Lui si commuove, i partiti
applaudono. Eppure non c’è alcuna ragione di celebrare questa sobria e
un po’ triste cerimonia con cui Giorgio Napolitano ha giurato, per la seconda volta, da presidente della Repubblica.
Ne è consapevole anche lo stesso capo dello Stato che ha rifiutato i
corazzieri e la macchina scoperta: non è il momento per il fasto e per i
bagni di folla. Perché quello che si è celebrato oggi a Montecitorio è
il funerale della seconda Repubblica, senza che la politica dimostri alcuna prospettiva di resurrezione nella Terza.
La novità più rilevante è il passaggio dell’Italia a un presidenzialismo di fatto:
Napolitano ha spiegato che la sua permanenza al Quirinale dipende da
due variabili: da quanto lo sosterranno le forze e da come si
comporteranno i partiti. Se non collaborano, ha lasciato intendere, lui
non si sente più vincolato a restare.
Questo
ha una conseguenza molto concreta: chi volesse sfiduciare il nascente
“governo del presidente”, porterebbe alle dimissioni anche il capo dello
Stato, non soltanto il premier. E’ uno schema alla francese:
il primo ministro è un emissario del presidente, vero punto di
riferimento. Non è una novità da poco. Anche perché è combinata con un elemento monarchico:
la tenuta dell’istituzione è legata a quella della persona che la
incarna, la salute del Quirinale dipende da quella di Napolitano (che
appare in gran forma, ma ha pur sempre 88 anni). Il Vaticano ha appena
sperimentato il trauma profondo che deriva dal legare l’istituzione –
che per sua natura trascende le persone – alla fragilità del corpo.
La
combinazione di questi due elementi porta l’Italia in un territorio
inesplorato. Come dimostra il fatto che ormai non ci sia più alcuna suspense su chi andrà a palazzo Chigi. Tanto la sede del governo si è spostata al Quirinale.
Poi ci sono i partiti.
Napolitano è stato durissimo con tutti mentre i parlamentari
applaudivano. Come se le accuse di inconcludenza, di corruzione, di
irresponsabilità riguardassero un altro Parlamento e non questo che è
stato incapace di fare una legge elettorale decente, di scegliere un
governo, di trovare un nuovo presidente della Repubblica. Applaudivano,
si alzavano in piedi, accennavano a ovazioni. Ma la riconferma di
Napolitano sancisce l’inconcludenza di questa classe politica che, come sempre, deflette ogni critica, pensando che sia colpa di qualcun altro, o magari del fato.
Il primo bilancio, comunque, è questo: il Pd ne esce distrutto, il capo dello Stato ha addossato a Bersani il peso della paralisi. Silvio Berlusconi è trionfante:
come sempre Napolitano ha invocato pacificazione e dialogo, cioè larghe
intese, cioè quello che il Cavaliere sperava (almeno nell’immediato,
lasciando che il centrosinistra finisca di autodistruggersi, prima di
chiamare nuove elezioni e riportare il Pdl al potere, magari dopo che
una riforma della Costituzione avrà consentito l’elezione diretta del
capo dello Stato, cioè di Berlusconi stesso).
Al Movimento Cinque Stelle
viene riconosciuta la dignità e la legittimità di principale (per non
dire unica) forza di opposizione. Certo, Napolitano ha invitato a
evitare atteggiamenti fideistici verso la Rete, perché la democrazia ha
bisogno di persone concrete e di confronto. E ha anche criticato la
contrapposizione “tra piazza e Parlamento”, ma soltanto per poi
sottolineare che il M5S ha scelto di incanalare il suo impegno proprio
nelle istituzioni, invece che contro di esse. Non è escluso che ci sia
stato un ruolo di Napolitano nella scelta di Grillo di evitare la
“marcia su Roma”, usando la sua presa sul movimento per contenere la
protesta invece che per cavalcarla. Cosa che avrebbe potuto fare senza
fatica.
Non comincia una nuova fase, con questo discorso. Ma il sistema politico si è preso un anno o forse due in più di tempo. Una camera di compensazione
che è parsa l’unica alternativa all’anarchia. Sperando che qualcosa
sblocchi lo stallo: o il cambio dei protagonisti (con Barca o Renzi al
posto di Bersani, prima o poi con l’uscita di Berlusconi) o un riassetto
dei partiti e quindi delle alleanze (il Pd non pare in grado di reggere
ancora a lungo) o dello scenario internazionale (un peggioramento o un
miglioramento della situazione economica avranno il loro peso).
Non siamo più vicini, insomma, alla soluzione dei problemi che ci hanno portato fin qui.
Ma la reazione del sistema, con ulteriori strappi e forzature in
direzione presidenziale, potrebbe essere la premessa di ulteriori crisi
future.
Stefano Feltri (Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2013)
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