mercoledì 26 marzo 2014

L’ESTREMO OLTRAGGIO

Gli storici del futuro, se vorranno descrivere la classe dirigente italiana del 2014 per quello che era, non potranno prescindere dai Portfolio di Umberto Pizzi e dai Cafonal di Dagospia. Per esempio il parterre della “prima” del film di Walter Veltroni su Enrico Berlinguer. Lasciamo da parte l’idea malsana di sporcare un bel film come “Quando c’era Berlinguer” chiamando a battezzarlo gente come Gianni Letta, Fedele Confalonieri e Cesare Romiti: la grande soirèe era per Uolter un certificato di esistenza in vita, e possiamo pure perdonargliela. 
Concentriamoci invece su certi invitati che hanno voluttuosamente risposto alla sua cartolina precetto, in uno sfacciato sfrecciare di autoblu. Per quanto eticamente discutibili, si tratta di persone intelligenti e di prim’ordine, non assimilabili al de-mi-monde froufrou della Roma godona che si mette in posa davanti ai paparazzi e si pavoneggia a favore di telecamera per piazzare la faccia e il nome sui giornali. Ma che gli dice il cervello? Ci vorrebbe un sondino nella materia cerebrale di questa gente per scoprire cosa passava loro per la testa mentre sullo schermo sfilavano le immagini e soprattutto le parole del segretario comunista. Parole di etica, onestà, pulizia, frugalità, rigore, intransigenza, passioni, ideali magari sbagliati o superati ma pur sempre nobili, sinceri e vissuti. Possibile che nessuno dei presenti ne sia rimasto colpito a morte, trasformandosi– come ai bei tempi dell’Antico testamento – in una statua di sale?
Possibile che nessuno si sia domandato: ma che mi direbbe Berlinguer se mi incontrasse oggi? Possibile che nessuno si sia sentito fuori posto o abbia avvertito l’irrefrenabile pulsione di profittare del buio in sala per scivolare via strisciando? Cosa pensava Romiti, noto per una condanna definitiva per finanziamento illecito ai partiti e falso in bilancio, di fronte al politico-simbolo della “questione morale”? Quali pensieri attraversavano la mente di Letta e Confalonieri, dopo un’intera vita trascorsa accanto a Berlusconi, che a parte le prime quattro lettere del cognome è la più plateale antitesi dell’ex segretario del Pci?
Già nel 1975 Confalonieri pranzava ad Arcore con Mangano e Dell’Utri: ma che ci fa uno così alla prima del film su Berlinguer? Letta Zio fu beccato la prima volta nel 1980 per i fondi neri dell’Iri, proseguì con le tangenti (amnistiate) al Psdi (“La somma fu da me introdotta in una busta e consegnata tramite fattorino”), e avanti così, pappa e ciccia con i Bisignani, i Pollari, i Bertolaso: ma che c’entra con Berlinguer? Giuliano Amato era il braccio destro di quel Craxi che Berlinguer chiamava “il gangster”, mentre metà del Pci (i “miglioristi”, detti talvolta “piglioristi” per le loro arti prensili) moriva dalla voglia di cadere nelle sue braccia. Quando morì, squarciato dall’ictus al comizio di Padova, era reduce da uno scontro all’arma bianca col leader migliorista Napolitano, ovviamente ostile alle sue battaglie sulla questione morale e sulla scala mobile. Tant’è che, come rivelò Macaluso, “quando Berlinguer morì, Napolitano aveva in tasca la lettera di dimissioni da capogruppo. Mai recapitata”. Naturalmente anche Napolitano era presente alla première, molto “commosso”, così come uno stuolo di ex comunisti che hanno passato gli ultimi vent’anni a rinnegare e a tradire la questione morale inciuciando col Caimano. 

Berlinguer morì da uomo solo, isolato e sconfitto: dai suoi e dagli altri, che avevano già orientato le vele al vento “nuovo” del craxismo e poi della sua malattia senile: il berlusconismo. E ora tutti i craxiani e i berlusconiani di destra, di centro (c’era pure Quagliariello) e di sinistra vanno a piangere con la lacrima retrattile sulla sua tomba, anzi sui titoli di testa e di coda. L’estremo oltraggio camuffato da omaggio. L’altro giorno papa Francesco ha detto, con la sua disarmante semplicità: “Tutti questi preti e suore su quei macchinoni! Ma non si può!”. Ecco, il “non si può” vale forse – da qualche mese – in Vaticano. In Italia no, in Italia si può tutto. Yes we can. Anzi, sepoffà.

domenica 23 marzo 2014

I GENITORI INFRANGONO UN TABÙ: “IL FIGLIO PREDILETTO ESISTE”

