venerdì 27 luglio 2012

Lettera aperta a Beppe Grillo

Caro Beppe,

mi permetto di scriverti questa ‘lettera aperta’ in ragione di una conoscenza che risale a metà degli anni Ottanta e che poi è venuta consolidandosi in un’amicizia, personale ma anche, sia pur parzialmente, politica.

All’inizio della tua ‘lunga marcia’ di avvicinamento alla politica attiva, che dura ormai da più di un quarto di secolo, tu, che eri rimasto colpito e forse anche un poco influenzato dal mio libro La Ragione aveva Torto? , mi chiedesti qualche consiglio per i tuoi primi show non più propriamente comici ma non ancora compiutamente politici. Passarono gli anni, il tuo movimento si consolidò, prese la sua direzione e certo di consigli, almeno da parte mia, non avevi più bisogno. Mi invitasti però al tuo primo VDay, quello di Bologna, dove parlai dal palco, con Travaglio, Sabina Guzzanti e altri. Ricordo queste cose non a tuo uso, ovviamente, ma del lettore perché non mi scambi con uno di quelli che, volendo salire sul carro del vincitore, scopre improvvisamente ‘il grillino che è in mè’ ma nemmeno per uno dei tuoi seguaci o adepti. Molte cose mi separano dal movimento Cinque Stelle a cominciare dalla mancanza di un solido impianto teorico per cui nei vostri programmi troppo spesso ci sono obbiettivi contraddittori (nel senso che l’uno esclude l’altro). Tu inoltre sei un ‘tecnoecologista’, credi cioè che la situazione ambientale, che peraltro è solo uno, e non il più importante, dei problemi che ci stanno di fronte, sia risolvibile con l’uso di tecnologie sempre più sofisticate, mentre io penso, come mi disse Paolo Rossi (che non è il comico e nemmeno il centravanti della Nazionale che vinse i Mondiali del 1982) ma un filosofo della Scienza, che “la tecnologia come risolve un problema ne apre altri dieci ancora più complessi”. Ciò che invece condivido ‘in toto’ è proprio il tuo essere ‘antipolitico’ cioè un uomo che dà battaglia su tutta la linea a una classe dirigente, politica ed economica, indecente, che in trent’anni di malgoverno, di malaffare, di abusi, di soprusi, di arroganza ci ha portato sull’orlo del baratro, finanziario, etico, esistenziale. E ammiro lo sforzo con cui, grazie a un enorme dispendio di energie, fisiche e intellettuali, sei riuscito a creare un movimento che può, forse, azzerare la vecchia politica una volta per sempre, tutta, dal vecchio barbagianni Napolitano all’ultimo dei lottizzati Rai. Quando ti accusano di fare dell’ ‘antipolitica’ non si rendono conto di farti il miglior elogio. Perché fare dell’antipolitica dopo trent’anni di ‘quella’ politica, o che per tale si spacciava e si spaccia, significa fare politica nel senso migliore del termine. E tu, Beppe, oggi sei un politico a tutti gli effetti anche se a molti conviene far finta di credere che sei ancora un comico e un uomo di spettacolo.

E qui sta il punto. Certe cose che ti erano concesse come comico non lo sono più come politico. La battuta su Rosy Bindi nell’ambito della disputa sui matrimoni gay (“problemi di convivenza col vero amore non ne ha probabilmente mai avuti”) va bene per l’avanspettacolo, ma è politicamente inaccettabile oltre che sommamente volgare. In questo modo ti metti sul piano di Berlusconi che a proposito della stessa Bindi disse: “Lei è più bella che intelligente” o, per scendere negli infimi, di Vittorio Sgarbi che non trova di meglio, per accusarti, di aver tentato, penso in epoche plioceniche, un flirt con sua sorella, Elisabetta. Che discorsi son questi, che ‘ci azzeccano’ come direbbe Di Pietro? L’aspetto fisico di una persona è materia per vignettisti, non per uomini politici responsabili. E sui sentimenti nessuno ha diritto di sindacare. Che diresti tu se io scrivessi che “non hai mai amato veramente”?. Penseresti che sono un ‘belinone’ che si impiccia in affari di cui nulla sa e può sapere e che comunque non lo riguardano minimamente.

