mercoledì 14 agosto 2013

Nietzsche e il tema della maschera

Una particolare forma di maschera: il classico
Sostanzialmente il problema della maschera è il problema del rapporto tra essere e apparenza. Da qui, possiamo vedere il rapporto che lega Nietzsche a Schopenhauer (basti pensare al velo di Maja, la liberazione dall’apparenza tramite l’ascesi, il mondo come pura illusione). Il tema della maschera in Nietzsche è legato anche alla sua esperienza diretta come filologo dove l’assunzione dell’antichità classica come modello, lo studio dell’arte e della letteratura greca, vengono usati per poter fare una critica e per poter dare un giudizio sul presente che inevitabilmente appare come decadenza e degenerazione.
In Hegel il concetto di classico (anche se non definitivo in quanto non rappresenta la forma compiuta dello spirito) è una perfetta coincidenza di interno e esterno, di cosa in sé e fenomeno; nonostante questo concetto non sia definitivo, comunque viene inscritto in un contesto dove si presuppone una possibile coincidenza tra essenza e manifestazione. Nietzsche invece, sotto l’influenza di Schopenhauer, considera il classico come modo di reagire difensivamente alla possibilità di questa coincidenza e di conseguenza tutti i caratteri con i quali si è soliti contraddistinguere il classico (cioè l’equilibrio, l’armonia, la perfezione) si rivelano essere nient’altro che maschere. Nonostante questo comunque Nietzsche conserva nella classicità una qualche forma di modello che però non viene più visto come realizzazione esemplare di coincidenza tra interno ed esterno, ma viene invece inteso come configurazione della divergenza tra essere e apparire, quindi una particolare forma di maschera. Nietzsche rimane quindi in un certo senso classicista, anche se individua ancora, sia pure non più nella classicità tradizionalmente intesa, un modello di cultura non decadente. Ciò significa che la decadenza e in generale la valenza negativa dei fenomeni storici, non si identifica nel suo essere maschera, cioè nel divergere dalla cosa in sé. Quindi si dovrà distinguere tra una forma di mascheramento non decadente e invece una maschera decadente. Rimane comunque in Nietzsche una residua “volontà di verità” che contraddice nettamente con la scoperta che non c’è verità possibile nell’esistenza storica.
L’approccio alla civiltà come maschera può essere assunto come motore centrale dell’ itinerario speculativo di Nietzsche dalla riflessione sui greci, fino alla nozione di superuomo (o oltreuomo). Intorno al rapporto tra essere e apparire si costituisce quindi tutto il pensiero nietzscheano.

La maschera dell’uomo contemporaneo
Come filologo Nietzsche non studia l’antichità classica con lo spirito dello scienziato che ricostruisce “obbiettivamente” un mondo passato, ma la studia utilizzando le tre modalità secondo cui è possibile fare storia cioè con un’ atteggiamento antiquario, critico e monumentale, creando nell’antichità esempi e modelli per il presente di fronte ai quali, la vita si caratterizza come decadenza, ma non per una mancata corrispondenza con qualche canone formale, bensì con il rapporto forma-contenuto, interno-esterno, essere-apparire. L’uomo contemporaneo appare a Nietzsche caratterizzato dalla totale assenza di coerenza tra forma e contenuto, per cui la forma non può che apparire come un travestimento. Il travestimento non è qualcosa che ci appartiene naturalmente ma si assume deliberatamente in vista di qualche scopo. Nel caso dell’uomo moderno, questo travestimento, viene assunto per combattere uno stato di paura e di debolezza. La malattia storica, cioè la consapevolezza esasperata del carattere divenuto e diveniente di tutte le cose ha reso l’uomo incapace di creare davvero la storia. Questa incapacità è data dalla paura di assumersi responsabilità storiche in prima persona.
Il travestimento nasce dunque dall’insicurezza e significa assunzione di maschere convenzionali, irrigidite; nella Nascita della tragedia infatti Nietzsche parla di maschere con una sola espressione a proposito del decadere della tragedia dopo Euripide e Socrate (questo particolare esempio di mascheramento è analogo a quello delle figure convenzionali che analizza Kierkegaard).
Un altro esempio di mascheramento lo troviamo nel saggio Sulla verità e sulla menzogna in senso extramorale dove l’uomo viene indicato come quell’ animale che, trovandosi ad essere più debole di molti altri, ha assunto come sola possibile arma di difesa la finzione; l’intelletto quindi diventa un mezzo per la conservazione dell’individuo e sviluppa tutte le sue forze principali nella finzione. La scienza stessa nasce, secondo Nietzsche, come sistema di finzioni escogitate dall’intelletto per garantire la sopravvivenza dell’animale-uomo in mezzo ad una natura ostile e soprattutto nella competizione con altri individui della sua stessa specie. Nietzsche vede la scienza dunque come un sistema di concetti convenzionali, di metafore, escogitati dall’uomo per ordinare il mondo e che è a sua volta basato su di un sistema metaforico di base che è poi il linguaggio.
 