Il tabù famigliare più grande, perché più diffuso, è quello sul figlio preferito. Nessun genitore ammette, prima di tutto a sé stesso, di averne uno, e molti sono pronti a fornire zuccherose rassicurazioni come «l’amore di una mamma non si divide come le fette di una torta, quando nasce un nuovo bambino c’è una nuova torta intera di affetto anche per lui».
Non è vero. I genitori spesso non lo sanno neppure, ma mentono. Le preferenze esistono, sono sempre esistite. Solo che in passato erano chiare, evidenti e riconosciute, anche socialmente: il primogenito ereditava tutto. Dal XX secolo in poi si è fatta strada la giusta convinzione che nelle famiglie non debbano esserci figli e figliastri, nel patrimonio e nell’affetto. Tutti o quasi ci provano, ma i rapporti speciali nascono e — ignorati, negati, repressi — resistono.
Per questo in Francia sta avendo successo il libro di due docenti dell’Università di Nantes, Catherine Sellenet (Psicologia e Sociologia) e Claudine Paque (Letteratura), che indagano sul più comune non detto della vita famigliare. Accanto a segreti spaventosi e per fortuna relativamente rari (violenza, incesto), c’è quello banalissimo del «cocco di mamma», che molti hanno sperimentato in almeno una delle versioni, in qualità di figli o di genitori. «La preferenza esiste e la sua negazione non fa che danneggiare la relazione, talvolta pervertirla», scrivono le autrici di L’enfant préféré, chance ou fardeau? (edizioni Belin), che aggiungono: «Accettare la realtà della preferenza per uno dei propri figli potrebbe aiutare a ridurre i danni sia sull’eletto sia sugli altri fratelli».
Le autrici hanno interrogato 55 genitori: all’inizio del colloquio neanche uno ha ammesso di avere preferenze per un figlio o una figlia in particolare. Alla fine l’80 per cento lo ha riconosciuto. Spesso è l’uso delle parole, il nomignolo, a tradire, come quel padre che cita «il primo figlio», «la più piccola», e poi racconta estasiato di «giocare a calcio con Paul», il prediletto chiamato per nome. Oppure quella madre che parla lungamente di François, Anne e infine arriva a «Josephine, la mia principessa», che unica ha diritto all’iperbole.
Il libro è pieno di empatia per i genitori che cercano di fare del proprio meglio, ma la tesi è che bisogna cominciare a indagare sul perché si formano le preferenze e sugli effetti che hanno sui bambini: «una fortuna o un fardello?», si chiede il titolo. Intanto, cosa spinge un papà o una mamma ad avere una predilezione? L’unica socialmente accettata è verso il figlio svantaggiato, più debole o colpito da handicap. Le altre, inconfessabili, sono spesso generate da un riflesso narcisistico: si tende a preferire il bambino che ci assomiglia di più, che ha lo stesso carattere o gli stessi capelli, il bambino-specchio che realizza il nostro sogno di immortalità. E poi il bambino facile che va bene a scuola, non solo perché pone meno problemi, ma soprattutto perché ci risparmia la fatica di dubitare di noi stessi e ci conferma nella riuscita di genitori, grande imperativo della nostra era.
Sellenet e Paque sottolineano che nell’attuale mondo di mamme e papà consapevoli e molto presi dalla loro missione, tutte le responsabilità vengono scaricate sui figli. Litigate tra voi, bambini cari? È perché siete di animo poco generoso, siete gelosi. In realtà, quando i figli trovano il coraggio di accusare un padre o una madre di fare preferenze, il più delle volte hanno ragione, hanno captato piccoli segnali molto eloquenti, un tono della voce, un’indulgenza in più, o anche solo una porzione migliore nel grande rito strutturante del pasto tutti insieme a tavola.
Il libro non auspica un ritorno al passato, a Menelao che nell’Odissea preferisce serenamente Megapente o a Abramo al quale Dio chiede di sacrificare Isacco proprio perché è il preferito, senza dubbio alcuno. Ma genitori più onesti con sé stessi potrebbero agire per controllare le conseguenze dei loro sentimenti. Prevale una specie di sindrome da «La scelta di Sophie», il celebre e tremendo film nel quale i nazisti costringono la madre Meryl Streep a scegliere chi salvare tra il maschio e la femmina.
In condizioni normali, ammettere con sé stessi una predilezione non dovrebbe essere così straziante. Oltretutto preferire un figlio, proprio come discriminarlo, non equivale a fargli un favore. Il prediletto sarà probabilmente più sicuro di sé, affidabile, esperto nel sedurre le figure di responsabilità (dopo i genitori in famiglia, gli insegnanti a scuola e i superiori nel lavoro), ma pure oggetto della gelosia dei fratelli, patirà di sensi di colpa e da adulto farà forse più fatica a trovare una strada autonoma, lontana dall’amore in cerca di retribuzione di quei bene intenzionati, attenti, e bugiardi genitori.

Stefano Montefiori (Jack's Blog - Corriere della Sera - 23 marzo 2014)

 

domenica 16 marzo 2014

La Crimea che (forse) non è il Kosovo

La vicenda che più si avvicina a quanto sta accadendo in Crimea è quella del Kosovo, come qualcuno ha notato finalmente anche in Italia (Riccardo Pelliccetti, Il Giornale, 12/3). In Kosovo gli albanesi, divenuti maggioranza negli ultimi decenni, reclamavano la secessione dalla Serbia. Gli indipendentisti, foraggiati e armati dagli americani, facevano guerriglia e anche uso di terrorismo, l'esercito serbo e le milizie paramilitari ('le tigri di Arkan') rispondevano con durezza. C'erano due ragioni a confronto: quella degli indipendentisti albanesi e quella della Serbia a conservare l'integrità dei propri confini. Gli americani decisero che le ragioni stavano solo dalla parte degli indipendentisti e per 72 giorni bombardarono una grande città europea, Belgrado, capitale di un Paese, la Serbia, che, fra le altre cose, aveva il grave torto di essere rimasto l'unico paracomunista in Europa. I morti sono stati 13 mila, 5500 sotto le bombe il resto negli scontri che ci furono in Kosovo fra albanesi e serbi.
Nel 2008 gli albanesi proclamarono unilateralmente l'indipendenza che non è da tutti riconosciuta giuridicamente ma lo è di fatto. Nel frattempo in Kosovo si è realizzata la più grande 'pulizia etnica' dei Balcani, dei 360 mila serbi che ci vivevano ne sono rimasti 60 mila.
Fra la vicenda della Crimea e quella kosovara ci sono però alcune differenze. Il Kosovo, considerato 'la culla della patria serba', appartiene da secoli, storicamente e giuridicamente, alla Serbia, la Crimea fa parte dell'Ucraina solo da qualche decennio, gentile regalo di Kruscev all'interno della Federazione sovietica. La Crimea, abitata in maggioranza da russi o da russofoni, confina con la Russia. L'America, con tutta evidenza, non confina col Kosovo, sta a diecimila chilometri di distanza. Il democratico Bill Clinton per spiegare ai suoi connazionali le ragioni dell'intervento dovette prendere una carta geografica e indicare dove mai fosse questo Kosovo di cui gli americani ignoravano l'esistenza. L'aggressione americana alla Serbia non aveva alcuna giustificazione, nè materiale nè, tantomeno, giuridica e infatti l'Onu non l'avallò.
Insomma pare difficile sostenere che la violazione della sovranità dell'Ucraina è «illegittima», mentre quella della Serbia, che aveva molte meno giustificazioni, anzi nessuna, invece non lo è.
Gli americani hanno anche sostenuto che il referendum sull'indipendenza della Crimea «viola la Costituzione dell'Ucraina». Ma spetterà o no agli ucraini decidere se un referendum all'interno del proprio Paese viola o no la loro Costituzione? O spetta agli americani?
Intanto mentre gli F-35 e gli Awacs della Nato volano minacciosi per i cieli dell'Europa dell'Est, il Corriere si chiede, comicamente, se per caso «non sia cambiata la sua natura». Il Patto Atlantico nasce come mutuo soccorso ogni volta che sia «minacciata l'integrità territoriale, l'indipendenza politica o la sicurezza» di uno dei Paesi membri. Era quindi un Patto difensivo, ma è da quel dì che, violando il suo stesso statuto, si è trasformato in offensivo. Minacciava forse qualche Paese della Nato la Serbia di Milosevic? O l'Iraq di Saddam? O la Libia di Gheddafi? La Nato è diventata semplicemente «il poliziotto del mondo». Chi gliene abbia dato la patente non si sa.