Il mio consiglio, caro Beppe, è di dimenticarti di essere stato un comico, un ottimo comico, e di diventare definitivamente (per usare Pindaro) ciò che sei oggi: un ottimo politico. So bene, caro Beppe, che, per dirla con le parole di un tuo grande concittadino, Fabrizio De André “è facile dare consigli quando non si può più dare cattivo esempio”. Ma accetta ugualmente l’affettuoso consiglio da ‘vecchia zia’ che ti mando attraverso questa lettera.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2012)


lunedì 23 luglio 2012

La lettera di Roberto Scarpinato: “Caro Paolo, tempo scaduto per i sepolcri imbiancati”

L’intervento di Roberto Scarpinato, procuratore generale della Corte di Appello di Caltanissetta, letto alla commemorazione per i 20 anni dell’assassinio di Paolo Borsellino, con il quale ha lavorato fianco a fianco nel pool antimafia.

Caro Paolo, oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.

E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e a barattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.

Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.

Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.

Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.

Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.

E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.

Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso.

Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “ Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.

Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.

Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”.

Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.

Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.

Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.

Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.

E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito.

Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.

Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.

Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.

E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.

Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.

Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo.

Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.

Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.

E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti.

Per questo dicesti a tua moglie Agnese: Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.

Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito.

Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.

Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte.

E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.

Roberto Scarpinato (Il Fatto Quotidiano - 22 luglio 2012)


domenica 22 luglio 2012

I fatti del Fatto

Nella prima metà di luglio il Fatto Quotidiano ha venduto in edicola una media di 56 mila copie giornaliere che, sommate ai 26 mila abbonamenti fanno 82 mila.
ilfattoquotidiano.it  ha ogni giorno 500 mila visitatori unici e conta 780 mila fan su Facebook, 370 mila su Twitter e il primato su Youtube. Siamo al secondo posto nella classifica dei social network in Italia e tra i primi in Europa e nel mondo.

Dedichiamo questi numeri alla comunità del Fatto a cui diciamo grazie di cuore. E li dedichiamo a quei giornali che, dal basso delle copie gonfiate e regalate e dei ricchi finanziamenti pubblici, agitano il ditino dicendo che vendevamo di più quando c’era Berlusconi. Vero, ma il tragico carnevale del bunga bunga e della bancarotta nazionale non poteva durare all’infinito e, del resto, le cronache della quaresima non sono la lettura più eccitante.

Lo abbiamo sempre saputo che, oltre la maschera di B. e della sua corte, il nostro punto di forza era il patto di fiducia con i lettori. Fare il giornale in assoluta autonomiaè stato in fondo il compito più semplice.

Più difficile è l’impegno di non fare sconti a nessuno, soprattutto quando ci siamo occupati di personalità popolari e prestigiose. Ma come, ci dicevano in tanti all’inizio del governo Monti, finalmente il nostro Paese è rappresentato da un premier autorevole e rispettato, e voi lo criticate? Ma come, abbiamo un presidente autorevole e rispettato come Giorgio Napolitano (che ha mandato a casa l’erotomane di Arcore) e voi gli chiedete conto di telefonate che andavano subito distrutte? Qualcuno ci ha scritto: non vi compro più.

Eppure potevamo non domandare al prestigioso premier come sia possibile che cambino i governi, ma tagli e sacrifici ricadano sempre su chi lavora e paga le tasse, mentre sprechi, tangenti e privilegi restano intatti? Potevamo non chiedere all’illustre ministro Passera di alcuni problemi giudiziari suoi e di Banca Intesa, sorti quando lui di quel gruppo era il numero uno? E potevamo non interrogarci sul contenuto delle intercettazioni tra il presidente della Repubblica e l’ex ministro Mancino, allegate all’inchiesta di Palermo sulle “torbide ipotesi di trattativa tra Stato e mafia” (Napolitano).
Le risposte o non sono venute o sono state ingiuriose e anche minacciose. Non abbiamo scelta però: le domande noi continueremo a porle. A nome dei nostri lettori.

