È una mite
mattina d'inizio gennaio, Palermo sembra una bella addormentata che
riposa tra lenzuola intrise di malinconia nel giorno dopo della festa.
Raggiungiamo Letizia Battaglia nel suo appartamento al centro della
città. Ci apre la porta lentamente, si affaccia dalla fessura, Pippo
riesce ad uscire in corridoio e non smette di abbaiarci. Con un urlo
deciso Letizia lo richiama e con la stessa voce potente e sicura ci
invita ad entrare. La casa è il suo riflesso: fotografie appese alle
pareti, i ricordi e gli amori sono lì. Tutto ciò in cui crede e ha
creduto, ma soprattutto quello per cui ha lavorato una vita.
Opera attivamente già dalle seconda metà degli anni '70,
impara a fotografare sul campo; scatto dopo scatto, rullo dopo rullo,
la sua tecnica si perfeziona sempre più. Le immagini di cronaca
realizzate per il giornale “L’Ora” l'hanno resa un'icona all'interno del
panorama fotogiornalistico del secolo scorso. I suoi scatti hanno creato la memoria fotografica degli anni in cui Palermo fu il teatro della guerra tra cosche mafiose;
ma lei, come tiene a precisare, non è la fotografa della mafia.
Altrettanto degno di nota è il lavoro di documentazione su una Sicilia
parallela: immagini di quotidianità e di festa, ritratti di donne e
bambine, attraverso le quali racconta la sua visione della realtà.
1) La
tua carriera da giornalista prende avvio a Palermo, a cavallo tra gli
anni ’60 e ’70. Nonostante ciò, l’incontro con la fotografia avviene
soltanto in un secondo momento, nel fervente clima di una Milano
travolta dai movimenti studenteschi ed operai. Infine, il tuo ritorno
nel capoluogo siciliano, quando la violenza esercitata dalla mafia
raggiunge il suo apice. Raccontaci com’è andata.
Più che una partenza, la mia fu una vera e propria fuga da Palermo, avvertivo la necessità di cambiare aria. Dal ‘69 collaboravo con il giornale “L’Ora”,
occupandomi della cronaca cittadina palermitana. Nel ’71, in seguito
alla separazione da mio marito, partii alla volta di Milano con le mie
figlie, convinta di poter collaborare con altre testate giornalistiche e
soprattutto con le riviste. Il lavoro scarseggiava e bisognava
ingegnarsi: illustrai loro le mie idee, le quali vennero accolte con
entusiasmo, ma era necessario che agli articoli venissero abbinate delle
immagini e fu così che acquistai la mia prima macchina fotografica. Di
conseguenza il mio approccio con la fotografia non fu dettato,
almeno inizialmente, da una vera e propria passione; riuscire a
procurarmi dei buoni scatti, in modo tale da poter continuare a
lavorare, era il modo per garantirmi l’indipendenza che mi ero
conquistata. Ritornai a Palermo nel ’74, quando Vittorio Nisticò, direttore de “L’Ora”,
m’incaricò di curare l’impostazione grafica del giornale. Negli anni
cinquanta era stato il primo quotidiano italiano a pubblicare inchieste
di denuncia sulla presenza della mafia in Sicilia e, a distanza di
vent’anni, la percezione del fenomeno mafioso rimaneva blanda.
L’operazione di rimozione e di sottovalutazione era agevolata dal fatto
che, dapprima, gli stessi criminali sembravano coinvolti in una lotta
intestina che poco o nulla aveva a che fare con il resto della società.
Presto, però, gli orizzonti mutarono e la brama di potere della
criminalità organizzata si tradusse nel suo volersi insediare nelle
istituzioni e nei luoghi di comando.
2) Nella biografia a te dedicata,
Giovanna Calvenzi analizza la differenza che intercorre tra due diverse
tecniche di fotogiornalismo: nella prima vi è l’uso di un’ottica
“normale”, a fronte di un atteggiamento più distaccato da parte del
reporter, à la Cartier-Bresson; nella seconda, al contrario, l’utilizzo
di un’ottica grandangolare costringe il fotografo ad avvicinarsi
maggiormente alla scena, influenzandola a sua volta. E’ una dicotomia
emblematica, la contrapposizione tra mera osservazione e partecipazione.
A questo proposito, quali figure hanno contribuito a plasmare il tuo
linguaggio fotografico e qual è stato il tuo modus operandi?