venerdì 14 marzo 2014

RENZILIARDI



Miliardi di qua, miliardi di là. Per un mese, da quando TurboRenzi ha preso il posto di Letta Nipote, lui e i suoi ministri e i giornali al seguito hanno fatto a gara a chi annunciava più miliardi e prometteva più riforme (naturalmente “grandi”, anzi “choc”) e patti e assi e rivoluzioni e accelerate e spinte e scosse e lanci e rilanci e sblocchi e soluzioni e coperture e svolte e sprint e cunei in tutti i campi dello scibile umano: dalle tasse alle scuole, dalla legge elettorale alle riforme costituzionali, della casta alle auto blu, dalle regioni al Senato, dal lavoro (anzi job) all’occupazione, dalla casa alla ricerca, dal Mezzogiorno al Nord, dalla spending review alla giustizia, dal debito pubblico all’Europa. Così, quando è arrivato il mercoledì decisivo (ovviamente “super”, anzi un “mercoledì da leoni”), quello della conferenza stampa-televendita, un filo di delusione è seguito alle Grande Illusione. E dire che l’annuncio di 80 euro al mese in busta paga per i redditi più bassi è comunque un bel risultato, o meglio lo sarebbe se esistesse anche uno straccio di legge che lo prevede, al di là delle slide, degli effetti speciali e dei pesciolini rossi del premier imbonitore. Checché se ne dica, forse non è stata una grande idea da “grande comunicatore” quella di promettere tutto a tutti, creando aspettative talmente enormi da sminuire anche le eventuali cose buone (inevitabilmente poche) che seguiranno.
17 FEBBRAIO. Renzi riceve l’incarico al Quirinale. “Faremo una riforma al mese. Febbraio, riforme costituzionali ed elettorali: Italicum e abolizione del Senato. Marzo, riforma del lavoro. Aprile, riforma della Pubblica amministrazione. Maggio, riforma del fisco. Giugno, riforma della giustizia”. Ora, febbraio è finito da un pezzo e le riforme sono in alto mare. Marzo è già a metà e il Jobs Act è ancora un libro dei sogni: diventerà un disegno di legge delega al governo, che coi tempi parlamentari non sarà in vigore prima di un anno. E gli altri mesi sono già tutti impegnati da PA, fisco e giustizia. È anche vero, però, che Renzi ha detto febbraio, marzo, aprile ecc., ma non ha precisato di quale anno.
22 FEBBRAIO. Il governo è pronto e Renzi, sciogliendo la riserva, dà la linea: “Tanti fatti e pochi annunci. Basta spot: concretezza da sindaci”. Poi, nel primo Consiglio dei ministri, ordina ai medesimi: “Lavorare e tacere”. Ecco dunque i primi annunci. “Prima scossa: subito giù Irpef e Irap. Taglio Irap del 10% e riduzione Irpef sotto i 15 mila euro” (La Stampa, 23-2). “Studierò come una secchiona, pochi 53 miliardi per la scuola” (Stefania Giannini, ministro dell’Istruzione, Repubblica, 23-2)
23 FEBBRAIO. È domenica, ma il sottosegretario Graziano Delrio annuncia lo stesso: aumenteranno le tasse sui Bot. Palazzo Chigi rettifica: “Solo una rimodulazione”. “Un miliardo di gettito in più dai titoli preferiti dalle famiglie” (La Stampa, 24-2). Inizia il balletto sulla spending review del povero Carlo Cottarelli. Quanti miliardi? “Vertice notturno Renzi-Padoan sulla spending review. Tagli subito fino a 5 miliardi” (Messaggero , 24-2). “Subito 4 miliardi di tagli alla spesa” (Corriere della Sera, 24-2). “Pronto il piano Cottarelli. Subito 6 miliardi di tagli. Nel mirino acquisti e sussidi. Già quest’anno possibili risparmi da dirigenti, auto blu, formazione” (La Stampa, 24-2). E non basta: “3 miliardi sono attesi dal rientro dei capitali all’estero, altri 3 dal taglio degli interessi sul debito” (Corriere , 24-2).
24 FEBBRAIO. Renzi ottiene la fiducia al Senato: “Voglio uscire dal Truman Show, siamo qui per parlare il linguaggio della franchezza, al limite della brutalità”. Francamente e brutalmente annuncia: “Subito riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale”. Si pensa alla doppia cifra in percentuale, ma lui rettifica: “È riferita ai miliardi, almeno 10, non alle percentuali”.
E attenzione: “Sblocco to-ta-le e non parziale dei debiti delle Pubbliche amministrazioni per dare uno choc”: ma qui 22,5 miliardi il Tesoro li ha già pagati e altri 25 li ha già stanziati e coperti Letta. Gli altri 47 sono fuori bilancio, mai certificati: impossibile sapere quanto deve lo Stato e a chi. Infatti il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan risponde alle domande con un “no comment” e dice che il miracolo renziano sui debiti delle PA “è ancora da precisare”. Intanto Renzi mette la freccia e promette “l’aumento del Fondo di garanzia per le Pmi” (già aumentato da Letta a 95 miliardi) e il rilancio dell’edilizia scolastica (1,8 miliardi già stanziati da Letta). “Terapia shock: subito 60 miliardi” (l’Unità, 25-2).