Antonio Padellaro (Il Fatto Quotidiano, 22 Luglio 2012)


sabato 21 luglio 2012

Antonio Di Pietro: “Se fossi ancora pm accuserei Napolitano”

“I dirigenti del Pd sono degli ipocriti. Dicono di non voler più avere a che fare con l’Idv? Benissimo, ma a queste condizioni è l’Idv che non ci sta più. Ce ne andiamo”. Tra Antonio Di Pietro e il Pd la rottura è insanabile, ed è lo stesso leader dell’Idv a certificarla. La classica goccia è la questione Quirinale-Procura di Palermo. Già in mattinata, a Termoli, Di Pietro aveva accusato Giorgio Napolitano di “tradire la Costituzione”, scatenando le ire degli ormai ex alleati. “Frasi indecenti”, secondo Pier Luigi Bersani, ma Di Pietro rincara la dose.

Onorevole Di Pietro, non le pare di aver esagerato accusando di “tradimento” il presidente della Repubblica?

Se fossi ancora pubblico ministero farei una requisitoria chiedendo la condanna politica del presidente della Repubblica sulla base di una prova documentale, la prova principe. Da parte di Giorgio Napolitano c’è una confessione extragiudiziale di reato politico.

Addirittura?

Prima solleva il conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo, perché le intercettazioni indirette delle sue conversazioni con Nicola Mancino comporterebbero una “lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica”. Poi, in occasione del ventennale della strage di via D’Amelio, manda un messaggio ai familiari delle vittime in cui dichiara solennemente che “non c’è alcuna ragion di Stato che possa giustificare ritardi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità”. Delle due l’una. E poi che manchi una norma che regoli le intercettazioni indirette del Capo dello Stato è all’ordine del giorno fin dal 1997, quando il ministro della Giustizia Flick sollevò la questione per un caso analogo che riguardava l’allora presidente Scalfaro. Napolitano ha avuto sette anni di tempo per sollecitare il Parlamento a intervenire. Non solo, poteva sollevare conflitto d’attribuzione contro la Procura di Perugia che, a quanto pare, lo ha indirettamente intercettato al telefono con Bertolaso. Non lo ha fatto, salvo cambiare idea con Palermo. A questo punto siamo autorizzati a sospettare che quelle intercettazioni, che fanno così paura, contengano giudizi pesanti sui pubblici ministeri di Palermo. In un paese normale, se non fosse Re Giorgio, ci sarebbe stata, non dico una rivolta popolare, ma almeno una rivolta del mondo dell’informazione. E invece sono tutti, o quasi, appecoronati e conniventi con il sistema di potere che sostiene la grande coalizione del governo Monti.

Quindi anche il Pd. La rottura è definitiva?

Che siamo fuori ce lo dicono tutti i giorni in Parlamento. E ce lo dicono privatamente…

Chi?

Ma un po’ tutti. Ieri (giovedì, ndr) Enrico Letta, oggi Anna Finocchiaro. E poi Franceschini, Fioroni più una lunga serie di seconde linee.

Bersani no?

Lui sa che, all’ultimo giorno, Casini tradirà. Bersani sa perfettamente che si vince solo con una coalizione di centrosinistra, ma questi devono capire che noi non siamo yesmen del Pd. Sono degli ipocriti.

Prego?

Ipocriti. Predicano bene e razzolano male, esattamente come il presidente della Repubblica e la ragion di Stato. Sulle politiche del lavoro, sulla spending review, sulla giustizia sociale, su tutto ciò che fa il governo Monti sono sempre contrari a parole, ma in Parlamento votano tutto. Fino a quando la fa Berlusconi, che da sempre cura solo i suoi interessi, non c’è nulla di strano. Ma se lo fa un partito che dice di essere dalla parte dei lavoratori c’è qualcosa che non va. Con un partito che gioca al ribasso in maniera ipocrita e truffaldina non vogliamo avere nulla a che fare. Loro non ci vogliono più, ma siamo noi che ce ne andiamo.

