Nel sistema di potere della seconda repubblica Roberto Formigoni ha recitato la parte del “terzo uomo”, per ricordare il personaggio del grande Orson Welles. Per vent’anni è stato più potente di qualsiasi ministro. È STATO il custode della cassaforte dei voti che ha consentito al centrodestra di governare l’Italia a partire dalla Lombardia e infine, ma non ultimo, il terminale di molti misteri. Ora che i misteri cominciano a rivelarsi e il sistema di potere crolla, Formigoni è rimasto l’unico della triade a non volerne prendere atto. Il primo uomo, Berlusconi, si è dimesso da palazzo Chigi, il secondo, Umberto Bossi, ha alla fine rinunciato a ricandidarsi alla guida della Lega. Entrambi senza aspettare l’esito dei processi in corso. Formigoni no. Resiste, vuole rimanere fino alla sentenza definitiva, insomma una decina d’anni, s’aggrappa alle teorie del complotto, svicola, sfugge, non ricorda e poi ricorda male, dice e contraddice, attacca Repubblica e Corriere della Sera e soprattutto racconta il falso. Sarebbe anche peccato mortale, per un credente come lui, prima ancora che un reato. In ogni caso è una frode politica. Il governatore dovrebbe dimettersi per tante, troppe buone ragioni e tutte gravi. In realtà infatti ne basterebbe una sola per motivare il passo indietro. Ma al nostro Celeste, come sempre, piace abbondare. La prima è lo scandalo che lo tocca di persona: le vacanze nei resort di lusso, le crociere sullo yacht e gli aerei privati, i privilegi e i conti da sceicco pagati a Formigoni dall’imprenditore Pierluigi Daccò. Un elenco che Daccò, negli interrogatori resi ai magistrati, continua ad aggiornare con particolari sempre più sbalorditivi: anche un contratto fasullo di noleggio del megayacht che è stato per 4 mesi a disposizione di Formigoni e del suo amico e convivente nel collegio ciellino Alberto Perego. Ora spunta anche una villa di 13 vani nel cuore della Costa Smeralda, fra Cala di Volpe e il Pevero, che Daccò avrebbe venduto al prezzo, forse troppo amichevole, di 3 milioni di euro a Perego. Lo stesso Formigoni avrebbe partecipato all’affare versando nel maggio 2011 a Perego la somma di 1 milione 100 mila euro, ovvero l’equivalente del reddito dichiarato dal governatore negli ultimi undici anni. Formigoni finora è sempre caduto dal pero. Turista per caso prima, ora proprietario per caso di una villa da miliardari. Le sue versioni sullo scandalo si sono fatte via via sempre più fumose e ognuna cancellava la precedente. «Sono le parole contraddittorie di un uomo disperato» è la sua ultima autodifesa. Ma non si capisce più bene se Formigoni si riferisca a Daccò o a sé stesso. La seconda ragione per cui il governatore dovrebbe dimettersi è che alla guida della giunta e del consiglio regionale con più indagati e arrestati d’Italia. Quindi, del mondo. A meno di non considerare anche questa “un’eccellenza della Lombardia”, per usare la più abusata formula del formigonese, il buon senso impone di chiudere la pratica e tornare alle urne. In tempi in cui i partiti meditano di introdurre uno sbarramento nei confronti dei candidati inquisiti, fosse soltanto per paura di Grillo, che senso ha mantenere in piedi nella terza assemblea parlamentare del Paese una succursale delle aule di giustizia o di San Vittore? Il terzo motivo è che Formigoni ormai guida una maggioranza zombie, inesistente sul famoso territorio. Alle ultime amministrative, l’alleanza Pdl-Lega in Lombardia ha perso oltre la metà dei voti e quasi tutti i comuni. Per spostamenti elettorali assai meno rilevanti, sia a livello locale che nazionale, quando governava il centrosinistra l’opposizione berlusconiana ha sempre invocato il voto anticipato, urlando al «golpe di fatto». Pazienza per Formigoni, che ormai non ricorda neppure dove ha trascorso l’ultimo Natale. Ma gli altri, il Pdl,la Lega del moralista Maroni? La giunta dello yachtman Formigoni è una nave fantasma, senza equipaggio né rotta, in vista di alti scogli. Nel mezzo di una crisi feroce, l’Italia intera non può permettersi di vedere la regione di gran lunga più importante bloccata intorno a un governo che non ha consenso e non può guardare né tantomeno programmare il futuro. Il governatore passa le giornate a studiare nuove strategie difensive. La giunta e il consiglio sono paralizzati dalle inchieste giudiziarie. Gli elettori hanno diritto di essere chiamati al più presto a scegliere un nuovo governo cui affidare i grandi progetti in corso d’opera, dall’Expo del 2015 alle grandi infrastrutture. Nella speranza di poter nominare una classe dirigente più capace e pulita di quella oggi rappresentata nel consiglio lombardo, da Formigoni a Penati, passando per Minetti e Bossi junior. Onestamente, non ci vuole molto.
Curzio Maltese (La Repubblica del 29/05/2012)
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