La duplicità della “maschera-classico” e la sua genesi
Nella Nascita della tragedia il tema della maschera è ricondotto al dolore, e mostra le radici del conflitto in cui si trova coinvolto anche l’uomo moderno, in funzione del quale egli assume la finzione come travestimento e arma. Si tratta del classicismo di Nietzsche : la nostra civiltà appare come fenomeno di decadenza se messa a confronto con l’antichità classica, ma nonostante ciò la nostra decadenza appartiene ad una storia di cui fa parte (come momento iniziale o comunque privilegiato) anche quella classicità con cui si intende confrontarla. Il mondo classico dell’armonia tra interno e esterno viene chiamato da Nietzsche “mondo della cultura apollinea”. Fin dai tempi di Winckelmann si credeva che i greci avessero potuto creare un mondo di bellezza e di compostezza solo perché essi stessi erano vivi esempi di una umanità serena ed equilibrata, ignara di conflitti. Ora Nietzsche mette in contrasto questa serenità con la saggezza popolare di alcuni miti greci come quello di Re Mida. Attraverso questo mito Nietzsche introduce l’altra faccia dell’anima greca, cioè quella dionisiaca, presente nella civiltà classica, nonostante non emerga in maniera definita. Tramite il dionisiaco i greci antichi avevano una visione lucida ma terrificante della “verità” dell’esistenza. Quindi questa veniva personificata nelle divinità dell’Olimpo in quanto altrimenti sarebbe risultata insopportabile. In questo modo tutti i caratteri dell’esistenza venivano trasferiti in un dominio dove non esiste più il terrore della morte o l’annientamento. Quindi la cultura apollinea, che trova la sua massima espressione nella statuaria greca, non è altro che un’illusione, una maschera che serve a sopportare l’esistenza, la quale viene colta invece nella sua interezza dalla saggezza dionisiaca con cui condivide il carattere oscuro e caotico. Riconoscendo nell’essenza dell’esistenza la contrapposizione dell’apollineo e del dionisiaco, di tutti i contrasti interni,e quindi del molteplice, Nietzsche prende le distanze dalla concezione dell’essere come L’Uno di Schopenhauer e lo inserisce comunque nel quadro decadente.

L’orizzonte storico: l’Olimpo della modernità
La funzione che gli dei dell’Olimpo hanno, nella Nascita della tragedia, di proteggere l’uomo dalla lucida intuizione dionisiaca dell’essenza caotica dell’esistenza, sembra essere svolta dalla delimitazione dell’orizzonte nel caso della storia, come viene descritta nella seconda Inattuale. L’uomo per poter effettivamente incidere nella storia, deve delimitare il suo orizzonte fondando le sue azioni sui valori fondamentali appartenenti al contesto storico in cui vive. Quindi nella seconda Inattuale, oltre che al travestimento dell’uomo decadente, il quale non sa prendere iniziative ma si maschera assumendo ruoli stereotipati, maschere con una sola espressione, troviamo anche un’altra forma di mascheramento, cioè la definizione di un orizzonte dell’azione storica.