Bene, allora vi siete tolti un peso tutti e due…

Sì, ma loro hanno un problema in più. Sanno di poter vincere solo con noi, ma devono rispondere a un sistema di potere che non tollera critiche all’asse Monti-Napolitano. Ci stanno provando con la legge elettorale e lo ammettono candidamente. Mi hanno detto che faranno di tutto per escogitare un sistema che faccia fuori Idv e Movimento 5 Stelle, ma tutte le volte che si studiano uno sbarramento si accorgono che siamo sempre una spanna sopra le forze intermedie con cui vorrebbero sostituirci. Non sanno come liberarsi di noi.

Va bene ancora, ma voi senza il Pd dove andate?

Io denuncio l’ipocrisia della classe dirigente di quel partito, non certo il suo elettorato. Siamo sicuri che si senta completamente rappresentato da questa classe dirigente? Mai come in questo momento è importante avere il coraggio delle proprie azioni. Nel ventennale della strage di via D’Amelio tutti si sono sperticati nel chiedere che si conosca la verità. Ma allora perché non la cerchiamo davvero? Questo è un paese dove Antonio Ingroia, a vent’anni dalla morte di Paolo Borsellino, il suo maestro che oggi si celebra, deve lasciare Palermo per andare in Guatemala.

Addio Pd allora. E Vendola?

Con Vendola ho parlato più volte e conveniamo su molte cose. Mi auguro che abbia la forza e il coraggio di andare fino in fondo per proporre agli elettori una vera coalizione di centrosinistra. Con o senza il Pd.

Stefano Caselli (Il Fatto Quotidiano - 21 luglio 2012)


venerdì 20 luglio 2012

Marcello Dell'Utri, 11 milioni trasferiti a Santo Domingo

Subito dopo il versamento di oltre quindici milioni di euro da un conto corrente di Silvio Berlusconi a un altro intestato a Miranda Anna Ratti, moglie di Marcello Dell'Utri, undici milioni sono stati spostati da lì a un altro conto, in una banca di Santo Domingo. È uno dei particolari dell'indagine per estorsione avviata dalla Procura di Palermo a carico di Marcello Dell'Utri, il senatore del Pdl ancora sotto processo per concorso in associazione mafiosa. La vittima del presunto ricatto sarebbe proprio Silvio Berlusconi, che nel corso degli ultimi dodici anni ha versato circa 40 milioni al suo amico e collaboratore che contribuì alla fondazione di Forza Italia.

Il versamento da quindici milioni risale all'8 marzo scorso, vigilia della sentenza della Cassazione che avrebbe potuto far andare in carcere Dell'Utri; invece arrivò l'ordine di un nuovo processo d'appello e quella prospettiva si allontanò. Il pagamento aveva la formale giustificazione della compravendita di una lussuosa villa sul lago di Como, il cui prezzo fissato a 21 milioni di euro fu molto superiore a una valutazione di pochi anni prima. Berlusconi ne versò in contanti un po' più di 15, il resto andò alle banche per estinguere i mutui che evidentemente aveva acceso Dell'Utri. Di quei 15, 11 furono quasi subito trasferiti in un conto del Paese centroamericano. I magistrati stanno già preparando le richieste di rogatoria per capire meglio la destinazione e l'uso di quei soldi, che evidentemente rappresentano buona parte del pagamento effettuato da Berlusconi. L'unico, tra tutti, con una giustificazione formale nonostante l'ipotetica sopravvalutazione della villa.

Le reali motivazioni di quei pagamenti sono l'oggetto delle domande che i pubblici ministeri antimafia vogliono porre a Silvio Berlusconi, nell'interrogatorio già fissato che l'ex presidente del Consiglio ha rinviato. E poi alla figlia Marina, per via di alcuni conti correnti cointestati, che dovrebbe presentarsi a Palermo mercoledì prossimo. Ma l'avvocato-deputato Nicolò Ghedini ha già fatto capire che difficilmente Berlusconi risponderà alle domande dei pubblici ministeri. «Per la sua situazione processuale pregressa non ha alcun obbligo di rendere dichiarazioni», spiega riferendosi alle indagini sull'ex premier seguite da archiviazione. Anche la figlia, secondo l'interpretazione del codice fatta da Ghedini, si troverebbe nella stessa posizione. In Procura la pensano all'opposto, e così alla Procura generale che ha chiesto di convocare il fondatore di Forza Italia nel nuovo processo d'appello contro Dell'Utri.
L'avvocato accusa i pm di «totale distorsione della realtà», e ritiene che non abbiano alcuna competenza a condurre questa indagine. I fatti contestati «sarebbero pacificamente, a tutto concedere, avvenuti presso ben altre sedi», dice Ghedini che annuncia la volontà di «reagire in ogni sede competente».

