venerdì 11 ottobre 2013

Valori, laicità, identità


Che cosa accade quando la politica incontra fini non negoziabili, si inoltra sul terreno dell’eticamente sensibile, affronta materie che si vorrebbero indecidibili, deve fare i conti con innovazioni scientifiche e tecnologiche che ci portano verso i territori del post-umano? Si tratta di sfide anche inedite, di questioni alle quali non si può dare risposte fermandosi alle contingenze, che non interrogano soltanto singoli partiti o gruppi, ma riguardano appunto la politica in quanto tale, nel suo modo d’essere, nel suo rapporto con la società. Qui è il nucleo del tema dei valori, non soltanto in Italia, anche se proprio in Italia esso assume caratteristiche culturali e politiche assai particolari, che danno vita ad una anomalia che dev’essere rimossa. Si tratta, allora, di sfuggire ai rischi ed alle tentazioni di una precettistica. 
Bisogna precisare i termini della discussione e, per ciascuna questione, individuare strumenti analitici propri della discussione politica, tali da permettere distinzioni, e non solo contrapposizioni. E quindi di evitare un tardivo e mediocre Kulturkampf, che oggi viene pericolosamente riassunto con l’espressione “scontro di civiltà”. Per questo è necessario mettere da parte una versione caricaturale della laicità, sempre soggetta a scrutinio da parte di chi decide quale sia la laicità “buona”, guardando invece ad essa come ad un modo d’essere della società e della politica. 
Partendo da questa premessa, è possibile superare una contrapposizione tra religiosità e laicità che le configuri in termini conflittuali, e guardare quindi in termini di composizione. 
Per questo mi è sembrato importante il confronto che ha consentito al Senato di arrivare ad un documento significativo in materia di cellule staminali. E ancor più significativa mi sembra l’indicazione che viene dal dialogo tra il cardinale Carlo Maria Martini e il neosenatore Ignazio Marino, che purtroppo non ha ricevuto l’attenzione che merita. 
Due considerazioni preliminari, a questo punto. La prima riguarda il rifiuto di ogni forma di riduzionismo. Se vogliamo discutere di valori, non possiamo rimanere nell’ambito individuato dalla sola dimensione bioetica, ma è necessario spingere lo sguardo almeno in due altre direzioni, verso i significati che vengono oggi assegnati al mercato ed alla sicurezza. Si tratta di determinare il perimetro dei valori di cui si vuole discutere, e le modalità della loro valutazione. E bisogna farlo con chiarezza. Altrimenti gli intellettuali rinunciano al loro ruolo, e i politici rischiano di far male il loro mestiere. La seconda premessa si riferisce alla libertà di coscienza. Poiché il punto di vista da cui muovono queste osservazioni è quello della politica, ciò significa chiedersi se sia ancora utilizzabile lo storico espediente del rispetto della libertà di coscienza dei parlamentari come garanzia di un risultato legislativo immune dalle distorsioni della disciplina di partito o di gruppo. 
Ma, nelle materie che riguardano la vita e il suo governo, la coscienza da rispettare è prima di tutto quella degli interessati, la cui autonomia non può essere espropriata o sequestrata da una decisione politica che finisce così con l’assumere caratteri autoritari. Questo non vuol dire non fissare limiti, precludere qualsiasi possibilità di intervento, accettare una politica prigioniera di scienza e tecnologia. Significa, in primo luogo, riflessione sul nuovo senso della politica nell’età della tecnica. Se la politica trascura la condizione e le convinzioni di quelli che sono i destinatari delle sue decisioni, può accadere ed accade che una legge non risolva un conflitto, non lo chiuda, ma lo renda ancora più acuto. 
Bisogna tener presente l’insegnamento di Hans Kelsen e il suo elogio del compromesso come elemento costitutivo della democrazia: “compromesso significa risoluzione di un conflitto mediante una norma che non è totalmente conforme agli interessi di una parte, né totalmente contraria agli interessi dell’altra”. Quando si abbandona questa strada, soprattutto se sono in gioco esigenze profondamente legate alla vita, la legge corre il rischio dell’aggiramento. E così lo strumento legislativo viene socialmente delegittimato: un rischio, credo, che nessun legislatore dovrebbe correre. 
In realtà, la politica è selezione degli obiettivi. E questo vuol dire che non tutto deve essere tradotto in regole vincolanti, che la politica non può identificarsi solo con norme di divieto, che la stessa regolazione sociale conosce tecniche diverse. 