Liberazione dal dionisiaco o del dionisiaco?
Passando a parlare più specificatamente del tema della maschera nella Nascita della tragedia possiamo dire che il problema che inizialmente Nietzsche pone a proposito della tragedia come forma d’arte che aspira alla liberazione “dal” dionisiaco, cioè della fuga dal caos nel mondo delle apparenze, tende a trasformarsi in quello della liberazione “del” dionisiaco. Infatti nella tesi generale dell’opera, cioè che la tragedia come forma d’arte più alta esprime la complementarietà dei due principi, apollineo e dionisiaco, si risolve in ultima analisi nella riduzione dell’apollineo al dionisiaco, cioè nella ricollocazione della forma definita nel fluido caotico da cui è nata ed è nutrita. A conclusione delle pagine dedicate al Tristano, Nietzsche scrive:
“nell’effetto complessivo della tragedia, il dionisiaco prende di nuovo il sopravvento; essa chiude con un’ accento che non potrebbe mai risuonare nel regno dell’arte apollinea. E con ciò l’inganno apollineo si dimostra per quel che è, cioè per il velo che per tutta la durata della tragedia ricopre costantemente il vero e proprio effetto dionisiaco: il quale è tuttavia così potente, da spingere alla fine, lo stesso dramma apollineo in una sfera in cui esso stesso comincia a parlare con sapienza dionisiaca, e in cui nega se stesso e la sua visibilità apollinea. Così si potrebbe in realtà simboleggiare il difficile rapporto fra apollineo e dionisiaco nella tragedia con un legame di fratellanza tra le due divinità: Dioniso parla la lingua di Apollo, ma alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso.” Da Nascita della tragedia 22
Il mito tragico è da intendere solo come una simbolizzazione di sapienza dionisiaca attraverso mezzi artistici apollinei. Bisogna quindi volere il ritorno dell’apollineo in seno al dionisiaco che l’ha generato. Questo processo non è giustificato con la necessità di sfuggire alla sofferenza, intesa come paura e bisogno, in quanto la paura rientra anch’essa in una determinata configurazione storica. Essa è il modo di essere dell’uomo nell’epoca della decadenza; non può quindi essere assunta come radice universale del mondo delle apparenze e della maschera, giacché queste rientrano in una delle possibili connotazioni storiche, che questo mondo delle maschere assume. Bisogna quindi intendere questa sofferenza come interna multiformità dell’essere.

Lirica e tragedia come arti supreme
La riduzione del mondo apollineo al suo fondo dionisiaco, è rappresentata anche dalla lirica, allo stesso titolo della tragedia, come la sintesi tra l’impulso apollineo (che guida il poeta epico e lo scultore) e l’impulso dionisiaco (che guida il musicista). Le immagini del lirico non sono nient’altro che lui stesso, quasi diverse sue oggettivazioni, e risultano più complete e autentiche di quelle dell’epico e del musicista. Se il problema fosse solo fuggire dal dionisiaco, l’epopea sarebbe l’arte suprema, se invece fosse solo immedesimarsi nel dionisiaco, l’arte maggiore sarebbe la musica (come accadeva in Schopenhauer quando avviene l’identificazione nell’Uno primordiale). Invece, come già detto prima, con le conclusioni sul discorso di Tristano nella Nascita della tragedia l’arte suprema è la tragedia perché si ha un processo di identificazione nelle immagini analogo a quello della lirica, che esclude sia l’oggettività propria della scultura e dell’epica, sia il confondersi caoticamente nel tutto, peculiare del musicista dionisiaco.
E’ questo processo di identificazione la vera alternativa al “travestimento” per debolezza, proprio dell’uomo della decadenza. Anche il lirico e la tragedia vivono nel mondo della maschera. Quindi la maschera decadente è il travestimento dell’uomo debole, e più in generale è ogni maschera nata dalla paura e dall’insicurezza; mentre la maschera non decadente nasce dalla forza e dalla sovrabbondanza del dionisiaco. Questa diversificazione della maschera è implicitamente presente nelle sue opere giovanili.