25 FEBBRAIO. Renzi incassa la fiducia anche alla Camera, poi vola a Ballarò: “Entro 15 giorni il decreto per sbloccare 60 miliardi alle imprese” (ieri s’è saputo che non c’è nessun decreto, ma solo un ddl: campa cavallo). “Entro un mese taglio il cuneo fiscale con le coperture” (ieri ha detto che le coperture le annuncia fra dieci giorni e il taglio scatta dal 1° maggio). I giornali, non bastando i suoi, si scatenano con altri annunci. “Scuola, 2 miliardi per ristrutturare le aule” (Repubblica , 26-2). “Il calo delle tasse, si parte dall’Irap. Subito una riduzione del 10%” (Corriere , 26-2). Dunque si punta sull’Irap, non sull’Irpef: ma non era una doppia cifra in miliardi? “Patto con le imprese: meno Irap, sconti più leggeri. Sgravi Irpef, 50 euro al mese. Cuneo, detassati 10 miliardi: 8 alle famiglie sotto i 2.000 euro, 2 alle aziende” (Repubblica , 26-2). Dunque siamo intesi: tagli misti, un po’ all’Irpef e un po’ all’Irap.
26 FEBBRAIO. Renzi incontenibile: “Entro il 10 marzo censimento per una verifica puntuale sul patto di stabilità per capire quanto possono sforare i Comuni” (oggi è il 14 marzo e non è successo niente). “Il 17 marzo, all’incontro con la Merkel, avrò pronto il piano sul lavoro” (mancano tre giorni e ieri s’è saputo che il Jobs Act sarà un ddl delega, se va bene in vigore fra un anno, ma senza i decreti delegati: hai voglia). Frizioni fra Palazzo Chigi, tutto renziano, e il Tesoro, tutto lettian-dalemiano. “Renzi-Padoan, prima grana sui debiti. Il premier: subito 60 miliardi per pagare le imprese. Ma il ministro non è convinto” (La Stampa, 27-2). “Ricetta spagnola per sbloccare i debiti dello Stato. Così il governo restituirà grazie a Cassa Depositi e Prestiti 60 miliardi alle aziende creditrici” (Repubblica , 27-2). “Renzi: possibile tagliare l’Irap del 30%” (ibidem). “Renzi pronto a soccorrere le imprese. Allo studio un taglio del 30% dell’Irap” (Corriere , 27-2). Intanto il governo dà il via libera ai Comuni per aumentare la Tasi a tutti. Fuorché alla Chiesa, ci mancherebbe.
28 FEBBRAIO. Arriva l’orda dei 45 viceministri e sottosegretari. Palazzo Chigi annuncia un piano-turbo per il lavoro. La disoccupazione, dice Renzi, è “allucinante”. “Ora un Jobs Act da 100 miliardi. Il piano Renzi per invertire la rotta” (l’Unità, 1-3). “Renzi: ‘Uno choc all’economia. Rispondiamo a chi non ha impiego’” (La Stampa, 1-3). “Ecco il Jobs Act targato Renzi: sussidio di disoccupazione anche per i lavoratori precari. Con il Naspi circa 1.000 euro al mese per chi perde il posto. Il piano costerà 8,8 miliardi in tutto” (Repubblica, 1-3). Ma ‘sto Jobs Act è da 100 o da 8,8 miliardi? Mistero.
1° MARZO. Renzi, irrefrenabile, annuncia il Piano Casa. “Piano casa da 1 miliardo e mezzo. Arrivano i bonus per le ristrutturazioni, mutui agevolati e taglio del 10% della cedolare secca sugli affitti” (La Stampa, 2-3).
4 MARZO. Renzi riannuncia il pagamento dei debiti della PA. “Renzi si accorda con le banche per dare 60 miliardi alle imprese. Il piano è già pronto” (Libero, 5-3).
5 MARZO. Renzi visita una scuola a Siracusa, accolto dal coretto dei piccoli balilla. Intanto l’Europa denuncia che l’Italia ha i conti pubblici più squilibrati dell’Unione, insieme a Slovenia e Croazia. Ma per il premier è tutta colpa di Letta: “Sapevamo che i numeri non erano quelli che raccontava Enrico”. Saccomanni s’incazza e lo costringe a rimangiarsi tutto. Intanto il taglio del cuneo pare restringersi un pochino: “Nella cura Padoan tagli al cuneo fiscale per 7,5 miliardi” (Corriere , 6-3). Doppia cifra, ma con la virgola in mezzo. Eppure ci sarebbe di che scialare: “Dallo spread controcorrente 15 miliardi di ossigeno” (Corriere , 6-3).
6 MARZO. Il decreto sui capitali all’estero segna il passo in Parlamento: il governo lo ritirerà presto per rifarlo ex novo. “Ora è a rischio il decreto per il rientro dei capitali. Lo Stato avrebbe dovuto incassare 3 miliardi nel 2014” (Corriere , 7-3). Finalmente è deciso dove tagliare il cuneo fiscale. Lo svela il viceministro dell’Economia, Enrico Morando: “Non disperdiamo le risorse. Serve un taglio forte dell’Irap per rilanciare le imprese. In un secondo tempo sgravi sull’Irpef” (La Stampa, 7-3). Dunque solo tagli all’Irap, per l’Irpef si vedrà. La Camusso s’incazza.
