giovedì 21 novembre 2013

PASTICCIO DOROTEO (Massimo Giannini)



Come i peggiori azzeccagarbugli della Prima Repubblica, hanno provato a sopire la vicenda Cancellieri con un pasticcio doroteo. Un compromesso al ribasso che, a dispetto delle apparenze, ammacca ulteriormente la credibilità della politica e intacca irrimediabilmente la stabilità del governo. Ma com’era ovvio anche questo tentativo fallisce. Tre minuti dopo il voto della Camera, dalla Procura di Milano arrivano i verbali imbarazzanti di un interrogatorio di Salvatore Ligresti. E così, proprio nel giorno in cui si doveva chiudere, il caso riesplode in tutta la sua gravità. E la cortina fumogena, generosamente profusa dai palazzi romani, non può più nasconderlo.
La bocciatura della mozione grillina non è una convinta fiducia riconfermata a un ministro inattaccabile, ma una sofferta «non sfiducia » concessa a un ministro ricattabile. Nella battaglia di Via Arenula escono tutti sconfitti. E tutti ugualmente consapevoli che la guerra non è affatto finita, ma semmai è appena cominciata. Esce sconfitto il ministro della Giustizia. Annamaria Cancellieri continua a negare ogni evidenza. Continua a ripetere un’arringa difensiva che non cambia mai, nonostante le palesi incongruenze emerse dall’incrocio tra gli atti giudiziari e le spiegazioni fornite ai magistrati, al Parlamento e ai giornali.
Continua a gridare indignata la sua correttezza politica di Guardasigilli, che non ha mai violato le regole e non ha mai mentito a nessuno, e la sua rettitudine morale di donna, che sul caso di Giulia Ligresti ha agito sempre e solo per spirito umanitario. Ma continua a non capire che quelle sue telefonate con i parenti di Don Salvatore, prima smentite e poi ammesse con mille ambiguità, l’hanno marchiata a fuoco. Continua a non comprendere che quei suoi rapporti intimi e oggettivamente preferenziali con la famiglia di Paternò ne hanno vulnerato per sempre l’immagine personale e il profilo funzionale. Continua a non realizzare che il suo «scandalo » non attiene al codice penale (almeno fino a prova contraria), ma a un codice etico al quale si risponde sempre e comunque, se si hanno davvero a cuore le istituzioni e la loro onorabilità. Questa onorabilità, piaccia o no, è stata scalfita agli occhi dell’opinione pubblica. Per questo il Guardasigilli doveva e dovrebbe dimettersi, invece di restare al suo posto in un ruolo che aveva detto di non voler mai accettare: quello di un ministro «dimezzato». Ora lo è, a tutti gli effetti.
E lo è, a maggior ragione, dopo la lettura dell’interrogatorio di Don Salvatore, che ai pm di Milano dice testualmente: «Mi feci latore, presso Silvio Berlusconi, del desiderio dell’allora Prefetto Cancellieri che era in scadenza a Parma e preferiva rimanere in quella sede anziché cambiare destinazione ». Il ministro smentisce con sdegno anche questa circostanza. Ma il quadro d’insieme che emerge tra Torino e Milano ripropone interrogativi inquietanti sui rapporti tra i Peluso-Cancellieri e i Ligresti. Tutto — compresa la vicenda del figlio del Guardasigilli, assunto e poi fuggito da Fonsai dopo averne scoperchiato il buco da 1 miliardo — sembra alimentare i sospetti sull’esistenza di una qualche «obbligazione » che lega le due famiglie, e che il ministro si sente in dovere di «saldare». È sempre più difficile, in queste condizioni, raccontarsi al Paese e alle Camere come «una persona libera», che non ha «contratto debiti di riconoscenza verso nessuno ».