Un esempio può aiutare a chiarire questi intrecci complessi, a mostrare come vi siano situazioni nelle quali bisogna andare oltre lo schema oppositivo tra un sì e un no, entrambi incondizionati. Una esperienza fatta come relatore di un parere sulla diagnosi prenatale del Gruppo europeo per l’etica delle scienze e delle nuove tecnologie mi ha consentito di valutare più da vicino la realtà di questo tipo di problemi. Come si deve guardare ad una situazione in cui una coppia riceve la notizia che il feto presenta caratteri tali per cui nascerà una persona con un pesante handicap? La risposta ad un interrogativo così drammatico non può venire da una pura norma di divieto, né da una invocazione astratta della cultura dell’accettazione. Se la coppia, che dovrà prendere la decisione, si trova nella condizione per cui solo il lavoro di entrambi i suoi componenti consente una esistenza dignitosa, la scelta sarà fortemente influenzata dal contesto sociale. In una situazione in cui i servizi sociali, l’organizzazione scolastica, le prospettive di lavoro tengono seriamente conto delle esigenze dei nati con handicap e delle loro famiglie, aumenta molto la propensione alla scelta di portare a termine la gravidanza. Accade il contrario quando quelle condizioni non esistono, sì che la nascita di una persona con handicap obbligherebbe uno dei due genitori ad abbandonare il lavoro, per assicurarle cure adeguate. Questo, infatti, significherebbe impossibilità di sopravvivenza della coppia, a maggior ragione quando si aggiungesse una persona che porta con sé oneri aggiuntivi. L’aborto si presenta così come la via d’uscita da una situazione difficile. E’ evidente, allora, che la tutela della vita non può essere affidata ad una cultura dell’accettazione dell’handicap che lascia sole le persone alle prese con una scelta drammatica. E’ legata alla disponibilità sociale, dunque ad una politica che faccia le sue scelte, legislative e di distribuzione delle risorse, non in maniera ideologica, ma ispirandosi a principi di solidarietà e ad una considerazione della condizione reale delle persone. 
Le strategie istituzionali devono essere concepite e attuate in modo da rispettare autonomia e responsabilità delle persone, dando anche alla componente religiosa l’opportunità di manifestarsi pienamente. Bene ha fatto Leopoldo Elia a citare testualmente un brano del discorso con il quale Aldo Moro rifletteva sull’esito negativo del referendum sul divorzio, mettendo in guardia contro le forzature “con lo strumento della legge, con l’autorità del potere, al modo comune di intendere e disciplinare, in alcuni punti sensibili, i rapporti umani”; e consigliando “di realizzare la difesa di principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi, e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale”. Una indicazione, questa, che merita d’esser tenuta presente ancora oggi, dato che la vita interroga sempre più intensamente la politica, e crescono così le occasioni e le propensioni di quest’ultima ad impadronirsi di quella che Walter Benjamin ha chiamato la “nuda vita”. Ma cresce anche il bisogno di fissare limiti alla politica e al diritto nella loro pretesa di entrare nell’intimità delle persone, di condizionare le loro scelte più segrete, di negare la “bedroom privacy”. Lungo questa via difficile, che ci fa incontrare questioni complesse, dobbiamo sempre tener presente la Costituzione. Rilegittimata dal voto popolare di giugno, essa si presenta in primo luogo proprio come una carta dei valori e come un testo di grande apertura verso il futuro, tale da rendere possibili le integrazioni e le ibridazioni legate alle dinamiche ed alle innovazioni dei tempi nuovi. 
Una integrazione, ad esempio, è quella indicata dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che nel suo articolo 3 prevede esplicitamente che, nell’ambito della medicina e della biologia, deve essere rispettato “il consenso libero e informato della persona interessata”. Il valore di questa previsione, che corrisponde ad una generale evoluzione dei sistemi giuridici, sta nel fatto che, con il riferimento alla indispensabilità del consenso, è nato un nuovo “soggetto morale”. L’espressione può apparire enfatica, ma coglie bene il passaggio da una situazione nella quale la persona era oggetto del potere del terapeuta - unico depositario del potere di decidere il se, il come e il quando curarsi – ad una nella quale è l’interessato e lui soltanto a governare la propria vita. Questo implica anche la possibilità estrema di rifiutare le cure, che può avere il suo fondamento nelle stesse convinzioni religiose, come accade per i Testimoni di Geova ai quali la Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto di rifiutare le trasfusioni di sangue, anche se ciò può determinare la morte. 