Secondo l'ipotesi d'accusa - che parte dal presupposto accertato anche dalla Cassazione dei rapporti tra Dell'Utri e alcuni boss mafiosi tra gli anni Settanta e Ottanta - l'ex premier potrebbe aver pagato al senatore la scelta di tenerlo fuori dagli intrecci e dai rapporti tra lui e i rappresentanti di Cosa nostra. Ed è possibile che agli atti della nuova indagine finiscano i verbali resi nell'ambito dell'inchiesta sulla presunta trattativa fra Stato e mafia da Ezio Cartotto, ex esponente politico democristiano della Lombardia che collaborò con Berlusconi e Dell'Utri al tempo della nascita di Forza Italia. In un recente interrogatorio Cartotto ha riferito, tra l'altro, che una volta Dell'Utri gli disse: «Se parlo io per Silvio sono grossi guai».

Giovanni Bianconi (Corriere della Sera - 20 luglio 2012)



mercoledì 18 luglio 2012

Napolitano, tra segreti e conflitto ad personam

Il ventennale della strage di Via D’Amelio, dopo i giorni delle accuse, degli attacchi, delle delegittimazioni istituzionali ai magistrati di Palermo che conducono l’inchiesta sulla trattativa Stato-Cosa Nostra, non poteva essere “celebrato” in modo più inimmaginabile: e cioè con il decreto sul conflitto di attribuzione stilato da Napolitano nei confronti della procura palermitana.

Secondo il ministro della Giustizia Paola Severino, paladina dell’assoluta segretezza delle conversazioni, si tratta del percorso più lineare che poteva essere intrapreso dal Capo dello Stato e di un’occasione per chiarire ed integrare da parte della Corte Costituzionale una disciplina giuridica “lacunosa” in materia materia di intercettazioni indirette, quando a sollevare la cornetta sia un’alta carica dello Stato.

Può darsi che sotto il profilo tecnico ed in un’ottica di giurisprudenza costituzionale sticto sensu, si tratti di un’occasione di chiarimento.

Ma sotto il profilo politico e del rapporto, mai così compromesso tra cittadini ed istituzioni, la mossa della presidenza della Repubblica, motivata dall’intento dichiarato di tenere “la facoltà immune da qualsiasi incrinatura” nello spirito di Einaudi, suona come la rivendicazione esibita di assoluto arbitrio ed intangibilità.

L’articolo 90 della Costituzione a cui fa riferimento esplicito (unitamente all’art.7 della legge 219 del 1989) il decreto sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato contro il presunto abuso della procura di Palermo, rea di non aver interrotto e/o distrutto immediatamente le intercettazioni intercorse tra Nicola Mancino ed il Quirinale, stabilisce che “Il presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”.

Sembrerebbe lecito e pertinente domandarsi se, accanto e parallelamente alla rete di telefonate intercorse tra il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio e Nicola Mancino, tutte tese a rassicurare l’indagato per falsa testimonianza e ad attivarsi in tal senso, anche le due dirette tra l’ex ministro ed il presidente della Repubblica debbano essere considerate tra “gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”.

A prescindere del fatto fondamentale che si tratta di intercettazioni “casuali ed indirette” come ha ribadito il procuratore Messineo e che i magistrati si sono attenuti alla procedura in vigore, è un delitto di lesa maestà chiedersi se nelle funzioni del capo dello Stato, tra l’altro garante della Costituzione e presidente dell’organo di autogoverno dei magistrati, rientrino le cure e gli imput per tutelare un ex ministro che da testimone stava (consapevolmente) diventando imputato per false dichiarazioni ai Pm?

