Quando
al V-Day di Genova Grillo, abbandonato per un momento il mantra del
«Tutti a casa», che campeggiava anche sulle magliette distribuite in
Piazza della Vittoria è tornato sul tema del lavoro (già sfiorato in
altre occasioni senza ottenere molta attenzione) visto pero' in
un'ottica completamente diversa da quella attuale («Chi non lavora non
mangia») affermando che «il lavoro è schiavitù e deve essere ripensato»,
la folla osannante che gremiva la piazza non lo ha seguito e non lo ha
capito. Eppure questa visione del lavoro è centrale se non nell'intero
Movimento 5Stelle, certamente lo è, anche se in modo un po' confuso, nel
pensiero del suo leader, cosi' come per la Lega delle origini lo era
l'identità prima che tracimasse in xenofobia.
Prima
della Rivoluzione industriale il lavoro non era mai stato considerato
un valore. Tanto che è nobile chi non lavora e artigiani e contadini
lavorano per quanto gli basta, il resto è vita. C'è qualche studioso (R.
Kurtz, 'La fine della politica e l'apoteosi del denaro',
Manifestolibri, 1997) che ipotizza che in epoca preindustriale non
esistesse il concetto stesso di lavoro cosi' come noi modernamente lo
intendiamo, semmai quello di mestiere che è cosa diversa. Anche la
Chiesa, almeno a stare a San Paolo, considerava il lavoro solo «uno
spiacevole sudore della fronte». E' l'Illuminismo che, razionalizzando
gli straordinari sconvolgimenti portati dall'industrialismo, fa del
lavoro un valore, sia nella sua declinazione liberista che marxista. Per
Marx il lavoro è 'l'essenza del valore', per i liberisti (Adam Smith,
David Ricardo) è quel fattore che combinandosi col capitale dà il famoso
'plusvalore'. Da questo punto di vista liberismo e marxismo si
differenziano molto poco (Stakanov è un'eroe dell'Unione Sovietica e
Lulù, nella magistrale interpretazione di Gian Maria Volontè, è, almeno
nella prima parte del film, lo Stakanov italiano nel beffardo capolavoro
di Elio Petri, 'La classe operaia va in Paradiso'). E' da qui che ha
inizio la deriva economicista che ci porterà al paradosso per cui noi
oggi non produciamo nemmeno più per consumare ma consumiamo per poter
continuare a produrre. E un operaio deve scegliere fra lavoro e salute. O
la cassiera di un Supermarket deve considerare vita passare otto ore al
giorno alla calcolatrice senza scambiare una parola col
cliente-consumatore. O un ragazzo deve sentirsi fortunato se lavora in
un call-center. Volete altro? Che senso ha aver inventato strumenti che
velocizzano al massimo il tempo se poi siamo costretti a impiegare il
tempo cosi' guadagnato in altro lavoro (magari investito nella creazione
di strumenti ancor più veloci in un circolo vizioso che non ha mai
fine). Abbiamo usato malissimo la tecnologia. Avrebbe potuto liberarci
dalla schiavitù del lavoro e invece l'abbiamo utilizzata per renderlo
ancor più alienante, o assente proprio mentre lo abbiamo reso
necessario. Cio' a cui, sia pur confusamente, pensa Grillo (e non so se i
suoi giovani seguaci, tantomeno i suoi elettori, l'hanno capito) è un
ritorno al passato. Non è un rivoluzionario ma un reazionario (anche se,
a questo punto, le due cose finiscono per coincidere). Pensa a un
ritorno all'agricoltura, all'artigianato, a una piccola impresa che non
superi le dimensioni dell'antica bottega. Utopia? Oggi certamente si'.
Domani forse no. Ed è qui che l'ormai vecchio Beppe si differenzia dal
giovane paraculo Renzi. Rottamare tutti, mandare «tutti a casa» non ha
senso se poi si continua col modello di sempre.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2013)
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