Lo stile di Cartier-Bresson non mi ha
ispirata. Franco Zecchin, collega e compagno di vita in quel periodo, lo
apprezzava maggiormente e ciò si rispecchia nelle sue foto: qualche
volta ironiche, caratterizzate sempre da un certo equilibrio
compositivo. Quasi per istinto nutrivo profonda stima verso l’opera di Diane Arbus,
sebbene in seguito abbia smesso di prenderla a modello. Per il resto, i
miei riferimenti culturali non sono tanto da ricercare nella
“fotografia di strada”, quanto nel filone americano della concerned photography, la fotografia impegnata. Guardavo con deferenza alle personalità che militavano nell'agenzia Magnum, come Josef Koudelka. Nel
mio caso, l’impegno civile è nato sul campo, facendo tesoro di quel
periodo terribile, fatto di violenza, dolore e corruzione. Grazie al fotogiornalismo
abbiamo realizzato, forse per la prima volta nella nostra storia, che
la mafia era una realtà tangibile e non qualcosa di astratto, come si
voleva far credere. Bisogna dire che la fotografia “ragionata” era un
lusso che non apparteneva a chi, come me, lavorava per un quotidiano. Vi
erano tempi ristrettissimi da dover rispettare, si correva da una parte
all’altra della città, per poi ritrovarsi in camera oscura a sviluppare
i negativi e stampare entro la chiusura dell’edizione. Anche per questo
non ho mai concepito il reportage in chiave classica, vale a dire come
una narrazione che si snoda attraverso diverse tappe: puntavo tutto sul singolo fotogramma che doveva riuscire a trasmettere, raccontare, emozionare.
Infine, la buona fotografia – questo è bene che i giovani lo sappiano –
spesso capitava per caso, sebbene la scelta fosse sempre dettata da una
certa attenzione verso la cultura dell’immagine e delle arti visive in
generale. Non voglio mitizzare nulla: la realtà dei fatti è che le
cattive fotografie sono la regola, quelle buone l’eccezione.
3) Il
lavoro che hai svolto ha travalicato i confini della cronaca, elevandosi
a progetto di approfondimento e documentazione di una società
controversa come quella siciliana. D’altro canto, le tue immagini sono
legate a doppio filo con la guerra di mafia e concorrono a costituirne
la memoria fotografica. Nel ’92, nelle stragi di Capaci e via D’Amelio,
perdono la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: in queste occasioni
scegli di non scattare. Perché?
Ho fotografato di tutto, sarebbe
riduttivo ricondurre la mia intera produzione agli eventi che hanno
insanguinato la Sicilia. Nonostante questo, le immagini che ho sempre scelto di mostrare al mondo avevano a che fare con la denuncia condotta attraverso la mia personale forma di protesta.
Quando nel ’92 vennero uccisi Falcone e Borsellino ero stanca, esausta
dalla carneficina alla quale avevo assistito e che avevo testimoniato
per diciotto anni, forse diciannove. Non riuscivo più ad uscire di casa,
a fare bene il mio lavoro. Siamo esseri umani, non degli automi; non mi è mai appartenuta la freddezza dei fotografi di guerra,
sempre alla ricerca di un conflitto da documentare, come se nulla
riesca a scalfirne la sensibilità e la lucidità. È qualcosa di
impensabile a meno che tu non sia un cinico, ma come fai ad esserlo con
tutto quel dolore attorno? Io non ce l’ho fatta.
4) Sul
finire degli anni ’80 entri in politica, prima come consigliere
comunale e dopo in qualità di assessore alla Vivibilità, una carica
pensata su misura per te. Il legame che hai con Palermo si è da sempre
rivelato molto intenso e, a tratti, non privo di attriti: qual è stato –
e qual è oggi – il tuo rapporto con la città?
Nell’85 avevo vinto un premio prestigioso, il W. Eugene Smith Grant in Humanistic Photography,
grazie al quale ero riuscita a calamitare la giusta attenzione sulla
città. Decisi di fare di più, così scelsi di entrare in politica e devo
ammettere che la mia esperienza in veste d’assessore fu davvero
straordinaria. Concepivo il mio impegno nel sociale come qualcosa di
propedeutico alla lotta alla mafia, alla creazione di una cultura
differente che io tentavo di promuovere. Il rapporto con Palermo è
rimasto immutato nel tempo, è un qualcosa di disperato, un legame
d’amore, di rabbia, anche e soprattutto di forte delusione. Di pari
passo, purtroppo, anche Palermo non è cambiata: la mafia continua ad essere presente, stavolta in maniera più subdola e pericolosa.
Grazie all’oscuro rapporto tra mafia e Stato non vi è più il “rumore”
causato dalle stragi, dagli omicidi eclatanti, ma gli intrighi
continuano ad essere perpetuati in modo sotterraneo. Nonostante un
sindaco valido e capace come Orlando non si riesce a far funzionare
nulla, in un’ottica e con un metodo ben precisi. Altrimenti perché
vandalizzare le scuole, soprattutto quelle dei quartieri popolari come
lo Zen? Evidentemente non gradiscono che vi siano pulizia, cultura,
civiltà. In questa fase storica non hanno bisogno di sparare per
raggiungere i loro obiettivi, ma sarebbero disposti a rifarlo laddove
qualcuno si frapponesse fra loro e gli interessi ai quali ambiscono.
Ricordo l’efferatezza e la ferocia dei Corleonesi, capitanati prima da
Liggio e poi da Riina, pervasi da un sentimento d’odio verso la città
che tentavano di conquistare ad ogni costo, di fatto corrompendo anche
diversi politici. Comunque, Palermo non è assolutamente migliorata.