7 MARZO. Il Tesoro conferma: tagli al cuneo solo sull’Irap, cioè solo alle imprese, e non sull’Irpef, cioè non ai lavoratori. La Cgil minaccia “lotta dura”. “Matteo cerca 20 miliardi per rilanciare la crescita: 10 dovrebbero arrivare dall’eliminazione delle detrazioni fiscali alle imprese, 5 dalla spending review di Cottarelli, 5 dalla tassazione sul rientro dei capitali all’estero” (il Giornale, 8-3). E la scuola? “No a grandi riforme. Interventi per la sicurezza da un miliardo di euro” (Stefania Giannini, ministro Istruzione, Corriere , 8-3). Ma non erano 2? “Assunzioni mirate con 2,5 miliardi. Incentivi europei ai giovani e lavori hi-tech: le ipotesi per l’occupazione. Il possibile uso delle risorse comunitarie” (Corriere , 8-3). Poi arriva la gelata dell’Europa: impossibile usare i fondi strutturali per ridurre le tasse sul lavoro. “Renzi taglia 10 miliardi di Irpef: quasi 80 euro in più in busta paga per chi guadagna fino a 25 mila” (Repubblica , 8-3). Quindi il taglio è sull’Irpef. Ma non era solo all’Irap?
8 MARZO. Casino totale. Taglio misto, un po’ Irpef e un po’ Irap. “Irpef o Irap, il governo si spacca. Il premier: ‘No a uno sterile derby, in ballo c’è il rilancio del Paese. I numeri: 10 miliardi di taglio Irpef, 2,6 miliardi di sconti fiscali alle imprese” (Repubblica , 9-3). “Taglio dell’Irpef e dell’Irap Il governo cerca 10 miliardi” (Corriere , 9-3). “Irpef e Irap, tagli a metà. Padoan vorrebbe agevolare le imprese, ma Renzi cerca il compromesso. Spunta l’ipotesi dell’intervento bilanciato” (La Stampa, 9-3). “Riduzione contestuale del 10% dell’Irap e di 5,5 miliardi di Irpef” (Filippo Taddei, guru economico di Renzi, 9-3). “Padoan: ‘Concentrare l’intervento in una sola direzione, o tutto sulle imprese, quindi Irap e oneri sociali, o tutti sui lavoratori, attraverso l’Irpef” (Sole 24 Ore, 9-3). “Serve un’azione duplice, riduzione Irap per le imprese e Irpef per i lavoratori” (Angelino Alfano, Ncd, ministro Interno, 9-3).
9 MARZO. Renzi da Fabio Fazio non svela chi vince il derby Irpef-Irap, ma smentisce il fifty fifty: “Mercoledì tagliamo le tasse di 10 miliardi pensando alle famiglie, ma nessuno mi crede”. Corrado Guzzanti su Facebook: “Mercoledì Renzi abbasserà le tasse. Il fenomeno sarà visibile per alcuni minuti anche in Italia, verso mezzanotte”.
10 MARZO. Il taglio del cuneo sarà tutto sull’Irpef. “Dieci miliardi per le famiglie. Renzi: il tesoretto andrà tutto nelle buste paga. Accantonata l’idea di tagliare anche l’Irap. Difficile trovare i soldi per ridurre il cuneo dopo il no dell’Europa sull’uso dei fondi comunitari. E il risparmio sugli interessi del debito è solo sulla carta perché non è sicuro che lo spread continui a scendere” (La Stampa, 11-3). “Irap e Irpef, l’ipotesi di un taglio a rate. Taglio bilanciato a tappe. Spunta la stretta sulle pensioni di reversibilità. Per la coperture possibili risparmi sulle commesse per i caccia F-35” (Corriere , 11-3). “Il governo scopre che non ha i soldi per tagliare le tasse: sia i miliardi della spending review sia quelli per le imprese non ci sono” (Libero, 11-3). In compenso però “Trovati 2,5 miliardi per gli interventi sull’edilizia scolastica fino al 2016” (La Stampa, 11-3).
11 MARZO. Contrordine, ragazzi: “Renzi: meno tasse da aprile. ‘Le coperture ci sono, indiscutibili e oggettive’” (La Stampa, 12-3). E pure troppe. “Copertura doppia: il bacino a cui attingere sarebbe addirittura di 20 miliardi” (Corriere , 12-3). “Ci sono fino a 20 miliardi, il doppio del necessario. La grossa parte, circa 7 miliardi, verrebbe dalla spending review, con altri interventi selettivi e stabili. Altri 6,4 miliardi arriverebbero dall’ampliamento del deficit dall’attuale 2,6% fino ad arrivare a ridosso del 3%. Il rientro dei capitali dalla Svizzera fornirà circa 2 miliardi. Circa 1,6 miliardi verrebbero dall’Iva incassata dallo Stato in occasione dei nuovi pagamenti dei debiti della PA. Il risparmio per i tassi d’interesse più bassi sarebbe di 3 miliardi sul debito” (Repubblica , 12-3). Insomma, di miliardi ce n’è pure per dare le mance. Ma allora perché, invece di fare una conferenza stampa con l’ennesimo annuncio del taglio delle tasse da 10 miliardi, non ha presentato un decreto o un disegno di legge? Per svariati miliardi di motivi.