E lo scorso anno le cronache italiane ci hanno informato di due casi in cui le persone hanno rifiutato l’amputazione di un arto, ritenendo di non poter vivere in una condizione di menomazione, e poco tempo dopo sono morte. Ovviamente, pure la constatazione del mutamento delle regole, e dunque dello stesso statuto morale della persona e della sua libertà, non vuol dire che a questo punto ci si muova in uno spazio vuoto di principi, in cui il relativismo cancella ogni possibile riferimento a valori forti e nessun limite possa essere previsto per l’autonomia individuale. 
E’ una sciocchezza il dire che alla cultura laica non appartengano valori forti. Guardiamo, ad esempio, alla prima dichiarazione del nuovo millennio, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, un testo laico com’è nella natura di questi documenti, e non perché si è deciso di non far riferimento, nel suo Preambolo, alle radici cristiane dell’Europa. L’assiologia della Carta, i valori che danno il titolo alle sue parti, sono forti, fortissimi, e si chiamano dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia. E’ in questo contesto che viene riconosciuto il valore della diversità, che dunque si inscrive in un quadro di valori forti, che non vengono per ciò dissolti, ma possono consentire una misura del multiculturalismo. 
Dietro tutto questo troviamo una lunga storia - il Rinascimento con la quattrocentesca Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola, e poi l’Illuminismo, e altro nella vicenda della modernità – lungo la quale gli incontri e gli incroci con la religiosità, con il fattore religioso sono molteplici, ed oggi non corrisponde alla realtà l’affermazione che il pensiero laico, in quanto tale, vuole confinare la religione nella sola sfera privata. Questa è una posizione certamente rinvenibile in tempi in cui l’obiettivo era quello di sostituire una potenza mondana ad un’altra, di fondare per tutti la scuola pubblica, di trasferire la tenuta dei registri dello stato civile dalle parrocchie ai comuni. Ma oggi sono numerosi i riconoscimenti della rilevanza pubblica della religione in testi normativi, dunque in una dimensione per sé laica, dalla Costituzione all’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori, all’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Bisogna però intendersi sul significato della presenza della religione nella sfera pubblica. Una volta trasferita in questa dimensione, la religione, le convinzioni religiose devono convivere in modo paritario con altre credenze e opinioni. Non devono ovviamente omologarsi, ma neppure chiedere agli altri una omologazione, che in definitiva dovrebbe portare ad una identificazione, ad una riduzione dei valori di riferimento soltanto a quelli religiosi. In sostanza, una cosa è attribuire rilevanza alla religione nella sfera pubblica, altro è la pretesa di riconoscere ad essa una sorta di monopolio dei valori, riprendendo anche atteggiamenti del passato che portavano ad avvicinare assai, fino a sovrapporle, religione e morale, vedendo poi nella Chiesa il luogo dove si trovavano i veri “esperti della natura umana”. 
Proprio la convivenza nella sfera pubblica della religione e di diversi modi d’intendere natura, vita, morale impone consapevolezza delle diverse strategie concettuali che caratterizzano la riflessione religiosa e quella laica. In un bel saggio, appena pubblicato sulla rivista “il Mulino”, Gian Enrico Rusconi mette in evidenza che nella cultura religiosa “le norme morali sono dichiarate in qualche modo naturali (anche se lo statuto teorico di questa affermazione è diventato molto incerto) ma soprattutto sono iscritte nella condizione di creatura e quindi possiedono un carattere ontologicamente trascendente. Per il laico invece le norme sono una esigenza etica argomentabile razionalmente”. 
Solo partendo dal riconoscimento di questa diversità, e della pari dignità di queste strategie, è possibile il dialogo e quindi la paziente costruzione di punti di riferimento, di valori comuni. Altrimenti, ogni pretesa di affermare una superiorità della dimensione religiosa pone il problema, così bene illustrato da Gustavo Zagrebelsky, della compatibilità stessa tra religione e democrazia, dovendosi intendere quest’ultima come lo spazio della compresenza anche di valori diversi, che si confrontano continuamente in condizione di parità, secondo criteri che non attribuiscono una naturale superiorità, un rango gerarchico più elevato ad una soltanto delle posizioni in campo. Solo così è possibile muovere verso forme di composizione nella discussione politica e nell’azione parlamentare. 