Sulla attendibilità delle dichiarazioni di Nicola Mancino si pronunceranno i magistrati; però noi comuni cittadini possiamo intanto liberamente valutare secondo il nostro buon senso se quello che va dicendo in TV o in contesti pubblici in merito alla trattativa, o come la si voglia chiamare, ha un fondamento o una parvenza di verità.

Poche ore fa nel dibattito con Mentana su La 7 a seguito de Il Divo, Nicola Mancino ha ribadito quanto ha testimoniato a Palermo e cioè che non ha incontrato privatamente Paolo Borsellino il 1 luglio del ’92, appena insediato al Viminale, che non si sono parlati e che comunque non lo ricorda dato che non sapeva che faccia avesse il magistrato più famoso d’Italia, dopo Giovanni Falcone. E a seguire ha negato di aver mai incontrato il generale Dalla Chiesa, di “essersi sempre sentito lontano dalla Sicilia” , di aver incontrato Calogero Mannino, massimo esponente siciliano della sinistra Dc di cui Mancino faceva parte, una sola una volta in Translatantico.

Infine, incredibile ma vero, ha citato Totò Riina come teste a discarico, contro la deposizione di Giovanni Brusca che nel processo Mori ha dichiarato che Mancino era a conoscenza del “canale aperto” dallo stesso Mori e uomini del Ros con Vito Ciancimino e delle richieste mafiose condensate nel “papello”.

Senza fare esercizio spericolato di fantasia e di dietrologia è quantomeno possibile identificare il perimetro degli argomenti che possono aver toccato l’ex ministro ed ex potente democristiano, ora semplice cittadino imputato, ed il Capo dello Stato nei momenti più calienti dell’inchiesta in quelle telefonate top secret.

Se come ha rivendicato Napolitano, elevando un conflitto di attribuzione con la magistratura, che non ha precedenti nella storia repubblicana (altra cosa quello con il ministro della giustizia in materia di grazia risolto con sentenza costituzionale n.200/2006), il bene tutelato sarebbe quello di tenere “la facoltà immune da qualsiasi incrinatura”, la strada maestra era quella di lasciar “piangere il telefono” o in subordine di dare in qualche modo conto ai cittadini del contenuto di quelle conversazioni.

Daniela Gaudenzi (Il Fatto Quotidiano - 17 luglio 2012)


domenica 8 luglio 2012

I bambini sono di sinistra

I bambini sono di sinistra. Di sinistra, sì, nessun dubbio. Non soltanto per i pugnetti stretti in segno di protesta.
I bambini sono di sinistra perché amano senza preconcetti, senza distinzioni.
I bambini sono di sinistra perché si fanno fregare quasi sempre. Ti guardano, cacci delle balle vergognose e loro le bevono, tutti contenti. Sorridono, si fidano. Bicamerale! Sì, dai !
I bambini sono di sinistra perché stanno insieme, fanno insieme, litigano insieme. Insieme, però.
I bambini sono di sinistra perché se gli spieghi cos'è la destra piangono.
I bambini sono di sinistra perché se gli spieghi cos'è la sinistra piangono lo stesso, ma un po' meno.
I bambini sono di sinistra perché a loro non serve il superfluo.
Sono di sinistra perché le scarpe sono scarpe, anche se prima o poi delle belle Nike o Adidas o Puma, o Reebok, o Superga gliele compreremo. Noi siamo No-Logo, ma di marca!
I bambini sono di sinistra malgrado l'ora di religione obbligatoria.
I bambini sono di sinistra grazie all'ora di religione obbligatoria.
I bambini sono di sinistra perché comunque, qualsiasi cosa tu gli dica che assomigli vagamente a un ordine, fanno resistenza. Ora e sempre.
I bambini sono di sinistra perché occupano tutti gli spazi della nostra vita.
I bambini sono di sinistra perché fanno i girotondi da tempi non sospetti.
I bambini sono di sinistra perché vanno all'asilo con bambini africani, cinesi o boliviani, e quando il papà gli dice "vedi, quello lì è africano", loro lo guardano come si guarda una notizia senza significato.
I bambini sono di sinistra perché quando si commuovono piangono, mentre noi adulti teniamo duro, non si sa bene perché.
I bambini sono di sinistra perché se li critichiamo si offendono. Ma se li giudichiamo non invocano il legittimo sospetto, e se li condanniamo aspettano sereni l'indulto che prima o poi arriva: la mamma, Ciampi, il Papa.
I bambini sono di sinistra perché si fanno un'idea del mondo che nulla ha a che fare con le regole del mondo.
I bambini sono di sinistra perché se gli metti lì un maglioncino rosso e un maglioncino nero scelgono il rosso, salvo turbe gravi - daltonismo o suggerimento di chi fa il sondaggio.
I bambini sono di sinistra perché Babbo Natale somiglia a Karl Marx. Perché Cenerentola è di sinistra, perché Pocahontas è di sinistra. Perché Robin Hood è di Avanguardia Operaia e fa gli espropri proprietari.
I bambini sono di sinistra perché hanno orrore dell'orrore. Perché di fronte alla povertà, alla violenza, alla sofferenza, soffrono.
I bambini sono di sinistra perché il casino è un bel casino e perché l'ordine non si sa cos'è.
I bambini sono di sinistra perché crescono e cambiano.
I bambini sono di sinistra perché tra Peter Pan e Che Guevara prima o poi troveranno il nesso.
I bambini sono di sinistra perché, se ce la fanno, conservano qualcosa per dopo. Per quanto diventa più difficile, difficilissimo, ricordare di essere stati bambini.
Di sinistra, poi.