 

giovedì 13 marzo 2014

Letizia Battaglia - Questo silenzio così duro da raccontare

Articolo a cura di Davide Barbera e Giulia Morelli / Foto di Giulia Morelli  

È una mite mattina d'inizio gennaio, Palermo sembra una bella addormentata che riposa tra lenzuola intrise di malinconia nel giorno dopo della festa. Raggiungiamo Letizia Battaglia nel suo appartamento al centro della città. Ci apre la porta lentamente, si affaccia dalla fessura,  Pippo riesce ad uscire in corridoio e non smette di abbaiarci. Con un urlo deciso Letizia lo richiama e con la stessa voce potente e sicura ci invita ad entrare. La casa è il suo riflesso: fotografie appese alle pareti, i ricordi e gli amori sono lì. Tutto ciò in cui crede e ha creduto, ma soprattutto quello per cui ha lavorato una vita.
Opera attivamente già dalle seconda metà degli anni '70, impara a fotografare sul campo; scatto dopo scatto, rullo dopo rullo, la sua tecnica si perfeziona sempre più. Le immagini di cronaca realizzate per il giornale “L’Ora” l'hanno resa un'icona all'interno del panorama fotogiornalistico del secolo scorso. I suoi scatti hanno creato la memoria fotografica degli anni in cui Palermo fu il teatro della guerra tra cosche mafiose; ma lei, come tiene a precisare, non è la fotografa della mafia. Altrettanto degno di nota è il lavoro di documentazione su una Sicilia parallela: immagini di quotidianità e di festa, ritratti di donne e bambine, attraverso le quali racconta la sua visione della realtà.
1) La tua carriera da giornalista prende avvio a Palermo, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Nonostante ciò, l’incontro con la fotografia avviene soltanto in un secondo momento, nel fervente clima di una Milano travolta dai movimenti studenteschi ed operai. Infine, il tuo ritorno nel capoluogo siciliano, quando la violenza esercitata dalla mafia raggiunge il suo apice. Raccontaci com’è andata. 
Più che una partenza, la mia fu una vera e propria fuga da Palermo, avvertivo la necessità di cambiare aria. Dal ‘69 collaboravo con il giornale “L’Ora”, occupandomi della cronaca cittadina palermitana. Nel ’71, in seguito alla separazione da mio marito, partii alla volta di Milano con le mie figlie, convinta di poter collaborare con altre testate giornalistiche e soprattutto con le riviste. Il lavoro scarseggiava e bisognava ingegnarsi: illustrai loro le mie idee, le quali vennero accolte con entusiasmo, ma era necessario che agli articoli venissero abbinate delle immagini e fu così che acquistai la mia prima macchina fotografica. Di conseguenza il mio approccio con la fotografia non fu dettato, almeno inizialmente, da una vera e propria passione; riuscire a procurarmi dei buoni scatti, in modo tale da poter continuare a lavorare, era il modo per garantirmi l’indipendenza che mi ero conquistata. Ritornai a Palermo nel ’74, quando Vittorio Nisticò, direttore de “L’Ora”, m’incaricò di curare l’impostazione grafica del giornale. Negli anni cinquanta era stato il primo quotidiano italiano a pubblicare inchieste di denuncia sulla presenza della mafia in Sicilia e, a distanza di vent’anni, la percezione del fenomeno mafioso rimaneva blanda. L’operazione di rimozione e di sottovalutazione era agevolata dal fatto che, dapprima, gli stessi criminali sembravano coinvolti in una lotta intestina che poco o nulla aveva a che fare con il resto della società. Presto, però, gli orizzonti mutarono e la brama di potere della criminalità organizzata si tradusse nel suo volersi insediare nelle istituzioni e nei luoghi di comando.
2) Nella biografia a te dedicata, Giovanna Calvenzi analizza la differenza che intercorre tra due diverse tecniche di fotogiornalismo: nella prima vi è l’uso di un’ottica “normale”, a fronte di un atteggiamento più distaccato da parte del reporter, à la Cartier-Bresson; nella seconda, al contrario, l’utilizzo di un’ottica grandangolare costringe il fotografo ad avvicinarsi maggiormente alla scena, influenzandola a sua volta. E’ una dicotomia emblematica, la contrapposizione tra mera osservazione e partecipazione. A questo proposito, quali figure hanno contribuito a plasmare il tuo linguaggio fotografico e qual è stato il tuo modus operandi?
Lo stile di Cartier-Bresson non mi ha ispirata. Franco Zecchin, collega e compagno di vita in quel periodo, lo apprezzava maggiormente e ciò si rispecchia nelle sue foto: qualche volta ironiche, caratterizzate sempre da un certo equilibrio compositivo. Quasi per istinto nutrivo profonda stima verso l’opera di Diane Arbus, sebbene in seguito abbia smesso di prenderla a modello. Per il resto, i miei riferimenti culturali non sono tanto da ricercare nella “fotografia di strada”, quanto nel filone americano della concerned photography, la fotografia impegnata. Guardavo con deferenza alle personalità che militavano nell'agenzia Magnum, come Josef Koudelka. Nel mio caso, l’impegno civile è nato sul campo, facendo tesoro di quel periodo terribile, fatto di violenza, dolore e corruzione. Grazie al fotogiornalismo abbiamo realizzato, forse per la prima volta nella nostra storia, che la mafia era una realtà tangibile e non qualcosa di astratto, come si voleva far credere. Bisogna dire che la fotografia “ragionata” era un lusso che non apparteneva a chi, come me, lavorava per un quotidiano. Vi erano tempi ristrettissimi da dover rispettare, si correva da una parte all’altra della città, per poi ritrovarsi in camera oscura a sviluppare i negativi e stampare entro la chiusura dell’edizione. Anche per questo non ho mai concepito il reportage in chiave classica, vale a dire come una narrazione che si snoda attraverso diverse tappe: puntavo tutto sul singolo fotogramma che doveva riuscire a trasmettere, raccontare, emozionare. Infine, la buona fotografia – questo è bene che i giovani lo sappiano – spesso capitava per caso, sebbene la scelta fosse sempre dettata da una certa attenzione verso la cultura dell’immagine e delle arti visive in generale. Non voglio mitizzare nulla: la realtà dei fatti è che le cattive fotografie sono la regola, quelle buone l’eccezione. 
3) Il lavoro che hai svolto ha travalicato i confini della cronaca, elevandosi a progetto di approfondimento e documentazione di una società controversa come quella siciliana. D’altro canto, le tue immagini sono legate a doppio filo con la guerra di mafia e concorrono a costituirne la memoria fotografica. Nel ’92, nelle stragi di Capaci e via D’Amelio, perdono la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: in queste occasioni scegli di non scattare. Perché? 
Ho fotografato di tutto, sarebbe riduttivo ricondurre la mia intera produzione agli eventi che hanno insanguinato la Sicilia. Nonostante questo, le immagini che ho sempre scelto di mostrare al mondo avevano a che fare con la denuncia condotta attraverso la mia personale forma di protesta. Quando nel ’92 vennero uccisi Falcone e Borsellino ero stanca, esausta dalla carneficina alla quale avevo assistito e che avevo testimoniato per diciotto anni, forse diciannove. Non riuscivo più ad uscire di casa, a fare bene il mio lavoro. Siamo esseri umani, non degli automi; non mi è mai appartenuta la freddezza dei fotografi di guerra, sempre alla ricerca di un conflitto da documentare, come se nulla riesca a scalfirne la sensibilità e la lucidità. È qualcosa di impensabile a meno che tu non sia un cinico, ma come fai ad esserlo con tutto quel dolore attorno? Io non ce l’ho fatta.