La nascita della tragedia e l’importanza del Satiro
Dalla tesi che Nietzsche elabora sulla genesi della tragedia dal coro tragico appare chiaro che non si tratta di fuggire dal dionisiaco come mondo di paura e di insicurezza, ma di ritrovarlo come mondo di libertà, creatività e di eliminazione di barriere anche sociali. Nel passaggio dal coro alla tragedia, la nascita dell’apparenza apollinea ha caratteri diversi dalla finzione e dal travestimento radicato nella paura e nella debolezza: anzitutto già la trasformazione dell’uomo in Satiro è di per sé una forma di “maschera”, di trasformazione in altro da sé, e certo non si può dire che risponde alla necessità di fuggire dal dionisiaco verso il mondo apollineo. L’intera vicenda inoltre è apollinea solo in quanto ha assunto una certa definitezza, ma il suo “contenuto” è dionisiaco. Le vicende tragiche dei personaggi-tipo della tragedia classica, sono in se stesse dionisiache, cioè non hanno il senso del rifugio nel mondo apollineo, ma, come la trasformazione dell’uomo in Satiro, significano anch’esse la rottura di ogni ordine rigido, di ogni confine, di tutte le regole. Il processo attraverso cui l’uomo comune diventa Satiro, non è un processo che va dal dionisiaco all’apollineo, ma piuttosto un circolo in cui si susseguono dionisiaco-apollineo-dionisiaco. La genesi della tragedia è tutto un gioco di immedesimazione in altro da sé. Il rapporto dell’uomo comune col Satiro è analogo a quello del lirico con le immagini della sua poesia: è un rapporto di immedesimazione così profonda che esclude l’assunzione della maschera come semplice travestimento perché ne sopprime la stessa esigenza di mascheramento. La paura, la debolezza e il bisogno di difesa sono tutti aspetti costitutivi del mondo puramente apollineo, dove ognuno ha una forma predefinita (padrone- servo, padre-figlio). Il Satiro supera tutto il mondo delle divisioni e dei conflitti, proprio assumendo fino in fondo la maschera, operando una totale uscita da sè e una completa immedesimazione, tanto da riscattare la maschera da ogni elemento di inganno, e da trasferirsi in un mondo dove questa continua trasformazione, è vista come segno di una recuperata vitalità originaria. Queste premesse elaborate nella Nascita della tragedia subiranno una lunga rielaborazione e matureranno nell’idea dell’oltreuomo.

Esempi di “figure-Satiro”: Edipo e Prometeo
Le figure nelle quali Nietzsche sembra voler riassumere tutto il senso del mito tragico greco sono quelle di Edipo e Prometeo. In esse, Nietzsche come Freud, leggono una rottura delle barriere e dei tabù familiari e sociali. Nella tragedia che viene vista come forma di catarsi e di liberazione, ciò da cui il greco fugge è il mondo della “realtà” consolidata, delle gerarchie e dei tabù. Analizzando più da vicino questi personaggi possiamo dire che Edipo ha sciolto l’enigma della Sfinge perché ha ucciso il padre e ha sposato la madre, in quanto l’unico modo per costringere la natura a svelare i suoi segreti è contrastarla mediante ciò che comunemente è ritenuto innaturale. Quindi lo stesso Edipo che scioglie l’enigma della natura, deve anche violare, come l’assassino del padre e marito della madre, i più sacri ordini naturali. Anche la figura di Prometeo ha come carattere fondamentale la rottura dell’ordine naturale, delle gerarchie e delle leggi che regolano il rapporto con gli dei. Anche in Prometeo c’è un fondo edipico, in quanto anzitutto va contro la figura paterna rappresentata da Zeus. Il significato dei due miti, è analogo, anche se in Prometeo la ribellione ai tabù familiari, sociali e religiosi ha come scopo la fondazione di una civiltà in cui l’uomo non debba più temere la natura, ma la domini con la tecnica, di cui il fuoco è simbolo.
Essendo la natura equiparabile al dionisiaco a prima vista, il mondo delle apparenze sembra potersi tutto unificare sotto il segno dello sforzo di una liberazione dal dionisiaco; qui rientrano sia la creazione degli dei olimpici, sia l’invenzione della scienza come sistema di finzioni utili per dominare la natura, sia, anche, il travestimento con cui l’uomo della decadenza cerca di nascondere la propria debolezza, insicurezza, paura. Il discorso sulla genesi e il significato della tragedia ci mostra che , di fatto, la liberazione operata dall’arte non è tanto una liberazione dal dionisiaco quanto una liberazione del dionisiaco. Nella tragedia è proprio il mondo delle apparenze definite che viene sconvolto e messo in crisi a tutti i livelli, e solo l’uomo, divenuto Satiro, conquista la possibilità di produrre liberamente apparenze non condizionate dalla paura né finalizzate alla conquista della sicurezza.

(da "La crisi delle certezze")

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