Claudio Bisio (Tratto dallo spettacolo teatrale “I bambini sono di sinistra”)

Monti vive in un mondo di teorie macroeconomiche astratte e, quando la teoria e la realtà fanno a pugni, pensa che è sbagliata la realtà.

Ieri in moltissime città d’Italia sono cominciati i saldi. Però i negozi, al contrario delle estati scorse, sono rimasti vuoti. Solo di fronte ai negozi di lusso e alle vetrine delle grandi firme i ceti abbienti si sono messi in fila come sempre. Sono notizie come queste a raccontare la realtà italiana che l’Istituto Luce dei media italiani si sforzano inutilmente di pitturare in rosa.
Se i saldi fanno fiasco ovunque tranne che nei negozi di gran lusso è perché le politiche di questo governo hanno ammazzato i ceti medi e bassi e invece lasciano in pace le fasce privilegiate. Non hanno dato fastidio alle caste, hanno fatto solo danni di facciata ai grandi evasori, non hanno neppure sfiorato i grandi patrimoni. Risultato: c’è una stragrande maggioranza di italiani che fatica a comprare i generi alimentari, e una piccola minoranza che può continuare a spendere come prima da Gucci e Armani.
Questo risultato delle manovre e dei tagli del sobrio Monti è molto ingiusto e odioso, fa pagare tutto ai poveri e niente ai ricchi. Ma il peggio è che oltretutto non serve a niente, anzi è un rimedio peggiore del male.
Se Confindustria e la Cgil si trovano d’accordo nel muovere critiche durissime a questo governo e ai suoi tagli non è perché Squinzi e la Camusso si sono messi d’accordo per fare un dispetto a Monti. Dipende dal fatto che, sia pure con interessi spesso in conflitto, gli industriali e i lavoratori guardano all’economia reale e non a ai giochi di prestigio e alle teorie astratte della finanza.
Confindustria e sindacato sanno che, se non riparte l’economia reale, il motore resterà rotto e non serviranno a niente le manovre, i tagli e le trovate finanziarie. Però la politica economica di Monti, invece di risollevarla, deprime l’economia reale, come uno che per aggiustare il motore lo prende a martellate e poi si stupisce se la macchina non parte.
Berlusconi raccontava agli italiani una realtà inesistente. Diceva che la crisi non c’era e così ha perso tempo prezioso e fatto danni immensi. Monti non è molto diverso. Anche lui vive in un mondo di teorie macroeconomiche astratte e, quando la teoria e la realtà fanno a pugni, pensa che è sbagliata la realtà, non le sue teorie.
Solo un governo politico che sappia guardare la realtà e che metta al primo, secondo e terzo posto l’esigenza di far ripartire l’economia reale potrà aggiustare il motore e far ripartire il Paese.
All’osso, è questo il cuore del programma dell’Italia dei Valori e questo pensiamo che debba prepararsi a fare una coalizione che voglia salvare il Paese e non continuare a correre verso il precipizio.