Leopoldo Elia ha indicato una possibile strategia dialogica, che muova da una ricognizione dei principi supremi rinvenibili nel nostro ordinamento. Il riferimento diventa così quello rappresentato dalla Costituzione, in primo luogo, dalle convenzioni e dai trattati firmati e ratificati dal nostro paese, da altre impegnative dichiarazioni internazionali. 
Le costituzioni della seconda metà del Novecento hanno cominciato a parlare di un diritto alla libera costruzione della personalità, già ricordato anche da Elia come un buon punto d’avvio per una riflessione comune. Lo dice con nettezza l'articolo 2.1 della Legge fondamentale, della Costituzione tedesca, affermando che "ognuno ha diritto al libero sviluppo della propria personalità, purché non violi i diritti degli altri e non trasgredisca l'ordinamento costituzionale e la legge morale". Meno diretta, ma per molti versi più significativa, é la linea indicata dall'articolo 2 della Costituzione italiana: "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". 
Il clima culturale e lo spazio giuridico definiti da questi due testi sono assai diversi. Nella norma tedesca si può scorgere un isolamento, in quella italiana un prepotente legame sociale, quell’idea di “connessione” espressa con particolare forza dal pensiero delle donne. La "non violazione" di cui parla la Costituzione tedesca sembra costruire il diritto al libero sviluppo della personalità anche come una distanza dagli altri. L'articolo 2 della Costituzione italiana ci parla di un dialogo tra consociati, di un individuo sociale nel quale l'alternativa e la separazione tra diritti e doveri sono superate dal (e inglobate nel) legame tra diritti inviolabili e principio di solidarietà: la Repubblica "riconosce e garantisce i diritti" e, insieme, "richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà". 
Il kantismo del riferimento alla legge morale é risolto in una tessitura più analitica dei poteri e delle responsabilità di ciascuno. Basta questa constatazione per rifiutare con nettezza le ipotesi di modifiche dirette o indirette degli articoli iniziali della Costituzione, che continuano a provenire da una sottocultura fiorita in questi anni e difficile da estirpare. 
Proprio seguendo la trama delle scelte di principio, è possibile affrontare concretamente anche questioni che oggi si presentano in forme assai conflittuali. 
Faccio due esempi, riferiti ai temi del testamento biologico e dei pacs. Con la legge 28 marzo 2001, n. 145, il Parlamento ha ratificato la Convenzione europea sui diritti umani e la biomedicina. L’articolo 9 di questa Convenzione stabilisce che “per quanto riguarda un intervento medico riguardante un paziente che al momento dell’intervento non è in grado di esprimere il proprio volere, devono essere presi in considerazione i desideri da lui precedentemente espressi” (sottolineo il “devono” perché si tratta di espressione ovviamente impegnativa dal punto di vista giuridico). Questo vuol dire che si potranno disciplinare alcuni dettagli relativi alle modalità di manifestazione della volontà del paziente. Ma la scelta di principio è stata fatta, attraverso la legge di ratifica il testamento biologico è entrato nel nostro ordinamento, e questa scelta non può essere revocata in dubbio senza violare un impegno internazionale dell’Italia. 
A conclusioni analoghe, anche se meno stringenti dal punto di vista formale, si giunge a proposito dei pacs, partendo dall’articolo 9 della Carta europea dei diritti fondamentali, votata dal Parlamento italiano a grandissima maggioranza. In questo articolo si afferma che “il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. Anche qui è stata fatta una impegnativa scelta di principio, che si coglie meglio se si fa un confronto con quanto stabilito dall’articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950: “Uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di costituire una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto”. Il mutamento è radicale. La Carta dei diritti cancella la condizione della diversità di sesso e considera come due diritti separati quello di sposarsi e quello di costituire una famiglia, così ponendo sullo stesso piano il matrimonio tradizionale e le altre forme di unione personale. La legge nazionale rimane libera nel definire le modalità di queste ultime, ma non può più escluderle in via generale. Siamo così di fronte ad un problema di coerenza interna della politica e di rispetto di impegni assunti a livello internazionale. 
Siamo di fronte a valori non definiti soggettivamente, ma puntualmente indicati dalla Costituzione e da documenti liberamente sottoscritti dall’Italia. Questo non vuol dire che non si sia di fronte a questioni complesse, ma che si può partire da indicazioni già specificate: in primo luogo, e in via generale, da quelle riguardanti la persona, che davvero costituisce il centro del dibattito sui valori. 
