritualizzata. Noi occidentali non possiamo più fare la guerra, né vera né finta ( la deleghiamo alle macchine e ai robot), abbiamo perso la passione nazionale e quella delle ideologie, viviamo di numeri e fra i numeri, Iban, Cin, Pin, Cellulari, i-phone, i-pad, insomma nel mondo virtuale. Che ci resta? Un vecchio sano, caro cazzotto, una tantum, può essere uno sfogo salutare per evitare guai peggiori. Per me Delio Rossi è un'icona. Un Mito.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2012)