Intervistato da Enrico Mentana il cittadino Luigi di Maio, vice presidente della Camera e faccia da bravo ragazzo del M5S, ieri pomeriggio dice una cosa sacrosanta: se i democratici
(nelle varie etichettature del loro partito susseguitesi in questi
vent’anni) avessero onorato seppure al minimo sindacale il compito
politico cui erano preposti, non saremmo giunti a questa ordalia finale
in Cassazione tra Silvio Berlusconi e la Giustizia italiana.
Giustissimo
(anche se poi il portavoce grillino s’incarta alla domanda successiva;
sul dove il Movimento intenderebbe far andare la politica oltre i
sommovimenti prossimi futuri). Dichiarazione che andava a rimorchio di
quanto aveva poco prima esternato Roberto Ghiachetti,
anch’esso vice presidente della Camera e faccia spiegazzata del Pd: “mi
auguro che a Berlusconi ogni cosa vada per il meglio”. Il tutto
impacchettato nelle solite pippe garantiste come coté nobile del
ponziopilatismo.
Ma il messaggio resta chiarissimo: la dipendenza
psicologica e materiale del sedicente centrosinistra all’incredibile
evasore-corruttore-di-minorenni-limitrofo-alla-criminalità-organizzata,
il riccastro massacratore della democrazia ridotta a foro boario di
parlamentari e sentina della collusività; nella speranza inconfessata
che siffatto personaggio continui a rimanere il puntello che assicura la
sopravvivenza della nicchia ecologica in cui brulica la folla
indistinta dei politicanti.
Purtroppo per loro (e fortuna per noi) la sentenza della Cassazione
ha spazzato via tale speranza, diffondendo costernazione nel Palazzo.
Ma più nel Pd che nel Pdl (il quale – così – si trova a disposizione
l’icona di un martire da esibire alle prossime scadenze elettorali:
Gelmini dixit). Difatti la dichiarazione di Guglielmo Epifani
a botta calda, in cui veniva esibito un tremendismo muscolare insolito e
improvvido, serviva solo a rassicurare il proprio fronte interno.
Molto più interessante (e inquietante) il contemporaneo messaggio di Giorgio Napolitano
che, al di là degli omaggi di prammatica al ruolo della magistratura,
fornisce l’indicazione su cui ricostituire una prospettiva d’azione
comune, con cui tenere in piedi quel governo “delle larghe intese” di cui è stato e continua a essere il regista dietro le quinte: il regolamento di conti con la Giustizia.
Quella
presunta riforma con cui il ceto politico ristabilisce le gerarchie a
proprio vantaggio, sovvertite dal tempo di Mani Pulite, che resta il
chiodo solare di chi – come il nostro Presidente della Repubblica,
antico migliorista del Pci filo Craxi – coltiva la visione integralista
di un ceto politico che deve tenere a bada la società (con il corollario
della sacralità insita nella forma-partito). Questo l’elemento di
profonda perplessità che s’insinua dietro il senso di liberazione
prodotto dal pronunciamento della Cassazione, che libera l’Italia da chi
l’aveva tenuta in ostaggio per un ventennio: il timore
dell’arroccamento di partiti sempre più minoritari nella ridotta delle
istituzioni.
Un contesto che riapre una nuova chance per
Cinquestelle, dopo quella completamente fallita nel febbraio/marzo
scorso: l’opportunità di uscire dall’insularismo autoreferenziale e
cominciare a sparigliare le carte di un quadro politico che – altrimenti
– si dedicherebbe alla “soluzione finale” (eliminare ogni contropotere)
per l’estrema blindatura. Ma ci vorrebbe qualcosa di meno naif della
proposta di un governo Cinquestelle basato su un programma di pochi
punti che “chi lo vuole li può votare”. Bisognerebbe accelerare i tempi e
ragionare da classe di governo.
Perché ci sono almeno due derive
che andrebbero rapidamente invertite, prima di ricorrere di nuovo al
voto (ovviamente con regole diverse dalle attuali); quell’appuntamento elettorale altrimenti carico di incognite: la fuga di massa nell’assenteismo
aventiniano di gente sfiduciata oltre il limite della sopportazione da
recuperare, la cui comprensibile scelta indebolisce la presa
dell’Altrapolitica; la segnalata crescita, nell’area residuale votante,
del consenso per il berlusconismo, che potrebbe ridare forza al
corruttore condannato rimettendolo inopinatamente in gioco.
Forse i parlamentari del M5S
hanno maturato sufficiente esperienza per camminare con le proprie
gambe; senza farsi tenere per mano dai Grillo e dai Casaleggio, i quali
hanno ampiamente dimostrato la propria insipienza politica; tendente al
suicida.
Pierfranco Pellizzetti (Il Fatto Quotidiano, 2 agosto 2013)
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