Qualcuno ha mai letto le clausole prima di scaricare un’App per smartphone? O prima di iscriversi a un social media?
O di entrare in un sito che chiede la registrazione? Sono una trentina
di pagine fitte fitte, i famosi “Termini e condizioni” alle quali noi
aderiamo semplicemente cliccando “Accetta”. Cullen Hoback, regista americano li ha letti per noi e ci ha fatto un inquietante documentario. Si chiama “Terms and Conditions May Apply” e rivela cose molto inquietanti. Il quotidiano inglese Guardian, sempre attento a questi temi, ne dà un’anticipazione e un assaggio in video.
Intanto
si scopre che è umanamente impossibile leggere i bugiardini, prima di
accettare. A un utente medio ci vorrebbero 180 ore, cioè un intero mese
di lavoro all’anno per leggere tutto prima di cliccare. E se comunque
anche qualche folle volenteroso si fosse messo di buzzo buono per
leggerle , non ci avrebbe capito niente, perché scritte nel solito
incomprensibile legalese.
Quindi tutti clicchiamo e accettiamo, punto e fine. Accettiamo salvo poi dire: ma non lo sapevo. Linkedin, You tube, Google, Pinterest, Twitter, Instagram: nessuno si salva. Secondo il Wall Street Journal, ai consumatori costa qualcosa come 250 miliardi di dollari
ogni anno cliccare senza leggere. Per esempio, chi mette le foto su
Pinterest, accetta che la società le possa vendere a terzi per altri
usi, tipo pubblicità.
Le grandi aziende possono fare accettare al consumatore
praticamente tutto quello che vogliono, tanto nessuno legge. La società
inglese Gamestation, che vende videogiochi, ha voluto scherzarci su.
Nelle condizioni scrive: “Scaricando questo gioco tu ci concedi una
opzione non trasferibile a rivendicare, ora e per sempre, un diritto
sulla tua anima immortale”. Il contratto è valido solo per un giorno ed è
chiaramente una provocazione, ma fa riflettere sulle
conseguenze di quello che accettiamo. E ancora, nel contratto della
compagnia telefonica americana AT&T è scritto in caratteri
microscopici, che il cliente accetta di mettere a disposizione i suoi
dati per indagini, prevenzione e lotta contro qualsiasi comportamento
illegale.
Quando nel 2000 la società Toysmart è fallita, hanno avuto la brillante idea di recuperare un po’ di soldi vendendo il database
dei propri clienti alla concorrenza: indirizzo, preferenze di consumo,
dati bancari, il profilo familiare. Tutto è stato passato a terzi, anche
se nei Termini e Condizioni è sempre vietato. Questo è un atto
illegale, ma rimane il fatto che il consumatore, cioè voi, non potete
fare niente per impedirlo, perché i vostri dati, una volta inseriti,
rimangono nei database per sempre.
E questo uno dei punti su cui
batte Hoback: “Mi piacerebbe almeno che ogni utente potesse almeno avere
la possibilità di sapere quali dati ha una azienda su di lui”. “Il
diritto di sapere, il diritto di controllare”, è il suo motto. Nel film
c’è la storia di uno studente austriaco che decide di chiedere a
Facebook quante informazioni hanno archiviato su di lui. Normalmente è
una informazione che non si può avere, ma questo ragazzo ha trovato una
scappatoia e la risposta è stata: su di lui, utente saltuario,
hanno raccolto 1.200 pagine di pdf in meno di tre anni. Immaginiamoci la
mole di dati per chi usa Fb di più, per condividere viaggi, cibi,
spostamenti, amicizie, like. “Quando capisci quanto un’azienda ha
memorizzato su di te”, spiega Hoback, “capisci che sei una merce in un commercio. Credi di avere un servizio gratis, ma tu sei parte del business“.
”Il
diritto di controllo significa che noi dovremmo possedere i nostri dati
personali, non l’azienda. E quando una società tradisce la nostra
fiducia, dovremmo essere in grado di prendere i dati con noi e se
vogliamo, distruggerli”, conclude Hoback. Ma questo non è possibile, per
via del Patriot Act, il provvedimento approvato in
America all’indomani dell’11 settembre, con il quale si accettavano
restrizioni della privacy in nome nella sicurezza. È in base a quello
che le aziende possono conservare (e anzi, collaborano con i governi per
questo scopo) i nostri dati personali. Hoback sta raccogliendo firme
per abolire il Patriot Act e questo documentario è la sua denuncia
pubblica del perverso meccanismo.
Caterina Soffici (Il Fatto Quotidiano - 23 settembre 2013)
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