Esce sconfitto il presidente del Consiglio. Enrico Letta, qualunque cosa accada, continua a parlare di «governo più forte». Lo ha fatto la scorsa settimana, dopo la diaspora berlusconiana che ha scisso in laboratorio le due destre per coprire sul mercato elettorale sia la domanda moderata sia quella esagitata. Lo fa oggi, dopo una blindatura della Cancellieri incomprensibile (se non in virtù dell’alto patronato quirinalizio sul Guardasigilli). Per ottenerla, il premier ha imposto un teorema presentato come indimostrabile: sfiduciare quel ministro vuol dire sfiduciare il governo. Perché mai? A questa domanda non c’è risposta. «Respingere l’assalto del Movimento 5Stelle» non lo è, perché proprio per evitare l’ordalia pentastellata la Cancellieri avrebbe dovuto esser costretta a dimettersi prima del voto sulla mozione. Letta non l’ha fatto, o non c’è riuscito. Il risultato è che ora ha in squadra un’anatra zoppa sulla quale continuano a volteggiare falchi e avvoltoi, convinti che l’affare Ligresti promette altri sviluppi.
Esce sconfitto il Pd. In tutte le sue «anime». Da una parte c’era Matteo Renzi,che aveva trasformato il caso Cancellieri in un atto fondativo, quasi un «battesimo del fuoco» per la sua leadership nascente. La richiesta irrevocabile di dimissioni, per il futuro segretario del partito, serviva a lanciare due messaggi molto precisi. Il primo proiettato all’esterno: forte novità «culturale», per affermare i valori della moralità e del cambiamento profondamente avvertiti dagli elettori e dagli iscritti. Il secondo rivolto all’interno: chiara discontinuità «strutturale», per ridefinire subito i rapporti di forza con il resto del partito, il presidente del Consiglio e perfino il presidente della Repubblica. Alla fine, per disciplina, per responsabilità, per realpolitik, il candidato leader ha dovuto suo malgrado piegarsi al teorema di Letta. Gli resta appuntata sul petto un’onorificenza: quella di aver combattuto la buona e giusta battaglia. Ma la battaglia l’ha persa comunque, anche lui.
Dall’altra parte c’era il resto del partito, che pur di nondare partita vinta al Gianburrasca fiorentino si è schierato a prescindere con Letta e la Cancellieri (la vecchia guardia dei «resistenti» guidati da D’Alema) o ha finito per ingoiare il boccone indigesto della «non-sfiducia » al Guardasigilli (la nouvelle vague incarnata da Cuperlo e Civati). In mezzo c’era il segretario pro-tempore Guglielmo Epifani, che stavolta si è dimostrato decisamente al di sotto del ruolo. Il suo discorso alla Camera è stato rinunciatario e contraddittorio: ha rilanciato tutte le critiche alla Cancellieri, salvo poi confermarle la fiducia e suggerirle addirittura, quasi come grottesca «espiazione», l’apertura di un call center per i carcerati non «eccellenti» come i Ligresti.
Escono sconfitti i soliti berlusconiani di complemento (l’intervento di Renato Brunetta, tuttora esponente di un partito di maggioranza, grondava di futili rancori contro il premier e di inutili livori contro il Pd) e i soliti grillini da combattimento (la scenata dei telefonini che squillano nell’emiciclo è degna di un’assemblea di condominio, non di un’aula parlamentare). Ed esce sconfitta persino la magistratura: resta un rebus il comportamento della Procura di Torino, che annuncia con tanto di comunicato «il ministro Cancellieri non è indagato», ma al tempo stesso invia gli atti alla Procura di Roma per «i necessari, ulteriori approfondimenti». Delle due l’una: se non c’erano profili penali da chiarire, nella posizione del Guardasigilli, l’inchiesta andava archiviata. Se invece c’erano, allora la Cancellieri andava indagata (fermo restando il problema della competenza territoriale). I magistrati torinesi, sorprendentemente, non hanno fatto né l’una né l’altra scelta.
Alla fine, nella disfatta complessiva del sistema, l’unica ad aver prevalso è la ragion di Stato. La Cancellieri resta al suo posto, perché questo è deciso e perché questo serve per garantire la «stabilità». Una scelta miope, e sbagliata due volte. La prima, perché la stabilità coincide ormai sempre più spesso con l’immobilismo. La seconda, perché come dimostrano le nuove carte della Procura di Milano la mina Cancellieri è tutt’altro che disinnescata. Stupisce che a non capirlo, ancora una volta, sia proprio il Partito democratico. Rimasto ormai quasi solo a tenere sulle spalle il governo delle Intese sempre meno Larghe, ma sempre più Pesanti.


 

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