mercoledì 8 gennaio 2014

La macchina per lavare

Una sera di novembre del 1955 mia nonna, che aveva quarant'anni, riconquistò la sua libertà e si sentì felice: aveva preso in mano un libro ed era riuscita a leggere qualche pagina prima di addormentarsi. Non le capitava più da quattordici anni, da quando, in mezzo alla guerra, era nato il suo primo figlio: Carlo. Da allora, di bambini ne erano arrivati altri cinque; la più piccola, Graziella, non aveva ancora nove mesi. Ogni sera, da quattordici anni, mia nonna andava a dormire esausta solo quando aveva finito di lavare a mano montagne di lenzuola e pannolini. Lo aveva fatto migliaia di volte: prima a Torino, interrompendosi solo quando le sirene avvisavano che stavano per piovere le bombe, poi a Cavour, dov'era sfollata perché la sua casa era stata centrata e distrutta, infine a Milano, dove si era trasferita al termine della guerra. La società di compravendita di lane e sete che aveva aperto con il nonno aveva avuto successo, avevano raggiunto il benessere e comprato un appartamento con un grande terrazzo in zona Garibaldi; ma anche se si poteva permettere di avere una persona in casa che l'aiutava con i bambini e in cucina, la lavanderia notturna era rimasta un compito tutto suo. Due giorni prima il nonno era arrivato a casa con un regalo che pensava fosse la giusta celebrazione del loro successo: un dépliant della nuova Fiat Seicento, uscita da pochi mesi. «Micia,» così la chiamò per tutti i quarantasette anni di vita che passarono insieme «questo è per te.» E le allungò il pieghevole in cui era nascosta la chiave dell'auto che sarebbero andati a ritirare la mattina dopo. «Potrai andare in giro per la città, accompagnare i bambini a scuola, caricarci la spesa. Sarai libera di muoverti come vuoi.»
La nonna non lo interruppe e rimase un momento in silenzio. La libertà che aveva in mente lei era completamente diversa, aveva un altro aspetto, e l'aveva vista giusto quella mattina nella vetrina di un negozio poco lontano da piazza Duomo. Si era fermata a guardarla a lungo, facendo un sacco di sogni e fantasie. Così spiazzò il nonno con un paio di domande strane: «Ma è davvero mia? Nel senso che è intestata a me?». «Certo che è tua, Micia, è un regalo. Potrai usarla quando vuoi.» «Posso farne quello che voglio?» «Ti ho detto di sì, quello che vuoi.»
Il giorno dopo, quando andarono dal concessionario, lei restituì le chiavi (dopo aver scoperto che la macchina era costata 600.000 lire), recuperò i soldi dell'acconto e, prima dell'ora di pranzo, aveva coronato il suo sogno di libertà: si era comprata quella gigantesca lavatrice americana appena arrivata in Italia di cui si era innamorata. Tornando a casa passò anche in libreria. Le bastò muoversi tra gli scaffali per sentirsi felice all'idea di scegliere cosa avrebbe letto quella sera. Cinquant'anni dopo, quando me lo raccontò, si era dimenticata il titolo del volume: «Non aveva nessuna importanza, qualunque libro sarebbe andato bene. Era il gesto di tornare a leggere che faceva la differenza, era l'idea di aver riconquistato un po' di tempo per me».
Il nonno ci rimase un po' male, ma cercò di non darlo a vedere tanta era la gioia che mostrava sua moglie. Per settimane, ogni pomeriggio, ci fu una processione di signore che salivano la scaletta verso il bagno vicino al terrazzo per ammirare quel prodigio della tecnica. Dal piano di sotto si sentivano distintamente le risate e gli «oh!» di stupore delle amiche mentre la voce squillante della nonna illustrava ogni caratteristica e ogni dettaglio: dalla bilancia per pesare esattamente la quantità di biancheria da inserire fino alla centrifuga verde a forma di doppio cono. Mia madre, che allora aveva nove anni, ricorda ancora tutti i passaggi di quel teatrino in cui la nonna mimava con cura ogni gesto: sollevava la scatola del detersivo
Persil, fingeva di versarlo nella vaschetta, indicava l'ingresso dell'acqua calda e poi la tinozza in cui scaricava i panni inzuppati prima di infilarli nella strizzatrice. Ogni presentazione si concludeva con le stesse parole: «E così io posso andare di là a leggere, capite che libertà?».
In quel 1955, solo dodici famiglie italiane su cento disponevano di un frigorifero (pur sempre il doppio di quattro anni prima), ma se ne producevano già 100.000 l'anno, mentre le lavatrici erano ancora un lusso assoluto, tanto che ne erano state messe sul mercato meno di 20.000.
Quando, mezzo secolo dopo, chiesi a mia nonna qual era stata la più grande invenzione che aveva cambiato la sua vita, prima di raccontarmi questa storia rispose senza esitare: «La lavatrice». Provai a elencargliene altre: la televisione, la lavastoviglie, il telefonino (che si fece regalare per i suoi ottant'anni), il computer... ma lei scosse la sua testa di capelli bianchi, raccolti in un grande chignon, e mi interruppe: «Potrei dirti la teleselezione, che ha cambiato il nostro modo di comunicare e ha ridotto la lontananza, ma alla fine non c'è discussione: è la lavatrice. È stata l'unica invenzione che ha fatto davvero la differenza e ha messo fine a secoli di fatica delle donne. Non ho dubbi, perché ricordo ancora le ore passate in piedi, il mal di schiena da levare il fiato e le mani in fiamme. Nella mia vita è tracciata con chiarezza una linea tra il prima e il dopo».
All'inizio di dicembre di quel 1955 il settimanale francese «L'Express» pubblicò un sondaggio sui desideri natalizi dei parigini. Due erano i regali sognati dalle donne: il mantello di pelliccia e la «macchina per lavare». Al terzo posto, ma staccata di ben sette punti, l'automobile. Mia nonna Maria era al passo con i tempi.
 
Mario Calabresi (Cosa tiene accese le stelle - 2011 - Arnoldo Mondadori Editore)


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