4) Sul finire degli anni ’80 entri in politica, prima come consigliere comunale e dopo in qualità di assessore alla Vivibilità, una carica pensata su misura per te. Il legame che hai con Palermo si è da sempre rivelato molto intenso e, a tratti, non privo di attriti: qual è stato – e qual è oggi – il tuo rapporto con la città?
Nell’85 avevo vinto un premio prestigioso, il W. Eugene Smith Grant in Humanistic Photography, grazie al quale ero riuscita a calamitare la giusta attenzione sulla città. Decisi di fare di più, così scelsi di entrare in politica e devo ammettere che la mia esperienza in veste d’assessore fu davvero straordinaria. Concepivo il mio impegno nel sociale come qualcosa di propedeutico alla lotta alla mafia, alla creazione di una cultura differente che io tentavo di promuovere. Il rapporto con Palermo è rimasto immutato nel tempo, è un qualcosa di disperato, un legame d’amore, di rabbia, anche e soprattutto di forte delusione. Di pari passo, purtroppo, anche Palermo non è cambiata: la mafia continua ad essere presente, stavolta in maniera più subdola e pericolosa. Grazie all’oscuro rapporto tra mafia e Stato non vi è più il “rumore” causato dalle stragi, dagli omicidi eclatanti, ma gli intrighi continuano ad essere perpetuati in modo sotterraneo. Nonostante un sindaco valido e capace come Orlando non si riesce a far funzionare nulla, in un’ottica e con un metodo ben precisi. Altrimenti perché vandalizzare le scuole, soprattutto quelle dei quartieri popolari come lo Zen? Evidentemente non gradiscono che vi siano pulizia, cultura, civiltà. In questa fase storica non hanno bisogno di sparare per raggiungere i loro obiettivi, ma sarebbero disposti a rifarlo laddove qualcuno si frapponesse fra loro e gli interessi ai quali ambiscono. Ricordo l’efferatezza e la ferocia dei Corleonesi, capitanati prima da Liggio e poi da Riina, pervasi da un sentimento d’odio verso la città che tentavano di conquistare ad ogni costo, di fatto corrompendo anche diversi politici. Comunque, Palermo non è assolutamente migliorata. Forse le ragazze adesso sono più libere – o meglio, credono d’esserlo – per via della tolleranza verso atteggiamenti e costumi più disinvolti, ma questa non è la vera libertà. Questa città oggi è la periferia del mondo, diversamente dagli anni della cosiddetta Primavera di Palermo, quando riuscimmo a farla risplendere invitando grandi artisti del calibro di Pina Bausch. Soprattutto c’era la speranza che le cose potessero cambiare; a quella speranza, oggi, si è sostituita la rassegnazione.
5) Nell’ultimo periodo hai terminato un interessante lavoro di rielaborazione. La tecnica che hai utilizzato consiste nell’affiancare dei nudi di donna alle tue vecchie foto di cronaca, come a voler simboleggiare una rinascita provando ad esorcizzare il male. L’interesse nei confronti della figura femminile è un dato costante che si intercetta lungo tutto l’arco della tua attività fotografica. Spiegaci i motivi di questa scelta. 
Non riesco più a sopportare le mie foto, perlomeno quelle scattate durante gli anni in cui lavorai per “L’Ora”, le stesse grazie alle quali ricevo importanti riconoscimenti. Al giorno d’oggi dovrebbero possedere soltanto un valore in quanto documentazione di fatti storici accaduti, invece rimangono più attuali che mai e questa è la prova inconfutabile che abbiamo perso. Decido così di mescolare un passato di dolore ad un presente di speranza, personificandolo attraverso la figura di colei che genera, che dà la vita. Sposto il punctum – il dettaglio della fotografia che coinvolge maggiormente – dal morto ammazzato alla dolcezza del soggetto che pongo dinnanzi. Nelle rielaborazioni utilizzo il nudo non per trasmettere sensualità, bensì sincerità, al fine di raccontare una sorta di vita interiore. La presenza costante della donna è dovuta al convincimento che mi porta a considerarci non colpevoli quanto gli uomini del male presente al mondo, almeno per quel che riguarda le dichiarazioni di guerra e finanche le lotte mafiose. Siamo state troppo complici, facendoci assoggettare senza riuscire ad opporre la giusta reazione, forse per mancanza di coraggio; tante fra coloro che l’hanno fatto sono state uccise. Tramite le mie fotografie non cerco di riscattare la figura femminile, poiché non ve n’è bisogno; piuttosto esprimo il nostro desiderio di voler gestire la società in maniera diversa, pacifica, senza prepotenze. Trovo nelle donne una bellezza, intesa in senso strettamente fotografico, che negli uomini non riesco a percepire: Mapplethorpe non la pensava così. Io, al contrario, per sentirmi davvero immedesimata nella foto, nutro il bisogno che dall’altra parte dell’obiettivo vi sia una donna o una bambina. Del resto, nella gran parte delle mie immagini, gli uomini sono spesso arrestati o morti, indissolubilmente legati alla violenza. Ho sviluppato questo lavoro fino al 2012, adesso invece continuo a combinare alcune mie fotografie ma senza scattarne di nuove. Ripesco dal mio archivio tutti coloro che per me erano un punto di riferimento, come Pier Paolo Pasolini, per provare a capire cosa mi abbia spinto a continuare, facendomi desistere dal farla finita.
6) Hai avviato le pratiche per l’apertura del Centro Internazionale di Fotografia Città di Palermo, erede ideale del Laboratorio d'IF (Informazione Fotografica), un'esperienza di tre anni condotta con Franco Zecchin e tua figlia Shobha. Una realtà inclusiva, a più voci, che sarà concepita per valorizzare il ruolo della cultura fotografica odierna e passata. Cosa puoi dirci di nuovo a riguardo?
Sto aspettando con ansia che si cominci a rendere operativa l’idea che porto avanti da tempo: le pratiche burocratiche sono giunte al termine, stiamo aspettando i finanziamenti. Ho scritto al sindaco di Palermo per ricordargli la mia veneranda età, mi piacerebbe riuscire a consegnare alle nuove generazioni qualcosa di importante. Sono molto amareggiata per gli intoppi che, sovente, incontrano i progetti di questo tipo: c’è tanto talento fotografico, qui piuttosto che altrove. Per esempio Thomas Roma, vincitore del Premio Guggenheim che fotografa unicamente Brooklyn e la Sicilia, è originario di Montelepre. Da Sellerio a Scianna, sono tanti i nomi che hanno portato alta la bandiera di quest’isola. Desidero un centro di fotografia che sia internazionale, intendendo con ciò il valore dello scambio, del contatto tra culture diverse. Un luogo dove ridare opportunità ai giovani attraverso una galleria dedicata agli studenti, dove attivare dei corsi, con la creazione di una libreria fotografica e di un archivio delle immagini di Palermo scattate negli ultimi due secoli, sia dai grandi professionisti che dagli amatori. Il progetto, molto raffinato ed elegante, è stato realizzato grazie alla collaborazione gratuita dell'architetto Iolanda Lima. Dobbiamo dimostrare di non voler più far parte di una periferia, non dobbiamo più esserlo: è il momento di riprenderci l'importanza che ci spetta.