Forse le ragazze adesso sono più libere – o meglio, credono d’esserlo –
per via della tolleranza verso atteggiamenti e costumi più disinvolti,
ma questa non è la vera libertà. Questa città oggi è la periferia del mondo, diversamente dagli anni della cosiddetta Primavera di Palermo,
quando riuscimmo a farla risplendere invitando grandi artisti del
calibro di Pina Bausch. Soprattutto c’era la speranza che le cose
potessero cambiare; a quella speranza, oggi, si è sostituita la
rassegnazione.
5) Nell’ultimo
periodo hai terminato un interessante lavoro di rielaborazione. La
tecnica che hai utilizzato consiste nell’affiancare dei nudi di donna
alle tue vecchie foto di cronaca, come a voler simboleggiare una
rinascita provando ad esorcizzare il male. L’interesse nei confronti
della figura femminile è un dato costante che si intercetta lungo tutto
l’arco della tua attività fotografica. Spiegaci i motivi di questa
scelta.
Non riesco più a sopportare le mie foto, perlomeno quelle scattate durante gli anni in cui lavorai per “L’Ora”, le stesse grazie alle quali ricevo importanti riconoscimenti. Al
giorno d’oggi dovrebbero possedere soltanto un valore in quanto
documentazione di fatti storici accaduti, invece rimangono più attuali
che mai e questa è la prova inconfutabile che abbiamo perso.
Decido così di mescolare un passato di dolore ad un presente di
speranza, personificandolo attraverso la figura di colei che genera, che
dà la vita. Sposto il punctum – il dettaglio della fotografia
che coinvolge maggiormente – dal morto ammazzato alla dolcezza del
soggetto che pongo dinnanzi. Nelle rielaborazioni utilizzo il nudo non
per trasmettere sensualità, bensì sincerità, al fine di raccontare una
sorta di vita interiore. La presenza costante della donna è
dovuta al convincimento che mi porta a considerarci non colpevoli quanto
gli uomini del male presente al mondo, almeno per quel che riguarda le
dichiarazioni di guerra e finanche le lotte mafiose. Siamo
state troppo complici, facendoci assoggettare senza riuscire ad opporre
la giusta reazione, forse per mancanza di coraggio; tante fra coloro che
l’hanno fatto sono state uccise. Tramite le mie fotografie non cerco di
riscattare la figura femminile, poiché non ve n’è bisogno; piuttosto
esprimo il nostro desiderio di voler gestire la società in maniera
diversa, pacifica, senza prepotenze. Trovo nelle donne una bellezza, intesa in senso strettamente fotografico, che negli uomini non riesco a percepire:
Mapplethorpe non la pensava così. Io, al contrario, per sentirmi
davvero immedesimata nella foto, nutro il bisogno che dall’altra parte
dell’obiettivo vi sia una donna o una bambina. Del resto, nella gran
parte delle mie immagini, gli uomini sono spesso arrestati o morti,
indissolubilmente legati alla violenza. Ho sviluppato questo lavoro fino
al 2012, adesso invece continuo a combinare alcune mie fotografie ma
senza scattarne di nuove. Ripesco dal mio archivio tutti coloro che per
me erano un punto di riferimento, come Pier Paolo Pasolini, per provare a
capire cosa mi abbia spinto a continuare, facendomi desistere dal farla
finita.
6) Hai avviato le pratiche per l’apertura del Centro Internazionale di Fotografia Città di Palermo,
erede ideale del Laboratorio d'IF (Informazione Fotografica),
un'esperienza di tre anni condotta con Franco Zecchin e tua figlia
Shobha. Una realtà inclusiva, a più voci, che sarà concepita per
valorizzare il ruolo della cultura fotografica odierna e passata. Cosa
puoi dirci di nuovo a riguardo?
Sto aspettando con ansia che si cominci a
rendere operativa l’idea che porto avanti da tempo: le pratiche
burocratiche sono giunte al termine, stiamo aspettando i finanziamenti.
Ho scritto al sindaco di Palermo per ricordargli la mia veneranda età,
mi piacerebbe riuscire a consegnare alle nuove generazioni qualcosa di
importante. Sono molto amareggiata per gli intoppi che, sovente,
incontrano i progetti di questo tipo: c’è tanto talento fotografico, qui
piuttosto che altrove. Per esempio Thomas Roma, vincitore del Premio Guggenheim che fotografa unicamente Brooklyn e la Sicilia, è originario di Montelepre. Da Sellerio a Scianna, sono tanti i nomi che hanno portato alta la bandiera di quest’isola. Desidero
un centro di fotografia che sia internazionale, intendendo con ciò il
valore dello scambio, del contatto tra culture diverse. Un luogo dove
ridare opportunità ai giovani attraverso una galleria dedicata agli
studenti, dove attivare dei corsi, con la creazione di una libreria
fotografica e di un archivio delle immagini di Palermo scattate negli
ultimi due secoli, sia dai grandi professionisti che dagli amatori.
Il progetto, molto raffinato ed elegante, è stato realizzato grazie
alla collaborazione gratuita dell'architetto Iolanda Lima. Dobbiamo
dimostrare di non voler più far parte di una periferia, non dobbiamo più
esserlo: è il momento di riprenderci l'importanza che ci spetta.
Articolo a cura di Davide Barbera e Giulia Morelli / Foto di Giulia Morelli (ilbecco.it)
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