Antoniodipietro.it

venerdì 6 luglio 2012

Scatti felini

Foto di copertina di Pasquale Castronovo (detto Lino)

martedì 3 luglio 2012

Il diritto al lavoro non esiste

Elsa Fornero ha perfettamente ragione: non esiste alcun diritto al lavoro. Questo tipo di diritti, come quello alla salute o alla felicità, appartengono alle astrazioni della Modernità che nulla hanno a che fare con la vita reale. Sono diritti impossibili perchè nessuno, foss'anche Domineddio, può garantirli. Esiste, quando c'è, la salute, non un suo diritto. Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità, non il suo diritto. Così è inutile sancire il diritto al lavoro se in una società il lavoro non c'è. Ciò che in una società moderna possiamo pretrendere è un'altra cosa: l'assicurazione, da parte della collettività, di una vita dignitosa anche per chi il lavoro non ce l'ha e non lo può trovare.

L'articolo I della Costituzione afferma solennemente : “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Questo articolo è espressione delle culture liberiste e marxiste che, insieme a quella cattolica (che peraltro del lavoro ha una concezione molto diversa) che hanno contribuito a redigere la nostra Costituzione. Il lavoro diventa infatti un valore solo con la Rivoluzione industriale di cui queste culture, prettamente economiciste, sono figlie. Per Marx il lavoro è 'l'essenza del valore', per i liberisti è esattamente quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il famoso 'plusvalore'. In epoca preindustriale il lavoro non è un valore. Tanto che è nobile chi non lavora e artigiani e contadini lavorano per quanto gli basta. Il resto è vita. Non che artigiani e contadini non amassero il proprio mestiere (che è qualcosa di diverso dal 'lavoro' tanto che c'è chi dubita che in epoca preindustriale esistesse il concetto stesso di lavoro come noi modernamente lo intendiamo - R.Kurz, 'La fine della politica e l'apoteosi del denaro'), certamente lo amavano di più di un ragazzo dei call-center, di un impiegato, di un operaio che, a differenza del contadino e dell'artigiano, fanno un lavoro spersonalizzato e parcellizzato, ma non erano disposti a sacrificargli più di quanto è necessario al fabbisogno essenziale. Perchè il vero valore, per quel mondo, era il Tempo. Il Tempo presente, da vivere 'qui e ora' e non con l'ansia della 'partita doppia' del mercante che disegna ipotetiche strategie sul futuro. Questa disposizione psicologica verso il lavoro era determinata dal fatto che in epoca preindustriale, come ho già avuto modo di scrivere, non esisteva la disoccupazione. Per la semplice ragione che ognuno, artigiano o contadino che fosse, viveva sul suo e del suo. E non doveva andare a pietire un'occupazione qualsiasi da quella bestia moderna chiamata imprenditore.

"L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. In realtà, come ogni Paese industrializzato, è fondata sulla schiavitù. Perchè siamo tutti, o quasi, come scriveva Nietzsche, degli “schiavi salariati”. A differenza dell'artigiano e del contadino la nostra vita, la nostra stessa sopravvivenza, non dipende più da noi, ma dalla volontà e dagli interessi altrui.

Il Primo Maggio noi celebriamo, senza rendercene nemmeno più conto, la Festa della nostra schiavitù. C'è da aggiungere che noi moderni abbiamo utilizzato nel peggiore dei modi le straordinarie tecnologie che pur proprio noi abbiamo creato. Oggi le macchine potrebbero lavorare per noi. Ma invece di utilizzarle per liberarci da questa schiavitù, costringiamo gli uomini, sostituiti dalle macchine, a cercare altri lavori, più infimi e disumani e sempre che li trovino. Ecco perchè nasce il 'diritto al lavoro'. Paradossale perchè in realtà è un 'diritto alla schiavitù'.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2012)