"L'unico giornale del quale mi fido è la Settimana
Enigmistica". Sono parole di Beppe Grillo. Me le ricordo bene anche perché
le ho scritte io. Non so se su una vecchia Olivetti o sul mio primo computer,
nella remota età di transizione dalla scrittura metalmeccanica e quella
digitale. Era l'autunno del 1990, lo spettacolo si chiamava "Buone notizie",
la regia era di Giorgio Gaber.
Come è facile immaginare, quelle parole mi sono tornate in
mente molte volte, mano a mano che la figura di Giuseppe Piero Grillo detto
Beppe, nato a Genova nel luglio del 1948, trasmutava dal comico al
rivoluzionario. Soprattutto in questi giorni, assistendo al gigantesco
cortocircuito mediatico innescato dal suo movimento, quel "non mi
fido" che Beppe traduceva, sul palco, nello sbeffeggiamento della
presunzione e dell'invadenza mediatica, mi sembra uno dei germi più importanti
della storia in atto, e più esplicativi di quanto sta accadendo.
Con uno slogan, forse con una battuta: la crisi della
rappresentanza è anche una crisi della rappresentazione. Quando si dice che
l'onda travolgente delle Cinque Stelle è mossa dai "non
rappresentati", non si parla solamente di politica, non solamente della
crisi dei partiti. Si parla, anche, di una rivolta dei non raccontati, che per
necessità o per scelta hanno deciso che "non si fidano", e dunque
devono-vogliono raccontarsi da soli, con mezzi propri, linguaggi propri. Allo stesso
modo, verso la fine degli anni Sessanta, quel nuovo soggetto collettivo che
erano "i giovani" decise di fabbricarsi autarchicamente giornali,
linguaggi, musica, abbigliamento. Non c'era ancora il web, a sostenere le
alternative possibili e a millantare quelle impossibili.
Leviamo dal campo ogni possibile equivoco sulla
"libertà di stampa". E cioè: alle frequenti sbavature paranoiche di
Grillo contro i giornalisti, evitiamo di contrapporre paranoie di senso contrario.
Chiunque, anche il più devoto frequentatore del blog-tempio di Grillo, se una
mattina di queste in edicola davvero trovasse soltanto la Settimana
Enigmistica; o vedesse azzerati i palinsesti delle reti televisive; ne
dedurrebbe che è tempo di fare i bagagli o entrare in clandestinità, perché il
Paese è sotto dittatura, ha perduto le sue voci e dunque la sua libertà. Era,
quello di Grillo nel '90, un paradosso satirico. Ed è, questo di oggi, un
paradosso politico: si fugge di fronte alle telecamere, ci si nega ai
giornalisti, non perché si ignori il valore della libertà di parola e della
libertà di informazione. Ma perché si vuole manifestare il drastico rifiuto di
una serie di convenzioni linguistiche, di abitudini mediatiche, che vengono
giudicate inadeguate o distorcenti.
Questo è Grillo che corre sulla spiaggia inseguito da torme
di onesti lavoratori dei media "costretti" a rincorrere ciò che fugge
e che gli sfugge; questi sono i deputati delle Cinque Stelle che fotografano i
fotografi e i giornalisti, come la scimmia beffarda e ribelle che decidesse di
rilanciare le noccioline al visitatore dello zoo.
Quando il vecchio Cuccia, in questo antesignano di Grillo,
si finse muto e trasparente di fronte alla troupe televisiva che lo braccava
per la strada, ignorandola, nessuno gridò alla lesa libertà di informazione. Si
riconobbe piuttosto il diritto di un anziano esponente del potere a non
sottostare alla regola (orribile, e di lì in poi dilagante) secondo la quale
qualunque telecamera e qualunque microfono, in qualunque luogo, hanno il
diritto assoluto di ottenere una risposta immediata. Magari su questioni
complicate, spinose, che richiederebbero tempo e freddezza per essere non dico
risolte, ma anche solo accennate; e non possono essere liquidate in una
battuta, o nel dileggio stupido e feroce di chi non risponde, e non per
reticenza, ma per dignità.
La televisione degli ultimi vent'anni è in parte fondata su
quel malinteso giornalismo "d'assalto", che traduce in uno show da
quattro soldi l'ansia del pubblico di sapere che cosa viene nascosto e taciuto.
Il diritto di essere informati, e di informare, è una cosa
troppo seria, troppo nevralgica per assecondare l'urto polemico di Grillo, e
rispondergli sullo stesso piano che - in questo momento
- è quello della pura propaganda. A ciascuno il suo: così come "ai
politici", anche "ai giornalisti" viene richiesta una
riflessione profonda, se è vero, come è vero, che ci siamo ritrovati più o meno
tutti dentro uno scenario imprevisto, pur essendo deputati per mestiere, noi
per primi, a prevederlo.
Grillo, che spesso è sopraffatto dalle proprie idee, traduce
questa crisi profonda della rappresentazione mediatica nella questione,
piuttosto meschina, del "chi ti paga" (in questo, è l'autoparodia del
ligure diffidente). Non si rende conto di essere molto riduttivo. La crisi è
molto di più. È il frutto di linguaggi logori, categorie di giudizio consumate,
pigrizie professionali. Un solo esempio: da quanti anni diciamo, noi dei
giornali, che le schermaglie politiche romane, le cronache del sottobosco
partitico, il gergo interno dei palazzi, non rappresentano più nessuno se non
gli attori di quella commediola senza pubblico? E da quanti anni, noi dei
giornali (per non dire dei telegiornali) continuiamo a dare spazio a quelle
parole vuote e a quelle persone in buona parte poco significanti e poco
rappresentative?
Il tanto e ottimo giornalismo che Grillo, per comodità
polemica, evita di nominare (quello, per esempio, che su questo giornale
raccontò a fondo gli scandali di Parma aprendo la strada alla vittoria di
Pizzarotti) non deve servire da alibi a chi lavora nei media, li possiede o li
guida o li fabbrica. L'accaduto, anche nei suoi risvolti sgradevoli, costringe
a capire che una fetta importante di Italia e di italiani ha messo in moto una
sorta di autarchia rappresentativa che può anche sfociare in autismo, e
alimentare pulsioni settarie, impoverire la scena.
Inseguirli su una spiaggia, o incatenarli a un bavero di
microfoni che pare un plotone di esecuzione, non serve che a indurire il loro
rifiuto. Parleranno, prima o poi parleranno, e forse parleranno addirittura con
noi. Ma non in queste condizioni di fretta, di ansia, di assedio che rendono
incongrui e ridicoli alla stessa maniera inseguiti e inseguitori. La libertà di
stampa non è in pericolo (lo è stata molto di più sotto Berlusconi). Sono in
pericolo l'autorevolezza, l'udibilità, la nitidezza delle parole e delle
immagini che hanno rappresentato per anni un Paese, e rischiano di non riuscire
più a farlo.
Michele Serra (La
Repubblica - 08 marzo 2013)
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