 Articolo a cura di Davide Barbera e Giulia Morelli / Foto di Giulia Morelli (ilbecco.it)

mercoledì 5 marzo 2014

Se la grande novità è Renzi al Senato con le mani in tasca

Dopo il discorso di investitura di Matteo Renzi al Senato (quello alla Camera me lo sono risparmiato) autorevoli opinionisti si sono affannati sulla fondamentale questione: quale significato attribuire al fatto che il premier, durante il suo intervento si è messo le mani in tasca? Buon Dio, a questo è ridotta la politica italiana? A questi dettagli è affidato il destino di un Paese? I contenuti non contano più nulla, sono diventati una 'variabile indipendente'? Pare proprio di sì se, fra i tanti, sul Corriere anche Aldo Grasso in modo freddamente asettico e senza trovarvi alcunchè di negativo scrive: «A ben guardare gli argomenti che ha presentato nei suoi due discorsi contano molto poco, sono quasi un accessorio inevitabile quanto in fondo superfluo. La sola cosa che importava era il tono, la forma, la battuta».
Eh già, la 'politica spettacolo'. Di questa robaccia abbiamo fatto indigestione negli ultimi vent'anni, ovunque e soprattutto nei talk show la cui audience si è dimezzata, come dimezzata, o quasi, è la partecipazione al rito fondativo della democrazia, il voto, cosa che dovrebbe far meditare i nostri uomini politici, vecchi e nuovi.
Renzi, 'il nuovo', è la copia sbiadita dell' 'ex nuovo', Silvio Berlusconi. Come lui gioca tutto sull'immagine (ma quale immagine? Assomiglia a 'mister Bean' e ha gli occhi sfuggenti da serpente) come lui è supponente, arrogante, prepotente.
Ma fra 'il nuovo' e l' 'ex nuovo' c'è una fondamentale differenza, almeno all'origine. Anche se era stato il sodale economico di Bettino Craxi, considerato il principale responsabile del marciume della cosiddetta Prima Repubblica, Berlusconi, quando nel 1994 'scese in campo', un fattore di novità effettivamente lo rappresentava: non veniva dalla politica, ma dal mondo imprenditoriale. Io stesso, che pur non l'ho mai amato, scrissi sull'Europeo un articolo che diceva sostanzialmente: invece di fare come gli Agnelli che in Parlamento mandano i loro scherani, per la prima volta un imprenditore ci mette la faccia in prima persona, di economia dovrebbe intendersene, vediamolo alla prova. Poi Berlusconi è diventato l'attore principale di quel 'teatrino della politica' che tanto affettava di disprezzare e la prova è stata disastrosa. Sfido chiunque ad affermare che l'Italia dal 1994 al 2008 (quando interviene una crisi internazionale che rende poco valutabile la responsabilità dei politici italiani), in cui Berlusconi ha governato per una decina d'anni, sia migliorata di un ette.
La carriera di Matteo Renzi, che è in politica dal 1996, da quando aveva 22 anni, è stata tutta interna agli apparati di partito (e che sia il Ds o un'altro ha poca importanza) e si è consumata attraverso le consuete lotte, oscure, feroci, degradanti, a volte truffaldine. Renzi dice: «Siamo all'ultima spiaggia». Ma chi ci ha portato a questa spiaggia se non quella partitocrazia cui lui appartiene a pieno titolo? Ha ragione Grillo quando, nel famoso 'streaming', dice «Tu sei giovane ma sei già un vecchio».
Alla volte qualche lettore mi chiede perchè io prenda tanto a cuore le vicende dei Talebani afgani. Premesso che nei Talebani difendo l'elementare diritto di un popolo, o di parte di esso, a resistere all'occupazione dello straniero, comunque motivata, del loro mondo ciò che mi attrae è che quello che conta è il coraggio, fisico e morale, e che il prestigio si conquista con le azioni, non perchè ci si è messi una mano in tasca.