Lo dice esplicitamente il Preambolo della Carta dei diritti fondamentali, affermando che l’Unione europea “pone la persona al centro della sua azione”. E questa dichiarazione di principio è concretamente specificata da alcune norme, come l’articolo 3 sull’integrità fisica e psichica e l’articolo 8 sulla protezione dei dati personali, che fanno giustamente parlare di una compiuta “costituzionalizzazione della persona”. Peraltro, l’intera Carta è posta sotto il segno dell’inviolabilità della dignità umana, alla quale è dedicato il suo articolo 1, adottando così il modello della Costituzione tedesca, che aveva voluto questa apertura per dare immediatamente un segno forte di reazione contro la negazione di vita e dignità che aveva drammaticamente caratterizzato il regime nazista.
Ma non ci si limita ad affermare la inviolabilità della dignità. Si aggiunge che essa deve essere “rispettata e tutelata”. Dunque, non soltanto un atteggiamento astensionistico da parte dei poteri pubblici, bensì l’obbligo di un loro impegno attivo perché la dignità possa accompagnare la vita di ciascuno. 
Ancora una volta la nostra Costituzione ci indica la strada, quando nell’articolo 36 parla dell’”esistenza libera e dignitosa” del lavoratore e della sua famiglia. Il linguaggio è di grande modernità, perché ci presenta la dignità non come qualcosa da imporre dall’esterno, ma come una acquisizione che deve accompagnare e sostenere la libertà di ciascuno.
Questi importanti risultati sul piano dei principi sono stati possibili adottando una impostazione pienamente laica del tema della persona, senza riferimenti espliciti alla religione o a Dio.
Giorgio La Pira aveva proposto di premettere al testo della Costituzione la formula “In nome di Dio il popolo Italiano si dà la presente Costituzione”. Saggiamente poi la ritirò. E, con altrettanta saggezza, Oscar Luigi Scalfaro ebbe poi a dire che “non si vota su Dio”. In queste posizioni si coglie la consapevolezza di non fare della religione oggetto di conflitto. 
Grazie a questo, e grazie all’opera di quel Giuseppe Dossetti tanto opportunamente richiamato da Leopoldo Elia, la Costituzione mantenne il suo carattere laico, com’è nella natura di questi testi. Ma ciò non impedì che in essa penetrasse una forte tensione etica intorno alla persona. Il modo in cui la Costituzione si riferisce alla persona ed alla sua esistenza ci parla di un individuo non isolato, inserito nella dimensione sociale, protagonista di una attività economica che mai può esercitarsi “in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. 
La persona è così proiettata al di là della dimensione puramente biologica, ne vengono messe in evidenza libertà ed autonomia, non può essere considerata solo come un oggetto da proteggere. Proprio perché così ricca è la considerazione della persona e indispensabile il rispetto della pienezza della sua vita, nessuna forma di riduzionismo è accettabile, né quello biologico, né quello di mercato. Questo principio è chiaramente affermato nell’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali con la formula, comune ormai a diversi documenti, che prevede “il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro”. La persona è irriducibile alla logica di mercato. 
Ma, di nuovo, dobbiamo guardare al di là della biologia e chiederci, in maniera più generale, e avendo sempre come riferimento il valore della persona, che cosa possa entrare a far parte del mercato e che cosa debba invece rimanerne escluso, non considerando soltanto la tutela del corpo nella sua fisicità, ma della vita nella sua interezza. Questo è un passaggio essenziale, che contesta una idea di mercato che fa diventare le sue “leggi” il nuovo, intangibile “diritto naturale”. 
Una assiologia come quella della Carta dei diritti fondamentali ci dice appunto che il sistema dei principi non consente l’accettazione di questa logica. Ci indica altri valori e mantiene così al centro dell’attenzione altri temi, come quello della incommerciabilità e, questione nuova ma ormai ineludibile, dei beni comuni. Risorse scarse da tutelate, ma pure risorse nuove ed abbondanti che non possono essere “recintate” e ricondotte alla pura logica privatistica. 
E’ il caso, ad esempio, dell’accesso alla conoscenza, che va garantito nella maniera più larga. Qui le grandi opportunità offerte dalla tecnologia, dalla creazione di quell’immenso spazio pubblico che è Internet, rappresentano una risorsa grande per la crescita della persona, e in relazione a ciò devono trovare la loro misura. L’incontro con la tecnologia, tuttavia, assume particolare evidenza proprio quando è la vita ad essere in questione. 
Il caso della “lotteria genetica” è, a suo modo, esemplare. Porta con sé implicazioni assai complesse, che chiamano in causa il modo d’intendere la natura umana e la sua modificabilità. E, di fronte alla condanna delle biotecnologie perché profanerebbero l’opera di Dio, alcuni sono indotti a chiedersi se così non si pronunci “una devota bestemmia”, attribuendo ad operazioni di laboratorio il potere di cambiare la natura umana e addirittura di contrastare l’opera divina (così Rusconi). 
Rimanendo sul terreno fattuale, ed affrontando così il tema della intangibilità della natura umana, ci troviamo di fronte all’intera questione della medicina che, dal lenire il dolore al curare le malattie, mette in evidenza processi culturali che certamente alterano il corso naturale delle cose, i ritmi spontanei del vivere e del morire, sostituendo ad essi l’artificialità della scienza e della tecnica. 
Si può osservare che oggi siamo in presenza di situazioni più radicali, irriducibili alla logica appena ricordata. E’ il caso, ad esempio, della possibilità di impedire la trasmissione di malattie genetiche. Quando ciò è possibile senza violare altri principi, attraverso interventi di terapia genetica, ci si può opporre in nome di un diritto a ricevere un patrimonio geneticamente non modificato, dunque al rispetto della linea genetica naturale? Si può davvero pensare che si faccia l’interesse dell’”altra” che dovrà nascere, se la madre, quando divenga possibile, si veda preclusa la possibilità di ricorrere ad interventi tendenti ad evitare il rischio della trasmissione del cancro al seno, alterando così il patrimonio genetico da trasmettere? Vi sono poi i casi di selezione degli embrioni per evitare, ad esempio, il rischio della nascita di una persona affetta dalla distrofia muscolare di Duchenne. E’ quel che è accaduto, poche settimane fa, in Spagna e in Gran Bretagna. Ed è bene ricordare che la severissima legge tedesca sulla protezione degli embrioni ammette la selezione del sesso proprio al fine di evitare la trasmissione di quella malattia. La lotteria genetica è abbandonata, non può essere considerata un principio di riferimento, prevale l’interesse alla tutela della salute di chi dovrà nascere. Ma il caso inglese ci dà una indicazione ulteriore, preziosa se davvero si vuole imboccare la via del dialogo. 
La tecnica legislativa è interessante, perché supera la logica binaria e oppositiva, dell’alternativa secca tra il permettere e il vietare. La selezione degli embrioni non è ammessa in ogni caso, ma è subordinata ad una valutazione del caso concreto e ad una specifica autorizzazione da parte dell’Human Fertilità and Embriology Authority. Si abbandona la logica proibizionistica, ritenuta inadeguata, senza per ciò passare ad un regime di libertà piena. Si manifesta disponibilità culturale ad affrontare senza pregiudizi problemi complessi ed a provvedersi di strumenti giuridici rinnovati, tarati anche in modo tale da attribuire,attraverso una considerazione casistica, una giusta rilevanza al principio di precauzione.
Altre strade possono essere battute, come quella francese che subordina l’accesso alla diagnosi preimpianto all’esistenza di requisiti come l’età della donna e la presenza di una storia familiare che giustifica il timore della trasmissione di una malattia. Il riferimento di principio, comunque, è sempre rappresentato dall’attenzione per la persona: quella che dovrà nascere; ma anche chi deve fare una scelta procreativa, che viene così messo al riparo dalle angosce che, altrimenti, possono indurre a non affrontare i rischi della procreazione o a ricorrere all’aborto. 
Siamo sempre di fronte a situazioni complesse, affrontando le quali si esigono non solo rispetto delle opinioni altrui, ma soprattutto analisi delle situazioni concrete, distinzioni all’interno delle realtà che si vogliono regolare. E’ quel che non ha fatto l’articolo 1 della legge n. 40 che, perseguendo la piena parificazione tra embrione è persona, ha prodotto una sgrammaticatura legislativa che rende quell’articolo difficile da spiegare e da applicare, per il peso ideologico che lo contraddistingue. Proprio questa sua caratteristica ha finito con il bloccare, spero in maniera non definitiva, la necessaria riflessione sullo statuto giuridico dell’embrione. Congelata la discussione intorno al si o no, alla falsa alternativa tra il considerare l’embrione come persona o puro ammasso di cellule (che non rappresenta affatto la posizione laica), si è perduta la capacità di distinguere, trascurando ad esempio le posizioni assai differenziate del mondo scientifico. E, soprattutto, trascurando quell’evidente dato di realtà rappresentato dal fatto che, quando si parla di embrione, ci si riferisce a situazioni diverse: l’embrione già impiantato, quello in provetta, quello congelato. La tutela giuridica deve tener conto di tutto questo, e indicare soluzioni differenziate.
Apparentemente lontano da tutto questo è il tema della sicurezza, oggi declinata come prima e persino unica libertà.
Cito quello che ha scritto di recente Ralf Dahrendorf: “la libertà non più diritto degli individui di decidere il proprio modo di vivere, bensì diritto dello Stato di limitare le libertà individuali in nome di una sicurezza che lo stesso Stato è il solo a poter definire. E’ l’inizio di un nuovo autoritarismo”.
Di questa nuova situazione va misurata la compatibilità con la democrazia, e con la dignità e libertà della persona. Un anno fa apparve sul “Corriere della sera” la foto di un operaio che portava al braccio una specie di grosso orologio. Si trattava, in realtà, di un wereable computer, di un computer da indossare, imposto dal datore di lavoro, che consente il controllo totale a distanza di ogni lavoratore, che così riceve continui ordini, è localizzato in ogni momento, che vede registrata ogni variazione dei ritmi di lavoro. Non ho notato alcuna reazione a questa situazione che trasforma la persona in un oggetto continuamente controllato. Dov’è la dignità umana? Ha ragione Leopoldo Elia quando ci mette in guardia contro il rischio, ideologico, di attribuire una superprotezione all’embrione rispetto al feto; e, aggiungerei, di trascurare poi dignità e diritti delle persone già nate. Non è accettabile che per finalità di efficienza economica o in nome della sicurezza si mettano le mani sul corpo delle persone. Le prospettive sono inquietanti. In Gran Bretagna il Governo ha prospettato la possibilità di inserire un chip sotto la pelle di persone ritenute pericolose, per sottoporle ad una continua sorveglianza elettronica. Deve crescere l’attenzione culturale, sociale e politica per queste pericolose derive tecnologiche, dal momento che le tecnologie rendono possibile ormai una controllo capillare di ciascuno e di tutti, attraverso la conservazione dei dati riguardanti le nostre comunicazioni. Il rispetto della persona, e dei valori che l’accompagnano, rischia di scomparire quando ogni momento della sua vita viene implacabilmente scrutato e registrato. Di fronte a questa nuova realtà l’attenzione della politica deve essere massima. 
Giungo così al tema dell’identità, che ai miei occhi è diventata parola pericolosa. Il tanto deprecato Illuminismo aveva avuto la capacità di guardare al di là delle identità. La rivoluzione dei diritti ha fatto uscire le persone dalle identità obbligate nelle quali le aveva chiuse la società feudale, per affermare appunto eguaglianza e universalità. Sono cose assai diverse il guardare alla molteplicità, diversità, multiculturalismo come se questo significhi identità necessariamente separate o, invece, riconoscere il diritto alla diversità in un quadro di riferimenti universali e comuni. 
Questo è il grande risultato del pensiero laico: non aver chiuso nessuno nel ghetto delle identità. E questo vuol dire che i valori devono vivere in spazi liberi e pubblici di confronto. Una delle virtù della democrazia, ineliminabile, consiste nel fatto che ciascuno deve essere esposto alla maggior quantità possibile di opinioni diverse. Per questo la scuola pubblica è un valore in sé, non per un suo incarnare una contrapposizione tra scuola laica e religiosa che non mi appassiona e che trovo anacronistica. La ragione sta nel fatto che essa è luogo di formazione comune e di riconoscimento dell’altro. Se riterremo che ciascuno ha diritto di creare con denaro pubblico una propria scuola separata in nome della libertà educativa, allontaneremo le persone tra loro e prepareremo una società dei conflitti, dove i valori della persona saranno sempre esposti all’aggressione di chi non ha vissuto la presenza degli altri come fatto costitutivo anche della propria esistenza.

Stefano Rodotà (15 gennaio 2007) 

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